Uno spettro si aggira per le strade di Trieste ed ha avuto anche l’attenzione di qualche testata nazionale che non sapeva come riempire le proprie pagine durante il periodo estivo: il TLT!
Tale acronimo indica il cosiddetto Territorio Libero di Trieste, previsto dal Trattato di Pace che l’Italia firmò il 10 febbraio 1947 a Parigi e che sancì cospicue perdite territoriali: le colonie, i valichi confinari con la Francia di Briga e Tenda, ma soprattutto al proprio confine orientale la neonata Repubblica italiana vide svanire quasi del tutto le conquiste maturate al termine della Grande Guerra. Dopo le tragiche vicende che coinvolsero anche i civili durante il conflitto e nell’immediato dopoguerra, Fiume, la Dalmazia e gran parte dell’Istria risultavano assegnate alla rinata Jugoslavia, ma restava ancora in sospeso una questione: il futuro di Trieste. Per l’Italia, era il simbolo della fase finale del Risorgimento, la città che, assieme alla “gemella” Trento, doveva essere annessa a tutti i costi per completare il percorso di unificazione nazionale. D’altro canto il capoluogo giuliano costituiva anche la struttura portuale maggiormente sviluppata del litorale adriatico orientale, la sua comunità slava autoctona si era ampliata nella fase finale dell’Impero austro-ungarico e quindi la Jugoslavia di Tito faceva pressioni su Stalin affinché l’URSS in sede diplomatica sostenesse anche questa rivendicazione territoriale che nella primavera 1945 si era fugacemente già concretizzata. Il 10 giugno 1945 un accordo fra angloamericani e jugoslavi aveva però posto fine all’occupazione jugoslava della città, durata quaranta giorni. In attesa delle decisioni della Conferenza di Pace, la Venezia Giulia venne spartita lungo la cosiddetta Linea Morgan (dal nome dell’ufficiale britannico che la propose) in una Zona A sotto Amministrazione Militare anglo-americana, comprendente Trieste, Gorizia e l’enclave di Pola ed in una Zona B sotto Amministrazione Militare jugoslava, comprendente l’entroterra triestino e goriziano e tutta l’Istria, laddove l’assegnazione di Fiume e di Zara alla nuova compagine statale jugoslava era già fuori discussione.
In sede di Conferenza di Pace, all’Italia venne restituita la sovranità su Gorizia, benché mutilata del suo entroterra, si ratificavano le annessioni jugoslave in Istria e Dalmazia, ma la città di Trieste rimaneva in sospeso. Cominciavano le prime frizioni nel fronte antifascista internazionale, il blocco occidentale si stava irrigidendo al cospetto dell’URSS, in Cina era ricominciata la guerra civile tra nazionalisti e comunisti ed in Europa stava per calare quella che Winston Churchill avrebbe definito la “cortina di ferro”. La Jugoslavia appariva agli occhi delle potenze occidentali saldamente ancorata a Mosca, quindi le sue rivendicazioni non potevano essere esaudite del tutto e l’Italia nata dalla resistenza non poteva essere punita troppo pesantemente in termini di cessioni territoriali. Si decise di congelare la situazione prevedendo la costituzione del Territorio Libero di Trieste, suddiviso nuovamente in una Zona A sotto Governo Militare Angloamericano ed una Zona B sotto Amministrazione Militare Jugoslava, comprendenti rispettivamente la città di Trieste (tra il fiume Lisert e la località di Muggia) ed uno spicchio di costa istriana che giungeva sino al fiume Quieto. Garante dell’unità di queste due amministrazioni doveva essere un Governatore nominato dall’ONU, cosa che mai avvenne per l’impossibilità delle grandi potenze che sedevano in Consiglio di Sicurezza di trovare un accordo. Fu così che nella Zona B proseguì un’opera di assimilazione alle strutture statuali della nuova Jugoslavia (contravvenendo così a quanto previsto dalle leggi di guerra in merito alle Amministrazioni Militari), vanamente contrasta dai timidi tentativi di ricostituire un Comitato di Liberazione Nazionale, che in definitiva si risolse in un’organizzazione che coordinò l’esodo delle migliaia di italiani che non accettavano l’opzione jugoslava.
Nella Zona A, invece, vennero al pettine vari nodi della diplomazia internazionale. L’amministrazione angloamericana si trovò a disposizione un porto che, pur vantando illustri trascorsi, già nel periodo fra le due guerre mondiali aveva vissuto una crisi profonda, sia per la concorrenza di Venezia sia per l’incapacità di mantenere i contatti commerciali ed economici con quello che era stato il suo retroterra mitteleuropeo in epoca asburgica. Nella primavera 1945 gli angloamericani avevano tentato dapprima di vincere quella che gli storici chiamarono “la corsa per Trieste” e poi respinsero Tito, il quale aveva pur vinto quella “corsa” giungendo nella città contesa il primo maggio con quasi ventiquattr’ore di anticipo sulle avanguardie neozelandesi, non tanto per fare un favore alla cobelligerante Italia, quanto per avere un porto da cui rifornire le proprie truppe che sarebbero andate a presidiare Austria e Germania meridionale, regioni con cui i collegamenti erano ben tracciati fin dai tempi della dominazione austriaca. Una volta entrato in vigore il Trattato di Pace (15 settembre 1947) la città di San Giusto risultava un’enclave sospesa tra i due blocchi che andavano contrapponendosi e quindi senza alcuna possibilità di sviluppo, per cui il GMA ben pensò di inondare di dollari e di sovvenzioni una città privata del suo entroterra, con un tessuto industriale quasi del tutto azzerato e che si stava riempiendo di profughi in fuga dall’Istria. D’altro canto erano presenti anche agenti che, sovvenzionati da Belgrado, portavano avanti una propaganda che faceva leva sulle prospettive di sviluppo economico e commerciale che l’appartenenza alla Jugoslavia avrebbe assicurato. Pochi mesi dopo si sarebbe consumato lo strappo tra Tito e Stalin, per cui nel fronte comunista giuliano a tali iniziative filojugoslave si contrapposero gli esponenti del PCI che, per coerenza con la linea cominformista, riscoprirono il proprio patriottismo e si avvicinarono alle posizioni degli altri partiti italiani presenti in città: in un momento di particolare tensione internazionale, il segretario provinciale comunista Vittorio Vidali assicurò al sindaco democristiano Gianni Bartoli che, in caso di un colpo di mano titoista su Trieste, avrebbe messo a disposizione propri gruppi armati per respingere le truppe jugoslave. Timidamente, ma neanche troppo, operava anche il governo di Roma: le recenti indagini storiche negli archivi dell’Ufficio Zone di Confine costituito all’epoca presso la Presidenza del Consiglio e presieduto dal giovane Sottosegretario Giulio Andreotti, hanno ben dimostrato come gruppi patriottici, ma anche di ex fascisti, ricevessero sostegni economici per sviluppare azioni di propaganda, pubblicazioni, attività associative e quant’altro potesse controbattere la propaganda filojugoslava: a solo titolo di esempio, nel rione popolare di Ponziana venne mantenuta in vita una squadra di calcio (il Ponziana, appunto) quasi omonima al sodalizio (l’Amatori Ponziana) che era stato affiliato con l’inganno al campionato federale jugoslavo. Insomma a Trieste arrivavano soldi da tutte le parti ma le fabbriche non lavoravano, il porto era fermo ma ognuno riceveva sussidi per portare avanti battaglie propagandistiche dall’una o dall’altra parte e per giunta arrivano cospicue e tutt’altro che disinteressate elargizioni nell’ambito del Piano Marshall: il benessere economico, tanto decantata dagli attuali indipendentisti, era di fatto frutto di artificiosità. Nel corso dei lavori della Conferenza di Pace il Senatore statunitense Connally aveva auspicato che “il TLT non [fosse] uno Stato di carta. Deve essere uno Stato reale. Con la sua indipendenza e dignità”. Indipendenza che mai vi fu poiché nella Zona A le autorità angloamericane agivano a loro discrezione, parteggiando sicuramente per le rivendicazioni italiane, ma non ponendosi problemi a sparare sulla folla cagionando morti e feriti allorché le manifestazioni per l’italianità si alzavano eccessivamente di tono, come avvenne nel novembre 1953; la Zona B di fatto era già annessa alla Jugoslavia ed un ipotetico Governatore che avesse voluto far valere le proprie prerogative avrebbe potuto anche rischiare il linciaggio da parte delle folle aizzate dalle autorità locali, come era accaduto al Vescovo di Trieste e Capodistria Antonio Santin quando si recò ad impartire Cresime nel capodistriano. Sembra fuori luogo parlare di dignità per uno staterello per giunta diviso in due parti non comunicanti e che era evidentemente destinato ad un’esistenza breve ancorché travagliata, come era successo ad altre città contese alla fine della Grande Guerra (la limitrofa Fiume, Danzica e Memel) e su cui la Società delle Nazioni, antenata dell’ONU, avrebbe dovuto fare da garante. Si trattava di soluzioni provvisorie, in attesa che la diplomazia o nella peggiore delle ipotesi le armi stabilissero un confine netto, sovente anche infischiandosene dei tanto decantati diritti di autodeterminazione dei popoli, introdotti capziosamente nel linguaggio delle relazioni internazionali da Woodrow Wilson e ripresi pure nella Carta Atlantica.
La situazione rimase in sospeso fino al 1954 appunto, poiché nel frattempo Tito, pur dichiarandosi Non Allineato, si era di fatto avvicinato con una serie di accordi regionali alla NATO, nella quale l’Italia era entrata invece a pieno titolo, quindi gli angloamericani non potevano scontentare né Roma né Belgrado. Dopo complesse trattative diplomatiche, il Memorandum di Londra dette l’amministrazione civile della Zona A all’Italia e della Zona B alla Jugoslavia, laddove le rispettive sovranità sarebbero state istituite bilateralmente solamente in seguito al Trattato italo-jugoslavo di Osimo del 1975.
Si trattò in definitiva di uno scenario molto complesso, in cui questo TLT a essere generosi fece la parte del convitato di pietra, poiché di fatto, non essendone mai stato nominato il Governatore, mai nacque, come sostenuto dall’insigne giurista Angelo Ermanno Cammarata, rettore dell’Università di Trieste, già nel 1949. Eppure la condizione di relativo benessere che allora si viveva in maniera artificiosa ed indotta solamente dagli opposti interessi che qui venivano a confliggere, viene da alcuni mesi a questa parte evocata da un movimento indipendentista, che ritiene un sopruso la sovranità italiana. A questo punto fanno più bella figura coloro i quali rimpiangono i tempi dello sviluppo portuale ed imprenditoriale cittadino ai tempi dell’Austria, allorché lo scalo giuliano prosperava con una serie di traffici e collegamenti con l’Europa centro-orientale che in effetti l’Italia non fu mai in grado di ripristinare. Va anche detto che il “Fondo Trieste” che dal 1955 in poi fece affluire miliardi sulla città si rivelò una forma di assistenzialismo che andò a surrogare le precedenti cospicue entrate finanziarie che giungevano, come abbiamo visto, dalle più disparate provenienze. Nessuna forza imprenditoriale locale, nessuna capacità d’iniziativa cittadina ha saputo usare tali contributi, ormai da tempo estinti, per avviare qualcosa di concreto ed in grado di ripristinare gli antichi fasti locali.
D’altro canto se guardiamo all’epoca di maggior splendore economico locale, scopriamo che un piccolo porto di pescatori, geloso della sua autonomia, nel 1382 aveva scelto la “dedizione” all’Austria, vista come un potere abbastanza lontano da lasciare in vigore usi e consuetudini autoctoni, ma abbastanza potente da tenere alla larga le mire dell’allora imperante Repubblica di Venezia. Questa oziosa beatitudine s’interruppe con l’istituzione del Porto Franco nel 1717, un evento che trasformò l’assetto urbanistico cittadino ed avviò un vorticoso sviluppo economico, i cui principali protagonisti erano tuttavia imprenditori giunti dal resto dell’Impero, dalla Serbia, dalla Grecia, dall’Armenia o ebrei che avevano colto le potenzialità di sviluppo della città, i cui abitanti si accontentavano di farsi assumere e di migliorare il proprio livello economico, ma senza prendersi il rischio d’impresa. Eppure gli indipendentisti odierni sono sicuri che, una volta costituito il TLT, una classe dirigente locale saprà sviluppare le potenzialità di Trieste sotto l’egida del Governatore finalmente nominato dall’ONU, il cui Consiglio di Sicurezza, incapace di deliberare in maniera efficace sugli scenari di crisi internazionale, troverà un momento di olimpica pace e di concordia per rispolverare il Trattato di Pace del 1947 ed attuarlo del tutto in un mondo che nel frattempo, en passant, è completamente cambiato. Certo, il TLT negli auspici del succitato delegato statunitense alla conferenza di pace doveva diventare uno Stato a tutti gli effetti, ma nella misura in cui si voleva costituire uno Stato fantoccio dotato di un interessante porto con possibile base militare annessa incuneato alle porte dei Balcani e dell’Europa centrale, un punto avanzato per impiantarvi le frequenze di Radio Free Europe. Si intendeva eventualmente fare di una provincia contesa un punto avanzato per le proprie mire egemoniche, come è avvenuto più tardi con il Kosovo, cui, oltre l’indipendenza è stata regalata pure la munitissima base militare di Camp Bondstell. Non che l’Italia repubblicana abbia disatteso parte di queste aspettative, poiché nella vicina Aviano aerei ed armamenti nucleari a stelle e strisce spadroneggiano e nel corso degli anni Novanta Trieste è stata punto d’appoggio privilegiato per le portaerei della US Navy impegnate nelle guerre della ex Jugoslavia: in effetti lo scalo giuliano rientra fra quelle strutture portuali, aeroportuali e militari cui le forze USA hanno già libero accesso e che punteggiano l’italico stivale.
Questi improvvisati esperti del diritto internazionale non hanno colto il senso di astrattezza e di illusorietà che permea tale materia, la quale è storicamente dimostrato che soggiace alla legge delle armi ed alla volontà del più forte. L’ONU cui questi separatisti fanno appello è d’altro canto lo stesso organismo che ha emesso una caterva di risoluzioni rimaste inattuate perché configgenti con gli interessi delle grandi potenze (basti pensare a tutte quelle indirizzate a Tel Aviv al fine di abbandonare i “Territori occupati”). Non è nemmeno ben chiaro come dovrebbe avverarsi questo fantomatico “passaggio di poteri” dalla sovranità italiana al mandato ONU: Se l’Italia si rifiutasse di lasciare “strada libera” all’indipendente territorio? Se l’Italia decidesse di porre un blocco commerciale ed economico su Trieste? Se l’Italia si rifiutasse di consegnare quando dovuto (fondi pensionistici, tasse, conti correnti) alla città “ribelle”? Se ci fosse un vero movimento popolare contrario all’indipendenza? Al momento il Movimento indipendentista (Movimento Trieste Libera), si trincera dietro una risposta che sembra troppo ingenua per essere presa sul serio e che possiamo riassumere nell’assioma “se l’ONU ordina, l’Italia deve rispettare la decisione, altrimenti verranno inviati i Caschi blu a supporto della Guardia civica (dovrebbe trattarsi della polizia del TLT)”. A costoro non è neppure chiaro il concetto di “Stati successori” e pertanto limitano le loro rivendicazioni alla vecchia Zona A del TLT, attualmente sotto sovranità italiana, poiché la Zona B che passò alla Jugoslavia oggi risulta spartita tra Slovenia e Croazia. Può darsi che tale ignoranza affondi le proprie radici nel fatto che parlar male dell’Italia è sport nazionale radicato e di facile applicazione, laddove fa molta più paura il nazionalismo sloveno e croato, corroborato a suo tempo dalle guerre per distaccarsi dalla Jugoslavia ed oggi rinfocolato dall’ondata di euroscetticismo che ha accompagnato l’ingresso di Lubiana e Zagabria nelle strutture comunitarie europee. In effetti costoro il prossimo 15 settembre scenderanno in piazza a Trieste per ricordare che quel giorno nel 1947 entrò effettivamente in vigore il Trattato di Pace che avrebbe dovuto costituire il TLT, laddove dall’altra parte del confine avranno luogo manifestazioni dal forte carattere nazionalista in memoria del 15 settembre 1943, giorno in cui, nel caos conseguente all’8 Settembre, le forze partigiane slovene proclamarono l’annessione del litorale alla Slovenia, futura repubblica della Jugoslavia federale, laddove i loro compagni croati già alcuni giorni prima avevano decretato unilateralmente l’annessione della restante parte dell’Istria alla nuova futura Croazia.
I vessilliferi dell’indipendentismo locale vedono, pertanto, nel governo nazionale la causa di tutti i mali locali e portano ad esempio di sviluppo altre città-stato come Montecarlo o microstati che sono parimenti noti come paradisi fiscali e luoghi di riciclaggio di denaro sporco: Roma sarà anche ladrona, ma allora qua non si fa appello all’onestà fiscale e contributiva, ma alla gara a chi è più lestofante e bravo a fare giuochini finanziari. Viene anche sovente portata ad esempio Hong Kong: non è chiaro a tutti che questa città, che comunque a differenza di Trieste conta 7 milioni di abitanti, dapprima era una delle perle del Commonwealth britannico e oggi gode di un regime fiscale ed amministrativo straordinario, il quale, però, e perfettamente integrato nell’economia di una delle principali potenze economiche attuali che è la Cina. Ci troviamo, infatti, nell’epoca dei grandi spazi continentali, in cui entità con poco più di 200.000 abitanti come questo fantomatico TLT sarebbero ridicole se non supportate da qualche superpotenza. Per inciso, questo concetto non è estraneo nemmeno ad alcuni dei militanti del MTL, tanto che sul loro profilo Facebook non è difficile trovare esternazioni di gioia ogni qual volta una nave militare americana attracca nel porto di Trieste: arrivano, di nuovo, i “liberatori”?
Che l’Italia non abbia saputo finora valorizzare le potenzialità economiche e strategiche di Trieste è fuori di discussione, così come le classi dirigenti indigene poco hanno fatto, al di là di triti e ritriti proclami, per usufruire delle opportunità che gli sconvolgimenti geopolitici dell’Europa centro-orientale hanno creato vent’anni fa. Tuttalpiù è stato propagandato un nazionalismo sterile, acritico, fortemente anti-slavo, che ha castrato quelle che possono essere le direttive di sviluppo economiche e commerciali nel contesto geopolitico mitteleuropeo, che nessuno nega. Ma è altresì d’obbligo ribadire l’appartenenza culturale e nazionale della città al nord-est d’Italia. Dall’autonomismo dalmata ottocentesco fino a pensatori giuliani novecenteschi, non sono mancati stimoli autonomisti e progetti di creare entità statuali che facessero da cerniera tra i tre mondi che qui si intersecavano (latino, slavo e tedesco), ma si parlava di progetti di ampio respiro, che riguardavano un territorio che partiva dalla Dalmazia meridionale e giungeva sino alle Alpi Giulie, rispettoso dei diversi caratteri nazionali che qui insistevano. L’attuale movimento indipendentista presenta, invece, un carattere di anti-italianità esasperata, cui si accompagnano generosi messaggi slavofili, accompagnati dalla mancata rivendicazione della Zona B, al quale si sommano poco chiare fonti di finanziamento, che permettono, tra le altre cose, di organizzare manifestazioni di piazza, vasti volantinaggi, pubblicazione di un settimanale ad ampia diffusione e mantenimento di un’ampia sede in pieno centro città. All’ingresso del Parlamento di Lubiana campeggia un affresco che fra l’altro commemora pure l’ingresso delle truppe di Tito a Trieste, il vecchio motto “Tršt je naš” viene rispolverato da frange ultranazionaliste cui fanno eco bizzarri personaggi triestini non solo appartenenti alla comunità slovena (e in alcuni passaggi fiancheggiatori del movimento indipendentista) e le tragedie che coinvolsero le popolazioni di queste terre prima, durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale vengono brandite (invero dall’una e dall’altra parte del confine) come clave nell’agone politico rendendo ardua una serena riconciliazione politica. In un contesto in cui l’Italia viene spesso presentata come invasore, fascista e sterminatore, ecco che l’indipendentismo del TLT approfitta di questo humus e dell’attuale crisi economica. Le statistiche dimostrano che il porto di Trieste, così come il dirimpettaio scalo di Capodistria, gode di buona salute e migliora costantemente le sue prestazioni, altresì nel capoluogo del Friuli Venezia Giulia la crisi si fa sentire e quindi chi promette la cacciata di Equitalia, un regime fiscale più equo ed autogestito nonché la nascita di un paradiso fiscale può trovare facilmente seguito. Condividendo un approccio alla Alain De Benoist, è ovvio che lo Stato nazionale di retaggio giacobino in questa fase storica è in crisi ed hanno maggior ragion d’essere le autonomie locali; tuttavia nei grandi spazi della geopolitica contemporanea lo Stato, integrato in alleanze dignitose e trattati internazionali stipulati nei reciproci interessi fra le parti, ha ancora una sua precisa funzione negli ambiti di coordinamento, difesa e politica estera. L’autonomia locale basata su principi di sussidiarietà e con le adeguate leve economiche ed amministrative a disposizione può rilanciare l’economia triestina così come quella di altre aree in difficoltà; l’opzione indipendentista che viene proposta significa negare l’italianità di Trieste, dopo che già le sue province limitrofe hanno visto cancellare tragicamente una presenza latina radicata da secoli, nonché creare una scatola vuota priva di vita propria che dovrebbe appena capire da che parte cominciare il suo percorso di sviluppo economico mentre i limitrofi porti di Capodistria e di Fiume vedrebbero indebolirsi di nuovo un concorrente recentemente rafforzatosi.
Nel suo libro Il mondo fatto a pezzi (Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2008) François Thual ravvisa una precisa intenzione geopolitica di matrice atlantista nel recente revival di indipendentismi e localismi più o meno fondati, finalizzati a creare instabilità o Stati fantoccio a disposizione delle talassocrazie occidentali. Riproporre il Territorio Libero di Trieste, per giunta nella sola componente della Zona A, non solo appare un generoso omaggio a certi progetti sloveni e croati, ma può anche rientrare nell’ottica di creare entità che per la loro sopravvivenza debbono ricorrere al patronato statunitense. Per far quadrare il cerchio, varie fughe di notizie così come la cronaca politica hanno dimostrato la sudditanza delle classi dirigenti di Lubiana e Zagabria nei confronti di Washington, cui devono ancora riconoscenza per l’appoggio alla loro lotta indipendentista contro la Jugoslavia di Milosević. Interrogarsi sul cui prodest non vuol dire esercitare la dietrologia, bensì analizzare le forze in campo e contestualizzare un fenomeno che avanza proponendo con faciloneria slogan demagogici che si rifanno ad un utopico passato che non è neppure esistito.
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