Scrive Massimo Riva che «non c’è bisogno di rifarsi ai recenti allarmi della Corte dei conti per sapere che, togliendo ancora più soldi dalle tasche dei contribuenti, si deprime la crescita». (1) E si potrebbe aggiungere che non c’è bisogno di essere economisti per capire che far cadere la domanda interna per evitare il tracollo finanziario non può che danneggiare gravemente l’economia del nostro Paese – notoriamente fondata sulle Pmi e su quelle (poche) grandi imprese strategiche (pubbliche) che non sono state “liquidate” negli anni Novanta. Di conseguenza, afferma Riva che le misure approvate dal governo Monti nei mesi scorsi, sotto la pressione cogente degli attacchi speculativi sui titoli del Tesoro, fanno correre al nostro Paese il rischio di precipitare in una spirale perversa, di avvitarsi sempre più velocemente verso il basso. Ma, sebbene questa affermazione sia indubbiamente corretta e condivisibile, si deve pure rilevare che Massimo Riva, secondo cui una volta «salvata l’Italia, è bene che Mario Monti si occupi di salvare gli italiani», non prende affatto in considerazione che l’interesse dei “mercati” possa essere assai diverso da quello degli italiani (ovvero da quello della stragrande maggioranza del popolo italiano).

Al riguardo, è opportuno ricordare che il sociologo Luciano Gallino ha messo chiaramente in luce come sia del tutto inutile cercare di risolvere la crisi economica senza riformare il sistema finanziario. (2) Difatti, secondo Gallino, la crisi dei bilanci pubblici è in realtà la crisi dei bilanci delle banche, manifestatasi appieno nel 2007-2008. Eppure, nota Gallino, i gruppi finanziari «salvati dallo Stato a suon di trilioni di dollari e di euro spesi o impegnati (più di 15 in Usa, almeno 3 nella Ue) sono ora, in termini di attivi in bilancio, grandi il doppio». Insomma, nulla è cambiato in questi ultimi anni e lo tsunami finanziario adesso minaccia di travolgere l’economia dei Paesi dell’Eurozona – e si badi che anche al collasso finanziario del 1929 seguì, pochi anni dopo, il crollo dell’economia reale, la “Grande Depressione”, che l’America non superò grazie al New Deal (che invece fu un mezzo fallimento, tanto che negli Usa, se la spesa pubblica civile crebbe dai circa 10 miliardi di dollari del 1929 ai 17,2 del 1939, nello stesso arco di tempo il Pil calò da 104,4 a 91,1 miliardi di dollari e la disoccupazione aumentò dal 3,2% al 17,2%), bensì perché al termine della Seconda guerra mondiale gli Stati Uniti erano diventati, dal punto di vista economico, i padroni del mondo.

Del resto, l’analisi di Gallino è confermata dal fatto che nel dicembre scorso la Bce ha immesso nel sistema bancario quasi 500 miliardi di euro, ad un tasso di interesse dell’1%, affinché le banche potessero acquistare nuovi titoli di Stato ad alta redditività, e non al fine di aiutare le famiglie in difficoltà e promuovere, come si potrebbe credere, le attività produttive e gli investimenti in settori chiave del sistema economico dell’Eurozona. Scopo di questa generosa iniezione era, infatti, quello di «perpetuare il meccanismo della speculazione finanziaria che ha generato per anni la parte più consistente dei guadagni delle banche nell’ultimo decennio e che è stata poi, con le sue gigantesche perdite, le cui dimensioni non sono ancora mai state quantificate, la vera origine della crisi». (3)

D’altronde, dovrebbe essere ovvio – anche se la maggior parte dei cosiddetti “analisti” pare non rendersene pienamente conto – che i “mercati” agiscono anche secondo determinate “tendenze geostrategiche”, di cui non necessariamente sono del tutto consapevoli perfino i principali attori geopolitici. Si dovrebbe allora prendere atto che il terremoto finanziario che fa vacillare l’Occidente si origina da complessi processi storici che vedono emergere nuovi “soggetti” sullo scacchiere internazionale (Brics, Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, Unione Eurasiatica). Si è in presenza cioè di “tensioni di struttura” che fanno pure comprendere perché una potenza (geo)economica come la Germania tenda a rafforzare le sue relazioni commerciali con i Paesi dell’Est (Russia, Cina e India, in particolare), nonostante che la Germania non abbia (per ora) manifestato l’intenzione di preferire una strategia geopolitica basata su una autentica (e, a nostro giudizio, necessaria) Neue Ostpolitik.(4)

In quest’ottica, comunque, si dovrebbero interpretare anche le vicende della nostra Penisola, per quanto non sia un compito facile. Ovvero, si dovrebbe tener conto, pur dando per scontata l’incapacità dei vari governi Berlusconi (sul cui americanismo nessuno ha mai avuto dubbi), che gli accordi con la Russia (South Stream) e con la Giamahiria (un giro d’affari, secondo alcuni, di circa duecento miliardi di euro) erano un chiaro indice di quale doveva – e dovrebbe – essere l’ “orientamento geopolitico” dell’economia italiana, al di là di ogni altra (pur essenziale) considerazione, posto che si ritenga fondamentale l’interesse degli italiani, anziché quello dei “mercati”. Non a caso, questi ultimi, dopo l’aggressione contro la Libia (aggressione che Berlusconi in un primo momento sembrava voler condannare, anche se poi, con il crescere della pressione “interna” e soprattutto “esterna”, il “nostro condottiero” cedeva su tutta la linea, buttando a mare il Trattato di Bengasi e con esso pure ogni parvenza di autonomia del Bel Paese), hanno preteso che alla guida dell’Italia vi fosse un “loro uomo” e che Difesa ed Esteri fossero saldamente sotto il controllo di Washington, onde evitare il ripetersi di altri “giri di valzer” e che certe “posizioni” potessero essere sfruttate da “giocatori” assai più abili dello gnomo (in senso politico, sia chiaro) di Arcore.

Se però è palese che “mercati” e centri di potere atlantisti agiscano sulla base delle medesime logiche di potere, sì da configurarsi come due facce di un’unica medaglia, sarebbe pure indispensabile che la politica del nostro Paese (e ovviamente quella dell’Europa continentale) non fosse in contraddizione con i “movimenti tettonici” che stanno mutando il volto geopolitico del pianeta, mentre si sa che i “mercati” spingono in ben altra direzione. Perciò, non sorprende che si sia venuta a creare una situazione internazionale in cui ai suddetti “movimenti tettonici” si sommano le esigenze di un sistema finanziario, che per sopravvivere deve sia imporre l’ideologia delle merce in tutti gli strati sociali e in tutti i mondi vitali – dato che il Welfare europeo sarebbe morto, come Mario Draghi, un altro “condottiero italiano” al servizio dello straniero d’oltreoceano, ha esplicitamente dichiarato (lasciando intendere per quale Europa gli italiani si devono sacrificare) -, sia favorire quella “geopolitica del caos” che articola la volontà di potenza atlantista e che è a fondamento della stessa prepotenza dei “mercati”.

Il che, naturalmente, significa che mancano (ancora?) le condizioni geopolitiche per attuare quella radicale riforma del sistema finanziario (che in definitiva consisterebbe nell’imporre ai “mercati” la logica e la volontà di un “Politico sovrano”), senza la quale, come giustamente sostiene Gallino, la crisi dell’economia reale è destinata a continuare, se non addirittura a peggiorare. E tuttavia, nulla è più lontano dalla realtà che l’immagine di un unico centro di potere “politico-finanziario” in grado di dominare l’intero Occidente, dacché il capitalismo, pur nelle sue molteplici e complesse configurazioni, si caratterizza proprio per lo scontro tra gli stessi gruppi (sub)dominanti. Il “sistema” cioè non può non essere strutturato anche da “contraddizioni interne”, che derivano dalla lotta politica, riguardo alla distribuzione delle quote di potere e di ricchezza, tra i diversi membri dei gruppi(sub)dominanti. Una lotta che si combatte in Europa anche (ma indubbiamente non solo) “a colpi di spread”, ma senza che vi sia più il “paracadute” dell’anticomunismo. Sicché, anche se nulla garantisce all’Italia, o meglio agli italiani di venire salvati dagli “alleati” – i quali, nel migliore dei casi, fanno dipendere la salvezza degli italiani da quella dei “mercati” – è logico che una prolungata e forte contrazione della nostra economia non possa non preoccupare i “mercati”, considerando anche le notevoli dimensioni del nostro debito pubblico.

Si spiega dunque perché sia terminata la luna di miele tra il nostro “Commissario tecnico” e i grandi quotidiani angloamericani, come il Wall Street Journal e il Financial Times, che adesso nutrono parecchi dubbi per quanto concerne la manovra “salva Italia”, al punto che il Wall Street Journal non esita a ritenerla controproducente: «Le misure di austerity in Italia stanno bloccando l’attività nella terza principale economia dell’eurozona, secondo quanto appare dai dati economici più recenti che dimostrano come queste misure sono controproducenti [dato che] i recenti aumenti delle tasse stanno aiutando l’Italia a tagliare il suo deficit, ma al contempo stanno spingendo l’attività economica a contrarsi ancora più velocemente». (5)

In sostanza, se da un lato, difficilmente vi può essere crescita economica, dato che si devono pagare (e in buona parte a investitori stranieri) alti tassi d’interesse su un debito pubblico nettamente superiore al Pil, dall’altro, difficilmente si possono pagare tali interessi, senza crescita economica. E più aumenta lo spread più si aggravano le condizioni economiche del nostro Paese. Una “aporia” (anche nel senso letterale del termine ossia ”vicolo cieco”) che non consente di farsi illusioni, anche perché la vulnerabilità finanziaria è conseguenza di una vulnerabilità strategica a cui nessuno può seriamente credere si possa porre rimedio con la flessibilità del lavoro e le privatizzazioni di alcuni servizi. Inoltre, i “mercati” non possono non tirare la corda, rischiando perfino che si spezzi, vuoi per evitare di pagare il prezzo del divario tra economia reale e sistema finanziario (tanto è vero che «mentre il valore dell’intero prodotto mondiale nel 2010 è stato di circa 70.000 miliardi di dollari, la “sola” speculazione finanziaria sui titoli derivati fuori dai circuiti controllati, escludendo quindi il valore dei mercati borsistici internazionali e del mercato dei cambi, è valutata nel 2011 da Der Spiegel in ben 708.000 miliardi di dollari!»), (6) vuoi per costringere l’Eurozona a “farsi carico” della crisi di un “sistema” tuttora imperniato sull’egemonia del dollaro – ovverosia su quella funzione politica “mistificata” dell’Economico che è il tratto costitutivo dell’Occidente.

“Crisi” allora, in primo luogo, non finanziaria, ma politica e strategica quella che attanaglia l’Occidente e in specie l’Eurozona, sebbene il nostro Paese “sconti” pure un europeismo superficiale e “ingenuo”, che ha portato a giustificare la svendita di gran parte del nostro patrimonio strategico, nella convinzione che una volta “entrati in Europa” non ci sarebbero stati più italiani ma “unicamente” europei. Una scelta politica che si potrebbe definire “euroamericana”, piuttosto che europeista, e che non si può non ritenere assai poco “lungimirante”, se gli italiani, orfani da almeno due decenni di una classe dirigente degna di questo nome, hanno ormai ben poche possibilità di impedire che l’Italia divenga terra di conquista per potentati stranieri. Se poi in ciò qualcuno vedesse il concreto superamento del nazionalismo, anche ammesso e non concesso che fosse in buonafede, evidentemente confonderebbe il nazionalismo con il diritto di un Paese a non essere colonizzato, né da altri Paesi né dai “mercati”.

Per questa ragione, a nostro avviso, non solo l’Italia ma l’Europa dovrebbe riconoscere che i “mercati”, lungi dall’essere neutrali, sono “veicolo” di interessi (geo)strategici e (geo)economici, che sono opposti a (più che diversi da) quelli di gran parte degli europei. Vale a dire che ci si dovrebbe porre il problema di “salvare” non i “mercati”, ma i popoli europei. Un problema però che l’attuale classe politica europea non vuole porsi, avendo già scelto da tempo di lasciare proprio ai “mercati” il compito di “decidere”. Rebus sic stantibus, non ci vuole molto a capire che è la stessa l’Europa a trovarsi in un “vicolo cieco”, per aver creduto di poter aggirare gli ostacoli della geopolitica. E adesso che quest’ultima bussa alla porta del Vecchio Continente, si deve temere il peggio per gli europei, se non per l’Unione Europea. Nondimeno, è anche vero che i “mercati” non sono affatto in grado di risolvere la crisi del “sistema”, mentre il Politico può “decidere” di cambiare le regole del gioco, benché non occorra dire che sia assai improbabile che ciò si verifichi. Eppure, prima o poi, i nodi verranno il pettine. Ma se di questo si può essere certi, allora può darsi pure che non tutto il male venga per nuocere.


NOTE:

1) M. Riva, Così ci si avvita: verso il baratro, http://espresso.repubblica.it/dettaglio/cosi-ci-si-avvita-verso-il-baratro/2177258.

2) Vedi L. Gallino, Tutto inutile senza la riforma della finanza, http://temi.repubblica.it/micromega-online/tutto-inutile-senza-la-riforma-della-finanza/.

3) G. Colonna, Il Natale delle banche, http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=41703.

4) Vedi G. Friedman, The State of the World: Germany’s Strategy, http://www.stratfor.com/weekly/state-world-germanys-strategy, e la nostra analisi di questo articolo di Friedman, La strategia della Germania , http://www.eurasia-rivista.org/la-strategia-della-germania/14511/.

5) Wall Street Journal: “L’austerity in Italia è una minaccia per l’economia dell’Eurozona” http://www.repubblica.it/economia/2012/04/04/news/wall_street_journal_l_austerity_in_italia_blocca_l_economia_dell_eurozona-32729610/ .

6) Vedi nota 3.


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Fabio Falchi ha compiuto studi filosofici. Nel 2010 ha iniziato una fruttuosa collaborazione con "Eurasia. Rivista di studi geopolitici" e col relativo sito informatico, pubblicando diversi articoli e saggi in cui vengono tracciate le linee di una "geofilosofia" dell'Eurasia. Accogliendo la prospettiva corbiniana dell'Eurasia quale luogo ontologico della teofania, l'Autore ambisce a fare della posizione geofilosofica il grado di passaggio a quella "geosofica". Un tentativo di tracciare una sorta di mappa storico-geopolitica e metapolitica dei conflitti dall'antichità fino ai nostri giorni è costituito da Il Politico e la guerra (due volumi, 2015-2016); una nuova edizione di quest'opera, Polemos. Il Politico e la guerra dall'antichità ai nostri giorni, è disponibile sul sito "Academia.edu". Nel 2016, infine, è apparsa la sua opera più recente, Comunità e conflitto. La Terra e l’Ombra.