Si potrebbe intitolare questa mia riflessione “L’Impero colpisce ancora”: il titolo del capitolo della saga cinematografica di Guerre Stellari mi sembra adatto a descrivere questo momento tattico (non strategico: la “nebbia di guerra” sui risultati delle mosse statunitensi e sulla risposta dei loro avversari è tutt’altro che diradata!).
Chi scrive non concorda con chi descrive gli Stati Uniti in rotta, lacerati da una fantomatica guerra di potere interna tra apparati (“Trump contro lo stato profondo”) e sulla difensiva sul piano globale. Certo, il mondo di oggi è multipolare, ben diversamente dagli anni ’90. Certo, l’economia americana è gravata dal peso del debito privato. Certo, la guerra commerciale con la Cina e la sempre più decisa esclusione delle aziende cinesi dall’accesso alle tecnologie americane finirà per spingerle a svilupparne di proprie. Ancora, le sanzioni unilaterali imposte a Russia e Cina forzano i due paesi ad una sempre maggiore collaborazione, anche in vista della costruzione di canali finanziari alternativi.
Questa però è la descrizione di un mondo multipolare (per l’appunto): non di un mondo in cui gli Stati Uniti non siano più un potere soverchiante, una potenza in grado di agire con prepotenza qualora decida di farlo. Si dimostra anzi che, qualora gli USA decidano di investire massicciamente il loro capitale geopolitico contro qualcuno, questo qualcuno viene immancabilmente danneggiato. Procediamo per aree geografiche.
In Bolivia, un colpo di stato orchestrato da oligarchie, classi medie ed alte, sette evangeliche e militari ha estromesso il governo socialista ed antimperialista senza nemmeno dover attendere il suggerimento di Washington, la quale si è limitata a ratificare la graditissima mossa, a eterna riconferma di come l’America Latina non cambi mai. L’Argentina peronista non è certo in grado di nuocere alla potenza americana, così come il Venezuela sotto assedio permanente. Gli USA hanno semplicemente deciso che provocare il collasso del madurismo non è a loro necessario (li costringerebbe a gestire direttamente la situazione nel paese): molto meglio ridurre il Venezuela a una “nuova Cuba”.
In Europa, la Brexit neoconservatrice potrebbe rendere l’Inghilterra semplicemente una sorta di cinquantunesimo stato americano, portando in dote la piazza finanziaria londinese. Quest’ultima resterà di massima importanza: l’Inghilterra post-Brexit non potrà che puntare ancora di più sull’unica industria rimasta, quella finanziaria, con ulteriori deregolamentazioni e benefici fiscali.
Quanto all’Europa continentale, i tentennamenti sulla difesa comune, la “stanchezza politica” dei tanti Carlo Alberto che governano il continente non portano ad alcun risultato, se non ad uno negativo: l’Unione Europea è ormai la Svizzera del mondo, priva di qualsiasi posizione diplomatica e politica palpabile. Il dialogo con la Russia è ad un punto morto, e gli stessi Russi non vi credono più: ci si contenta del minimo economico del completamento del North Stream II, pure gravato da pesanti sanzioni americane.
Nemmeno il progetto di blocco eurasiatico tra Russia e Cina procede a tappe forzate: la creazione di una potenza finanziaria comune che faccia una concorrenza efficace a quella anglosassone per ora non si vede, mentre il sogno inconfessabile delle aziende cinesi e russe è quello di poter tornare a fare affari sul ricco mercato americano. Dal canto proprio, le aziende europee continuano ad accostarsi al mercato cinese con sempre maggiore moderazione. Le tensioni tra gli altri paesi dell’Indopacifico (ormai teatro unico) non fanno che crescere. Non solo l’India di Modi, ormai guadagnata alla causa “neo-neocon” come ben sottolinea il nostro Daniele Perra, sembra essere il “piede americano nella porta” che si frappone ad un armonico progetto asiatico: anche le tensioni tra Corea del Sud e Giappone non faranno che rafforzare il ruolo egemone della potenza tutrice.
Non possiamo non ricordare come la Repubblica Popolare sia a propria volta gravata da un problema di debito pubblico, da ritardi tecnologici (specie nel settore aeronautico), da un cappio geopolitico che gli USA continuano a stringerle al collo nel Pacifico.
Non abbiamo mancato di sottolineare, nell’ultimo numero di “Eurasia”, che l’Africa sarà il continente del futuro; nemmeno manchiamo di sottolineare che il presente resta coi piedi ben piantati nel Vicino Oriente e nel perno geopolitico spykmaniano del Rimland.
In quest’area gli Stati Uniti hanno avuto un discreto successo nel seminare caos, anche laddove sono apparentemente lontani: Siria, Libia e Iraq restano in macerie, e il sogno di unità araba è meno di un ricordo. Persino nel campo petromonarchico le divisioni non accennano a rientrare; anzi, alle fratture tra Arabia Saudita e Qatar-Turchia si sono aggiunte quelle tra Sauditi ed Emiratini.
Oggi il popolo palestinese è (non immaginate quanto sia doloroso constatarlo) sconfitto. Non ha più amici veramente forti, con la Turchia in altre faccende affaccendata e l’Iran sotto estrema pressione. La Turchia ha sì evitato un colpo di stato atlantista, ma non ha rotto del tutto con la NATO: sembra invece più interessata a giocare a poker su vari tavoli, dalla Siria alla Libia fino al gas del Mediterraneo Orientale, perseguendo una politica assertiva che la porta ad avere più fronti aperti che veri amici per chiuderli.
Tra gli avversari degli USA è l’Iran che ha subito e sta subendo i colpi più duri. Ben più delle pur aspre sanzioni nuoce alla Repubblica Islamica la perdita del suo uomo migliore, il Generale Soleimani, figura di stratega militare e politico difficilmente sostituibile. Oltre al gravissimo danno della perdita di una simile personalità, c’è il fatto che l’Iran non può né astenersi dal reagire – pena la perdita di credibilità – né reagire all’estero colpendo gli USA o i loro alleati e regalando a Trump un sostegno in campagna elettorale. L’unica efficace risposta iraniana può essere sul fronte interno, accelerando lo sviluppo della difesa nucleare: purtroppo ci sono colpi che fanno assai più male di altri e dai quali non è facile riprendersi in tempi rapidi, e l’Iran oggi, con l’assassinio del Generale, ne ha subito uno.
Potrà dunque anche darsi che, come ha affermato Emmanuel Macron, la NATO si trovi in uno stato di morte cerebrale: questo non è più il punto della questione. Il dibattito verte sul dubbio concernente la finezza, la stupidità o l’inesistenza pura e semplice di una strategia trumpiana; ma anche questo conta relativamente, dato che un presidente americano dura al massimo per otto anni, mentre gli interessi della potenza sono permanenti. Oggi gli USA si confermano ancora in grado di giocare la propria partita su scala globale, senza dover temere concorrenti nell’emisfero occidentale, con un Vicino Oriente destabilizzato e nel quale l’unica vera battuta d’arresto di questi ultimi anni è stata rappresentata dal fallimento del golpe turco, con una Cina ingaggiata metro per metro sul piano tecnologico, commerciale e geopolitico, un’Europa inesistente ed una Russia da essa separata. Va ripetuto: come con Bush padre, con Clinton, Bush figlio e Obama e nonostante la crisi finanziaria del 2008, gli Stati Uniti restano l’unica potenza in grado di operare su scala globale, mentre rimangono immutati i loro interessi di “containment e roll back” contro la Cina, sabotaggio contro l’Europa, separazione di questa dalla Russia e destabilizzazione del perno vicino-orientale. Se i servi – sciocchi o scaltri – dell’americanismo blaterano di un fantomatico Occidente sotto un ancor più fantomatico assedio da parte di Cina, Russia e “mondo islamico” (sic), coloro che si battono per un equilibrio multipolare che superi l’imperialismo devono riprendere coscienza della forza degli Stati Uniti senza mai sottovalutarla. Il vero nemico degli USA è interno: lo squilibrio sociale causato dal capitalismo selvaggio che condanna all’esclusione intere classi sociali e gruppi etnici, un’esclusione economica, culturale, sociale e persino sanitaria.
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