Nella partita del gas ci sono diversi attori e schieramenti. Sembrano essere poche le strategie di massima e molte le iniziative bilaterali o multiple. Poche le converge e molte le divergenze. Particolarmente indicativa è la situazione in Europa.
Da una parte, l’Ue ha elaborato una pianificazione di rifornimenti e di mercato che tenta costantemente di implementare sulla base di parametri prestabiliti secondo un’ottica di liberalizzazioni, privatizzazioni e dismissioni che dovrebbero essere funzionali alla creazione di un mercato europeo dell’energia. Dall’altra, sono attivi i singoli Paesi con le rispettive industrie energetiche strategiche e compartecipazioni, costruendo reti di accordi per produzione, fornitura e acquisto che spesso si intrecciano.
Un fattore cruciale, all’interno di questo quadro, rimangono le relazioni euro-russe e più in generale intra-euroasiatiche. E l’insieme degli approvvigionamenti energetici è di per sé un moltiplicatore delle interconnessioni politico-diplomatiche. Energia per produrre diplomazia. La dinamica energetica come variabile di attuali e futuribili assetti geopolitici. Con una certezza: il centro nevralgico del gas è a Est. A rifornirsi saranno nuove forme di Ostpolitik. I tubi non faranno storia a sé.
L’Ue, sin qui, tra costanti e contingenze, ha intavolato una prospettiva di piattaforma energetica del gas che si propone di filtrare sia alcune presunte tendenze di massima che concernono la produzione e la fornitura, sia alcune altre di carattere più marcatamente geopolitico.
Lo schema seguito da Bruxelles per il gas poggia su alcuni dati percepiti e annesse soluzioni:
- una riduzione del consumo a causa della crisi economica
- un incremento della produzione del tipo shale negli USA, cui dovrebbe seguire una diminuzione della domanda di gas naturale liquefatto (Gnl) da parte del mercato americano
- un conseguente surplus di Gnl statunitense da indirizzare sul mercato europeo
- la strategia europea del 20-20-20 anti-inquinamento che dovrebbe determinare un calo del consumo
- un aumento dell’efficienza energetica su scala continentale, cui si somma il crescente ruolo delle fonti rinnovabili.
- il progetto di produzione di shale gas anche in Europa
- il progetto Nabucco da portare avanti
- l’intenzione di promuovere un’autonoma rete di trasporti e un sistema di stoccaggio sotterraneo
- l’obiettivo di separazione dell’attività di trasporto e distribuzione da quelle di produzione e fornitura
- raggiungimento successivo del mercato libero e sviluppo mercato spot
- susseguente superamento di contratti a lungo termine e della formula Groningen, con la quale il prezzo del gas è legato ad un paniere di prodotti petroliferi.
Rispetto a questo ventaglio, gli indicatori sembrano fornire elementi in controtendenza.
E’ molto probabile che il Vecchio Continente non riuscirà nell’intento di diminuire il consumo di gas, tanto più puntando sulle energie alternative. L’obiettivo del triplice 20% per il 2020 nei termini di quota di energia per lo sviluppo economico, riduzione dei gas serra e innalzamento della quota delle rinnovabili è, in realistica sostanza, fuori portata per evidenti motivi di ordine economico e tecnologico. Alle irrinunciabili esigenze di rilancio dello sviluppo si associano i costi e i tempi per un’aggiornata sperimentazione tecno-ambientale. L’energia verde non è la panacea in una fantomatica lotta agli idrocarburi. Anzi, reca un’impronta antieconomica alla luce dei notevolissimi investimenti fino ad ora sostenuti per progetti (all’incirca 100mld di dollari) di circoscritta e limitata efficacia, senza considerare poi il crollo dei biocarburanti (con i relativi problemi ambientali quali la deforestazione per fare spazio alla coltivazione di canna da zucchero e la riduzione della produzione di derrate alimentari) e la non convincente idea di quelli di seconda generazione, cioè inerenti la lavorazione di legno e alghe.
Sull’onda di discutibili formulazioni di climatologi, la condotta anti-idrocarburi di Bruxelles alla lunga è destinata a scontrarsi con la realtà di costi insostenibili e valutazioni ambientali più corrispondenti ad un crisma ideologico che a ponderate considerazioni.
Il gas, invece, rimane la più sostenibile tra le risorse naturali dal punto di vista ecologico.
Lo shale gas: pista non praticabile
L’idea di ricorrere al gas non convenzionale si presenta ostica negli Stati Uniti e lo sarebbe ancor di più in Europa.
La lavorazione degli scisti argillosi in cui il gas è contenuto richiede un processo tecnologico integrato basato su tre elementi quali perforazione orizzontale, frattura idraulica e modello tridimensionale sismico. Tale processo, a detta di molti analisti, non è facilmente esportabile nel Vecchio Continente, anche perché occorrono pertinenti rilevazioni locali di carattere geologico. Un cammino complessivo di 15-20 anni e dai risultati non garantiti, specie se dello shale si dovesse fare la soluzione e non semplicemente una tra le praticabili.
Non mancano del resto rilievi ambientali: negli USA si procede con scarsa attenzione all’impatto ambientale, anche perché si opera nel deserto e in zone a poco popolate. Nei Paesi europei, invece, bisognerebbe procedere in aree comunque prossime a insediamenti, in virtù di una diversa conformazione territoriale e urbana.
Non mancano, evidenziano studi, criticità sotto lo stesso profilo economico, giacchè la produzione sarebbe redditizia – come dimostra l’esperienza americana del giacimento di Barnett e dei bacini di Fayetville e Woodford – solo se legata a soglie di prezzo piuttosto alte.
Un’altra scelta non convenzionale sarebbe il biogas, ottenibile da concime di vacca e da rifiuti di fognatura. Un efficace soddisfacimento di parte del fabbisogno energetico non appare realistico neanche in questo caso.
E’ evidente come nella disputa sul gas non convenzionale si intreccino tanto gli interessi di lobby quanto gli intendimenti politici.
Ne è prova lampante l’insieme delle argomentazioni addotte a supporto di una strategia ad excludendum della Russia quale partner principale per gli approvvigionamenti di gas naturale.
Le argomentazioni ecologiste, già di per sé parte di quel costrutto ideologico che è il global warming, veicolato forzatamente e strumentale ai progetti di determinati centri decisionali industrial-finanziari, vengono utili ai fini di una policy del gas anti-russa.
Ma su tutte, c’è un’argomentazione che è una esplicita accusa: Mosca fa del gas “un’arma energetica” dai risvolti politici per ricattare i vicini e minare la sicurezza dell’Europa con forti vincoli di dipendenza. Gli Stati Uniti in primis paventano una situazione di questo tipo. Ma più in generale si tratta di un’impostazione euroatlantica che inquadra, all’interno degli equilibri di potenza e geostrategici, la Russia come un avversario da contenere e limitare, in modo particolare evitando una sua saldatura politica ed economica con la penisola europea, parte della massa eurasiatica.
Ma, rimanendo alla politica del gas, una direttrice che cerchi di svincolare i Paesi europei da Mosca – come si vede – non può avere vantaggi in termini di sostenibilità economica ed efficienza degli approvvigionamenti.
E’ oggettivo il problema delle importazioni. Infatti, la produzione interna di gas dell’Europa è destinata ad un ulteriore ridimensionamento (come nel caso di quella norvegese, tra le più importanti) e allora i gasdotti alternativi a quelli che si diramano dalla Russia non riuscirebbero a colmare un fabbisogno continentale che, in più, non potrebbe contare neanche su di una consistente quota di gas russo se non si dovesse procedere con gli accordi.
Sul versante delle infrastrutture, ci si misura con l’insufficienza degli stoccaggi e dei terminali di Gnl di altra provenienza, al di là di progetti immaginati ma inattuati in diversi Paesi.
Le grandi compagnie non gradiscono il c.d. terzo pacchetto energetico e la divisione delle attività, per cui si pongono delle incognite circa la costruzione degli hub e gli investimenti nei gasdotti. Inoltre, bisogna considerare i limiti delle riserve e le effettive capacità dei produttori a fronte di differenti tipi di problemi, come nel caso della Norvegia, dei Paesi nordafricani o del Qatar.
Sono vulnerabili anche le forniture dall’Asia centrale e dall’Iran, sia per la crescente concorrenza di protagonisti come Cina e India, sia per la delicatezza del quadro politico-economico.
Prova ne sia l’impasse del progetto Nabucco che, come noto, poggia sul preciso intento di squalificare il gas russo e sottrarre determinate aree all’influenza energetico-diplomatica di Mosca.
Sul versante del mercato europeo, va aggiunto, in presenza di quote ridotte di gas, la stessa liberalizzazione non potrà che portare ad un rafforzamento delle posizioni dei produttori.
Fuori dalle logiche di Bruxelles e fuori dalle vecchie convenzioni schematiche, l’attuale stato del gas naturale e l’andamento multipolare degli equilibri geopolitici dovrebbero portare l’Europa a non tagliare il ponte energetico con la Russia per non sprofondare in un pesante aggravio economico di lungo termine. Le più convenienti scelte strategiche portano a Mosca.
Se l’Europa necessita di una gas-politik che non insegua una pretesa di diversificazione fuori da effettive probabilità, dal canto suo la Russia deve ancora superare in maniera compiuta delle incertezze strategiche a loro volta alimentate dalle citate diffidenze di alcuni partner occidentali.
Se per quest’ultimi si pone il problema dei fornitori, per Mosca si pone la questione della diversificazione dei clienti. Un eventuale frattura euro-russa nella partita del gas indurrebbe i russi ad una virata delle esportazioni verso l’area asiatica, in piena fibrillazione energetica, e in particolare verso la Cina.
La “Strategia Energetica” di lungo periodo è imperniata su vendite su entrambi i fronti occidentale-orientale, ma la Russia può garantirsi e garantire una propria diversificazione allorchè sia in grado di mantenere una crescita alta della produzione. E a tal proposito sembrano esserci dei dubbi che, se effettivamente confermati, imporrebbero ai russi di superare la scelta della diversificazione per procedere verso una sorta di dirottamento delle esportazioni. E gli europei, se prevalessero gli scetticismi o le avversioni politico-energetiche nei confronti dell’Orso, rischierebbero di essere le vittime di questa scelta strategica di Mosca.
La Russia ha bisogno di perseguire la priorità specifica dello sviluppo di nuovi progetti di produzione di gas sul proprio territorio, il che implica la rinuncia ad un’acquisizione totale e a qualsiasi prezzo di quello presente nell’area post-sovietica. E’ suo interesse non scivolare in una dipendenza dal gas dell’Asia centrale.
In questo senso, le politiche nei confronti del Turkmenistan si fanno più delicate e si misurano anche in proporzione al crescente peso della Cina e in relazione alla situazione interna di quest’ultima. Nell’anno in corso, i russi hanno rinnovato l’accordo con i turkmeni ad un prezzo ben più alto di quello pagato loro dai cinesi e hanno provveduto a concordare sempre con loro progetti congiunti per i gasdotti Pricaspian ed East-West che collegheranno nuovi giacimenti alle condutture già esistenti verso la Russia. I russi pagano il non basso prezzo, ma intendono evitare una dispersione delle risorse. Il gas turkmeno in effetti è meglio indirizzato alla Cina sul piano delle infrastrutture e dei prezzi e i cinesi praticano un’influenza che garantisce al Turkmenistan di muoversi con maggior disinvoltura nei confronti di Mosca, arrivando a costruire rotte del gas alternative a quelle russe.
Nella questione delle forniture russo-cinesi, invece, sussiste un punto delicato rappresentato dalla posizione dei cinesi che legano il prezzo del gas a quello del carbone di produzione locale, il quale costituisce un fattore primario nel soddisfacimento del proprio fabbisogno energetico.
Dunque, se una strategia di incremento delle esportazioni verso la Cina sarebbe comunque percorribile, la situazione dei prezzi e delle infrastrutture mette Mosca nelle condizioni di procedere con cautela. Il dibattito sulle prospettive e sui progetti è piuttosto composito all’interno dei vertici industriali russi. L’idea di assecondare in maniera sempre più convinta il mercato del gas cinese sta portando in ascesa progetti di smistamento di forniture tradizionalmente orientate in Occidente, così come alcuni nuovi, per esempio nel caso del giacimento di Kovykta, nella Siberia orientale, il cui prezzo si prevede essenzialmente basso. Nel frattempo si sta pensando ad una nuova formulazione congiunta del prezzo del gas e si è deciso di procedere nella costruzione dell’Altay, un gasdotto di primaria importanza congegnato per le forniture alla Cina dai territori della Siberia occidentale, storicamente predisposti al mercato europeo.
Ma si ritorna al punto: produzione e diversificazione
La Russia ha il problema di misurarsi con la forte incertezza sulla crescita della propria produzione e un’eventuale scelta di marcare l’export verso la Cina le imporrebbe di tagliare quote consistenti del gas indirizzato all’Europa. Ma la Russia stessa si troverebbe con un notevole calo dei proventi e con un insieme di conseguenze sul piano politico-strategico ancora da soppesare interamente.
Se il Vecchio Continente immaginasse concretamente una diversificazione degli approvvigionamenti che possa fare a meno del preponderante gas russo, correrebbe il rischio notevole non solo di rimanere “scoperta”, ma di dover cadere in una molto più pericolosa e incerta dipendenza da altri fornitori e da altre fonti di dubbia efficacia. Sarebbe una diversificazione fine a se stessa.
Europa e Russia, nella vicenda del gas, si ritrovano con punti di debolezza e punti di forza che però possono essere incrociati in una strategia comune sulla base di un assunto oggettivo: entrambi hanno bisogno l’una della dell’altra sul piano delle forniture, dei ricavi e dell’incremento tecnologico. Occorrono, allora, progetti come il North ed il South Stream e occorre un proficuo protagonismo delle industrie strategiche.
Ma non solo. La gaspolitik è una variabile di una partita più grande. L’energia è una variabile della partita geopolitica con tutte le sue implicazioni politiche, economiche, militari.
Nel montante scenario multipolare è ora di una convergenza euroasiatica.
Una nuova gaspolitik per una nuova Ostpolitik.
* Alfredo Musto, dottore in Scienze politiche e relazioni internazionali (Università “La Sapienza” di Roma), è collaboratore di “Eurasia”.
Sull’argomento vedi anche:
I rapporti Italia-Russia, l’Ambasciata USA ed il declino di Berlusconi
Shale gas vs South Stream. La campagna del “Corsera”
«Rapporti con la Russia: in Germania non ci sono le polemiche italiane» – S. Grazioli
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