Le consultazioni elettorali avranno presto il sapore di una cena per pochi intimi. Nemmeno a livello locale i partiti possono più contare sulla loro vecchia e abbondante platea di elettori: i dati sull’affluenza delle recentissime elezioni regionali –sette regioni al voto spalmate sull’intero territorio nazionale, dal Veneto alla Campania- sono veramente significativi. Con facilità si deduce che oggi mezza Italia, delusa e indebolita dalla crisi, non va a votare. In alcuni regioni si è superata a fatica la soglia del 50%, in altre la si è appena sfiorata, in altre ancora non s’è nemmeno raggiunta; e le statistiche dicono che vi è stato un netto scatto di affluenza nelle ultime ore di apertura delle urne, quasi per commiserazione verso dati che appartengono davvero a una democrazia dimezzata. Quarant’anni fa, nel pieno degli anni Settanta di veraci passioni politiche e partiti quasi onnipotenti, l’ascesa vertiginosa del consenso verso i comunisti divenne realtà dopo un grande exploit alle elezioni regionali. In quel contesto votò oltre il 92% degli aventi diritto. Qualcuno dirà che erano altri tempi, che l’appartenenza politica aveva allora un vero significato, che la mobilitazione delle masse in quel decennio era parte integrante della vita pubblica e privata. Che dire allora delle elezioni del 2005, dove votò circa il 72% degli aventi diritto, e del 2005, appena cinque anni fa, dove si presentò ancora oltre il 64% degli elettori? Cosa giustifica un calo così drastico in un lasso di tempo così breve?

Non tutto si può ricondurre ai degradanti scandali che hanno colpito alcuni partiti nel corso dell’ultimo lustro. Noi italiani non siamo campioni di memoria e abbiamo la tendenza a rimuovere in fretta i cattivi ricordi. Si veda il risultato della Lega Nord, in crisi alle politiche del 2013 (4%) e alle europee dell’anno scorso (6%) e ora già risorta, non solo in termini percentuali ma anche assoluti: abbondantemente in doppia cifra quasi dappertutto, quando presente, persino in Toscana dove, pur non vincendo, ottiene un inaspettato 16%, e nelle Marche. Nemmeno si può imputare tutto il crollo di partecipazione all’infausto posizionamento della tornata elettorale, a ridosso della festività del 2 giugno, poiché per molte famiglie le vacanze, anche brevi, sono ogni anno e sempre di più un miraggio. No, la bassa affluenza è una tendenza che rivela un aumento di consapevolezza di una democrazia italiana in fase di decomposizione acuta.

Non si può infatti infilare sempre la folla degli astensionisti nel calderone dell’indifferenza. Chi si astiene quasi mai è un semplice conformista, aderente alle volontà altrui. Più spesso il non voto è una dimostrazione di interessato dissenso. Non solo dissenso nei confronti dei partiti, tutti i partiti, che sono in crisi da trent’anni e che pur pretendono ancora di rappresentare le grandi maggioranze in modo tradizionale. Ma dissenso verso un modello generale di gestione dell’apparato amministrativo, quasi mai all’altezza nel soddisfacimento dei veri bisogni comuni, e che ancora ai partiti fa troppo riferimento con logiche spesso antitetiche all’efficienza e alla meritocrazia. Dalle comunità locali, linfa insostituibile del Paese, potrebbe un giorno nascere un nuovo modello di amministrazione, innovativo nel rapporto fra il pubblico e il privato, slegato dal clientelismo, applicabile poi anche allo Stato nazionale? Sì, a patto che queste si liberino dei partiti e della loro influenza, e che si costruisca un federalismo autentico, architettato per soddisfare concretamente le necessità del cittadino libero inserito nel suo contesto pubblico –la regione, la città, il villaggio- senza le ingerenze tipiche dello Stato odierno, accentratore e onnivoro, incapace di limitarsi. Restituire ad ambiti essenziali della vita, quello culturale in primis, l’autonomia necessaria per esprimersi con la dovuta libertà, è un bisogno vero. Credo che nel mondo dell’astensionismo sia vivo, fondamentalmente, un sonoro disprezzo, ben comprensibile, per ciò che i partiti si sono ridotti a rappresentare nell’epoca del tramonto ideologico, cioè una serie di burocrati intrallazzati e mantenuti, alla meglio scaltri figuranti, alla peggio inetti “figli di”; raramente seri e competenti. In più in alcune zone d’Italia non solo essi non garantiscono la dovuta efficienza amministrativa, ma scialacquano denari pubblici e privati e patteggiano con le cosche, le quali mantengono il vero controllo sull’economia (l’enorme disaffezione per il voto al Sud è anche un grido contro la politica corrotta, di chi sa dove è concentrato il vero potere). È auspicabile che oltre a quel disprezzo però vi sia l’attesa produttiva di qualcosa, di una vera novità, fuori dagli schemi tradizionali ai quali decenni di partitocrazia ci hanno abituato.


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