“From the Halls of Montezuma,
To the shores of Tripoli;
We fight our country’s battles
In the air, on land, and sea”
[Dalle sale di Montezuma,
Alle spiagge di Tripoli;
combattiamo le battaglie del nostro paese
in cielo, in terra, in mare]
(Inno dei marines)
Nell’inno dei marines figura un chiaro riferimento alle spiagge di Tripoli. In effetti fu contro i tripolini che il reparto speciale degli Stati Uniti fece il proprio battesimo del fuoco fuori dal Nuovo Mondo. Erano i primi anni dell’Ottocento, e a quell’epoca la marina americana era una neonata che cercava di difendere i propri traffici commerciali nel Mediterraneo dai pirati della “città-stato” di Tripoli, che coraggiosamente davano l’assalto alle navi di quei paesi che non volevano pagare loro il dovuto pedaggio.
Da allora le cose sono cambiate. Gli Usa sono diventati la prima Potenza marittima del globo e dalla fine del secondo conflitto mondiale il Mediterraneo è diventato un loro mare.
Con la fine del colonialismo italiano, la Libia raggiunse un’indipendenza per lo più formale sotto la monarchia senussita di re Idris e gli americani furono ben contenti di puntellare la loro presenza nel Mediterraneo con le basi libiche. Quando vennero scoperte ingenti riserve di petrolio le multinazionali anglo-americane si gettarono sul paese con avidità. Il regime senussita era talmente succube delle Grandi Potenze che quando l’Italia, tramite l’Eni di Mattei, strinse un accordo per l’esplorazione e lo sfruttamento degli idrocarburi nel paese (per altro secondo uno schema molto favorevole al paese arabo), bastò una telefonata dell’allora presidente americano Kennedy perché re Idris costringesse alle dimissioni il suo primo ministro seppellendo di fatto l’accordo sottoscritto con l’Italia. Non si capisce per tanto come Sergio Romano possa parlare di Idris come di “un re bonario e saggio che aveva stabilito rapporti cordiali con l’Italia, aperto il paese all’Eni nel 1959” . Ma sono molte le cose che vengono sostenute con eccessiva faciloneria nel corso di questi giorni. Quella era la situazione della Libia prima del golpe rivoluzionario del settembre 1969, che portò al potere i “giovani ufficiali”, tra cui Gheddafi.
La nuova giunta prese successivamente misure modernizzatrici in un paese estremamente arretrato, a cominciare dalla nazionalizzazione del settore petrolifero.
Nel 1986, infastiditi dalla politica antimperialista del piccolo paese arabo, gli Usa si fecero ancora vicini alle coste libiche. In questo caso si limitarono a bombardare Tripoli, causando ingenti danni e mietendo numerose vittime, tra cui la figlia di Gheddafi.
Nonostante il “disgelo” intervenuto da circa 10 anni tra la Libia e gli anglo-americani, l’attuale crisi in cui è precipitato il paese arabo è diventato il nuovo round del match che oppone l’ormai vecchio colonnello alle vecchie Potenze imperialiste. Questa è l’unica cosa certa in una situazione che pare piuttosto difficile da decifrare e che viene raccontata in modo ancor più confuso dai media.
E’ lecito chiedersi cosa davvero stia accadendo in Libia. Perché le notizie dei media richiamano episodi drammatici ma assolutamente non appurati ed a volte nemmeno congruenti.
Sappiamo solo che nel paese è in corso un’ampia sollevazione e che il livello di violenza raggiunto può già far parlare di guerra civile. Non sappiamo con certezza quale sia l’indirizzo della rivolta, ma il fatto che i ribelli sventolino le bandiere del vecchio regime monarchico e feudale di re Idris e non la bandiera del loro paese (come invece è avvenuto in Tunisia ed Egitto) non lascia presagire nulla di buono per il popolo libico. E nemmeno per noi perché, come ha acutamente notato sin dalle prime battute della crisi Fidel Castro, il rischio di un intervento americano diretto è forte. Ed allora i marines potrebbero tornare sulle spiagge di Tripoli, questa volta per restarci.
Per questo è opportuno chiarire alcune questioni e porsi necessarie domande al fine di mettere insieme i tasselli di un intricato mosaico.
La Libia sotto le bufale
Ci sono parecchie cose che non tornano nel modo in cui questa crisi viene raccontata. Questo anche al di là delle panzane più colossali: la fuga di Gheddafi, la sua morte e la sua resurrezione su tutte.
L’esperienza dovrebbe lasciarci intuire che, al di là di chi sia Gheddafi, ci troviamo di fronte ad una montatura mediatica clamorosa. La storia del bombardamento a tappeto voluto dal dittatore sui dimostranti pacifici è grottesca quanto la ricorrente frottola delle fosse comuni, lanciata a titoli cubitali ad ogni crisi per scioccare la smarrita opinione pubblica occidentale e spingerla ad accettare l’intervento propiziatorio degli anglo-americani (che le bombe sui civili inermi sono soliti lanciarle sul serio). I bombardamenti sui cittadini inermi delle città sono stati categoricamente smentiti dagli stranieri che hanno lasciato il paese.
Ma anche lo stesso svilupparsi degli avvenimenti che ci viene raccontato lascia alquanto a desiderare.
I rivoltosi, stando alle notizie fornite, sembravano dover marciare sulla capitale da un momento all’altro. La caduta di Tripoli, come il suo presunto assedio hanno tenuto le prime pagine dei giornali. La fine di Gheddafi sembrava segnata, questione di giorni, forse di ore…
La controffensiva governativa del 2 marzo ha chiarito che i rivoltosi sono inchiodati in Cirenaica e che le truppe governative fedeli al colonnello sono a circa 200 km da Bengasi…
Lo stesso Gheddafi, che, ci era stato raccontato, sarebbe stato da giorni chiuso nel bunker in attesa del suicidio (come Hitler al museo delle cere di Milano), ha parlato più volte alla televisione o al popolo sulla Piazza Verde.
Il dubbio è che tali notizie vengano date a scopo propagandistico e che vengano utilizzate come arma di guerra psicologica. Dare Gheddafi per spacciato da subito è servito a scongiurare qualsiasi intervento dall’esterno in suo soccorso e a far approvare drastiche ed inusitate misure alle Nazioni Unite.
Le uniche certezze paiono queste: che oggi la Cirenaica è in mano agli insorti ed il paese è spaccato a metà. Nessuno controlla più le frontiere del paese, nel quale è data ormai per assodata la presenza di mercenari stranieri, molto probabilmente più dalla parte degli insorti che da quella di Gheddafi. La Tv italiana ha fugacemente mostrato le immagini di un enigmatico barbuto “afghano” in bella compagnia di un uomo bianco che addestrava le milizie degli insorti a Bengasi, mentre la stampa israeliana scrive senza peli sulla lingua di militari anglo-americani al servizio della rivolta. Di fatto Usa e Gran Bretagna sono già coinvolti, seppur indirettamente.
La crisi mostra tutti i segni di una crescente complicazione. La destabilizzazione del paese arabo pone inquietanti interrogativi anche a quelle forze che hanno soffiato sul vento della sedizione e che adesso, come l’apprendista stregone, devono decidere quale prezzo pagare per portare a casa la partita. Perché è chiaro che senza un intervento diretto anglo-americano i rivoltosi non ce la faranno mai, così come è chiaro che questo intervento rischia di cementare attorno a Gheddafi gran parte del paese all’insegna della difesa della patria minacciata e che qualsiasi intervento di terra rischia di aprire un altro fronte per l’imperialismo americano.
Anche se non sono possibili al momento risposte inequivocabili ad una crisi che si sviluppa a grande velocità sotto i nostri occhi è necessario cercare di contestualizzare la situazione.
La Libia non è né l’Egitto, né la Tunisia
Innanzitutto non esiste alcun vento del deserto che è partito dalla Tunisia e che dopo l’Egitto è giunto in Libia spingendo i popoli arabi alla rivolta contro i loro regimi.
Se la crisi tunisina e quella egiziana (che era iniziata già dal 2008!) hanno inequivocabilmente elementi in comune per la caratteristica dei regimi in piazza (fiduciari degli Usa e diretti da compradores) la crisi libica rappresenta un caso completamente diverso. Semmai, un elemento in comune potrebbe essere costituito dall’esorbitante aumento del prezzo dei cereali che ha pesantemente colpito i paesi nordafricani che ne sono grandi importatori, peggiorando sensibilmente le condizioni di vita di quei popoli. Le maggiori difficoltà a ottenere un bene di prima necessità ha sicuramente costituito il lievito delle rivolte. Ma le analogie si fermano qui.
Il caso della Libia è completamente diverso da quello tunisino ed egiziano. In Tunisia e in Egitto i regimi si sono trovati di fronte all’esplosione di manifestazioni pacifiche che hanno tentato di reprimere nel sangue.
Contrariamente a quanto ci è stato raccontato lo sviluppo della crisi sembra suggerire che in Libia il regima ha dovuto affrontare da subito un’insurrezione armata di ampie proporzioni. A questa insurrezione hanno partecipato spezzoni dell’esercito e intere tribù, oltre che bande armate. Ecco perché il paese è precipitato nella guerra civile. Non possono esserci dubbi che l’insurrezione sia stata organizzata da tempo, probabilmente con il supporto esterno di oppositori al governo di Gheddafi rifugiatasi in Gran Bretagna e negli Usa, o di questi stessi paesi. La diffusione delle bandiere monarchiche mostrataci dai rivoltosi fa pensare a un’operazione pianificata con cura, perché in un regime come quello libico le bandiere della monarchia deposta non si comprano al mercato del sabato.
La fronda dell’esercito e la sollevazione dei clan tribali
Parti consistenti dell’esercito e spezzoni dell’establishment hanno da subito defezionato e la crisi si è così caratterizzata non come una manifestazione pacifica oggetto di spietata repressione ma come una vera e propria guerra civile che ha spaccato il paese in due. E c’è da chiedersi se la Libia sopravvivrà come Stato unitario e sovrano. Non si conosce il numero delle vittime degli scontri ma è chiaro che data la natura della dinamica in corso queste non possano essere messe solo sul conto del regime. E soprattutto che sono destinate a salire, comunque vadano le cose.
Alcuni aspetti della crisi libica sono destinati per molto tempo a restare avvolti nel mistero.
Ciò che emerge con certezza è il peso dei clan tribali. Molti erano forse scontenti per come Gheddafi stava tracciando la rotta di una possibile successione, orientata presumibilmente secondo criteri bonapartisti. Alcuni, in primis le tribù della Cirenaica, erano forse scontente per la redistribuzione dei ricavati del petrolio ed hanno sommato questa rivendicazione alla riscoperta di un loro particolarismo regionalistico o al rigurgito nostalgico dell’appartenenza alla confraternita senussita, che dirigeva il paese prima dell’ascesa al potere di Gheddafi. Infine è chiaro che per il momento ci troviamo di fronte alla spaccatura di una paese che non è mai stato nazione e in cui la modernizzazione operata dall’alto dal regime non ha saputo incidere in profondità sulle strutture tradizionali. Su queste debolezze, forse aggravate dalla politica che il colonnello ha seguito nell’ultimo decennio, hanno probabilmente agito con la solita capacità i servizi anglo-americani.
Da questo punto di vista è evidente l’equivoco di fondo del regime di Gheddafi e la radice dell’attuale crisi. Il dispotismo illuminato del colonnello è riuscito a tenere in patria i proventi del petrolio per dare al suo popolo un tenore di vita dignitoso ed un progresso reale, e questo già lo differenzia dai regimi tunisino e egiziano, ma non è andato al di là. Si è limitato a cooptare in questo suo disegno i clan tribali preesistenti. Ha cercato un difficile compromesso con i vari clan di un paese da sempre scomposto che è stato assemblato solo dal colonialismo italiano. L’elemento unificante era dato dalla figura carismatica del colonnello, che forse si è progressivamente appannata anche in patria, e dalla promozione dell’eclettica elaborazione ideologica contenuta nel Libro verde. La recente crisi ha mostrato le crepe dell’edificio costruito dal 1969 in avanti. Ma occorre aggiungere per onestà intellettuale che quest’opera non era affatto facile in un paese che non ha mai avuto una forte storia unitaria e che la capacità di imprimere dall’esterno un colpo di accelerazione alle contraddizioni endogene degli stati di volta in volta nel mirino dell’imperialismo è una tecnica che ha fatto notevoli progressi negli ultimi 20 anni.
L’enigmatico Gheddafi
Nonostante questo non si può certo scambiare Gheddafi con Ben Alì o Mubarak. Occorre tenerlo presente se si vogliono capire quali possono essere gli sviluppi della crisi in corso. Benché tutti questi leader abbiano guidato il paese con pugno di ferro, è stata assai diversa la politica da loro impostata e la percezione che della stessa si è avuta nelle cancellerie mondiali.
Ben Alì e Mubarak sono sempre stati i protetti ed i pupilli dei governi occidentali e i loro regimi erano spesso portati ad esempio in quanto custodi della laicità che avevano ereditato dai propri predecessori.
E’ noto che Mubarak e Ben Alì guidavano partiti che facevano parte dell’Internazionale socialista, dove amano incontrarsi noti idealisti e cantori dei diritti umani come Tony Blair, Kouchner, D’Alema…
I loro regimi erano definiti “moderati”, come quello dell’oscurantista e tirannica Arabia Saudita del resto, solo perché proni ai voleri di Washington. Gheddafi al contrario non era mai stato accolto a braccia aperte. Certo, i paesi a capitalismo avanzato hanno dovuto fare buon viso a cattivo gioco con il colonnello. Non potevano ignorare il peso della Libia nel mercato energetico globale. Ma gli anglo-americani non hanno mai digerito la politica autonoma ed antimperialista patrocinata dal leader libico, così come non gli perdonano di essere stati cacciati dalle basi che il retrogrado re Idris aveva donato loro.
Gheddafi ha compiuto varie capriole politiche nel corso di 40 anni di potere: da presunto erede di Nasser e portabandiera del panarabismo, a sostenitore dell’unità africana, da sostenitore dell’indipendenza eritrea a mediatore in numerosi conflitti nel continente nero. Da quando è caduto il muro di Berlino ha accettato numerosi compromessi con l’imperialismo americano e questo è stato il primo gesto che gli ha inimicato settori occidentali che all’inizio della Jamahiriya avevano guardato con simpatia alla sua politica. Bisogna però dire che difficilmente la piccola ed indifesa Libia avrebbe potuto continuare ad opporsi in modo frontale all’imperialismo senza fare la fine dell’Iraq di Saddam.
Infine gli hanno nuociuto, per la sinistra italiana, i suoi rapporti con Berlusconi ed il suo cinico utilizzo della minaccia della migrazione verso l’Europa. E’ difficile spiegare ai politici italiani la differenza che passa tra le polemiche da teatrino della politica interna e le regole della politica internazionale. Figuriamoci ai loro militanti… Ma se basta farsi fotografare accanto a Silvio Berlusconi in un incontro ufficiale per essere accomunato al primo ministro italiano significa che le capacità di analisi critica della sinistra sono finite molto in basso.
Ma il punto non è il giudizio su Gheddafi in quanto tale, quanto comprendere ciò che attende la Libia.
Certamente il colonnello non scapperà con la cassa, come ha fatto il clan Ben Alì-Trabelsi. Egli è un patriota convinto, è comunque un combattente che crede nella giustezza della propria politica e della propria causa e come Saddam rifiuterà le proposte di esilio dorato e lotterà fino all’ultimo. Lo farà perché dopo di sé scorge solo le forze dell’apocalisse scatenarsi sul suo paese a distruggere i frutti della rivoluzione del ’69. Lo farà specialmente se interverranno nella crisi più scopertamente gli americani.
Qualsiasi sia il giudizio sul colonnello, sul suo regime, o sulla sua politica non si può che convenire riguardo al fatto che la Libia è lanciata verso una catastrofe totale. Sia se Gheddafi dovesse tenere, perché a questo punto gli Usa si sono esposti troppo e dovranno sostenere l’opposizione in forma ancor più fattiva, sia nel caso in cui i ribelli riusciranno nell’intento di abbattere il governo centrale.
La Libia sotto le bombe
Il fatto che sulle città in mano ai rivoltosi sventoli impunita la bandiera della vecchia monarchia senussita, corrotta e infeudata all’imperialismo, non promette nulla di buono. E’ incredibile che i media parlino di bandiera della nuova Libia libera e democratica! Ancor più incredibile è vedere manifestazioni dove l’attuale opposizione italiana la innalza senza alcuna coscienza, senza alcuna vergogna. “Questo di tanta speme oggi vi resta”?
In realtà c’è poco da festeggiare. La Libia del dopo Gheddafi avrà di fronte a sé due prospettive, entrambe terribili. La prima è diventare uno “stato fallito” implodendo in una guerra civile perpetua tra le sue tribù e tra le bande armate che ormai, si dice, abbiano il controllo di interi villaggi. Altro che democrazia in questo caso: ciò che si vede all’orizzonte è una Somalia nel cuore del Mediterraneo. Un caos nel quale scomparirà qualsiasi ombra di società civile, di strutture sanitarie, qualsiasi forma di istruzione. Oppure la Libia tornerà ad essere ciò che era prima di Gheddafi: una provinciale colonia degli anglo-americani: una vacca da cui mungere petrolio e da sfruttare, per lasciare le briciole ad una ristretta élite di parassiti e traditori del proprio popolo, come erano Ben Alì e Mubarak. Come era re Idris. Come sono gli oppositori libici all’attuale regime che vengono coccolati dagli Usa. Se, invece, questa operazione di normalizzazione non dovesse funzionare ciò che attende i libici è l’inferno irakeno.
Questo a prescindere dall’aderenza alla realtà delle notizie di una prossima conquista della capitale da parte dei rivoltosi. Perché è lecito dubitarne…
In realtà non pare che gli insorti dispongano di gran ché, oltre al controllo della Cirenaica e di qualche villaggio alle spalle di Tripoli. Il resto del paese sembra nelle mani del governo. Tanto che alle ricorrenti notizie smentite su una prossima caduta della capitale ha risposto con i fatti la controffensiva governativa, che il 2 marzo è giunta a 200 km da Bengasi. La crisi si prospetta più lunga e difficile di quanto ci è stato mostrato.
Questo lascia supporre che se vogliono farla finita con Gheddafi, gli Usa dovranno intervenire ancor più massicciamente nella vicenda. Possono farlo o limitandosi a dare armi, tecnici e supporto aereo agli insorti oppure con un’ingerenza ancora più massiccia. Due loro navi hanno passato il Canale di Suez e puntano verso il golfo della Sirte.
L’Italia in ogni caso ne uscirà malissimo. Incapace di tutto, fuorché di subire i diktat di Washington. Con un governo che troppo frettolosamente ha scaricato il proprio partner e denunciato gli accordi presi e con una opposizione che sembra più alla ricerca della benedizione di Obama che di convincere gli italiani della bontà di una sua presunta alternativa.
“Ahi! Serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello!”
Spartaco Alfredo Puttini, dottore in Storia, collaboratore di Eurasia dove ha pubblicato: L’immagine della Sfinge: l’Egitto nasseriano e l’opinione pubblica italiana (nr. 3/2005, pp. 115-124), Il Patto di Shanghai (nr. 3/2006, pp. 77-82), USA e Siria: storia di un antagonismo (nr. 2/2007, pp. 189-200), La zuffa per l’Africa (nr. 3/2009, pp. 169-178), La rivoluzione islamica dell’Iran (nr. 1/2010, pp. 249-262).
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