Il 14 aprile 2023 Evgenij Prigožin ha pubblicato sui canali collegati all’ormai celebre Gruppo Wagner un articolo dottrinale circa i processi geopolitici in atto non solo nell’Europa orientale ma più in generale sul piano globale. Il contributo risulta di notevole interesse, perché va quasi a sovrapporsi al Nuovo Concetto di Politica Estera della Federazione Russa rilasciato dal Cremlino il 31 marzo dello stesso anno.

Questo, rispetto alle precedenti elaborazioni (1993, 2000, 2008, 2013 e 2016), risente in modo determinante della condizione di confronto con l’Occidente su molteplici teatri e “domini” e si presenta come una “visione sistemica dell’interesse nazionale della Federazione Russa” in qualità di soggetto di diritto internazionale erede diretto dell’Unione Sovietica[1]. Uno dei punti centrali è quello relativo alla sicurezza informatica ed informativa, da intendersi nella più ampia accezione di “sicurezza cibernetica”. Seconda questa prospettiva, che in qualche modo rifiuta l’approccio ostile (come territorio di conflitto) allo spazio cibernetico elaborato dalla NATO nel suo ultimo Concetto Strategico (2022), l’intera “infosfera” diviene materia di sicurezza nazionale e strumento di tutela della sovranità. La sovranità digitale, infatti, appare fondamentale nell’era della “Quarta Rivoluzione Industriale” per un Paese che sta cercando di ricostruirsi come Stato compiutamente sovrano costretto (suo malgrado) a confrontarsi con l’entità tecno-mercantile postsovrana dell’Unione Europea[2]. Questa, in virtù della sua essenza puramente postmoderna, si fonda sulla cessione di sovranità su più livelli: gli Stati cedono sovranità all’UE che, a sua volta, nonostante i suoi sforzi di imporsi come potenza normativa (che detta ed impone le regole sul piano internazionale), si caratterizza per l’assenza di reale sovranità politica, essendo sottoregione periferica dell’area transatlantica, sottoposta alla volontà militare di una potenza extracontinentale.

In questo contesto, l’articolo dell’imprenditore russo coglie un punto importante, soprattutto alla luce dell’assunzione del ruolo di referente diretto nel confronto dialettico con i vertici politici e militari ucraini – che giornalmente minacciano la distruzione totale della sua compagnia militare privata a Bakhmut/Artemovsk – e più in generale con l’intero “Occidente”. Colui che è stato definito con toni spregiativi come il “cuoco di Putin” (in realtà, il Gruppo Wagner, in cooperazione con il GRU, ha svolto un ruolo di notevole rilievo per la proiezione geopolitica russa nel continente africano e per dare fiato alla strategia di accerchiamento meridionale della NATO) senza troppi giri di parole afferma che la base della moderna politica statunitense è il neocolonialismo finanziario. Gli USA, tuttavia, parafrasando il pensiero del politologo portoghese-americano Nuno P. Monteiro (esegeta dell’istante unipolare), sono passati da una condizione di “dominio offensivo” ad una di “dominio difensivo”, in cui al decaduto potere economico continua comunque a far da contraltare una struttura del sistema globale che li vede ancora in posizione egemonica, anche e soprattutto grazie ad una intatta forza tecnologico-militare[3]. Ciò ha determinato anche il passaggio dall’esportazione aggressiva del modello democratico alla volontà di preservare l’egemonia ad ogni costo, rendendo l’ordine liberale più conservatore (a questo proposito, non dovrebbe sorprendere il proliferare di tesi politiche ispirate ad una sorta di nuovo conservatorismo di matrice ebraico-americana).

In base a queste premesse, l’obiettivo degli Stati Uniti nel conflitto ucraino, vista la sostanziale impossibilità di attaccare/occupare il territorio russo nella sua totalità (secondo Caterina II il miglior modo per difendere i confini russi era proprio quello di espanderli ad oltranza), è quello di scatenare “potenti impulsi centrifughi” (come avvenuto con l’URSS negli anni ‘80) che possano indebolire lo Stato ed il governo russo sfruttando la “quinta colonna liberale” ancora presente all’interno della Federazione, sebbene disarticolata (ed in deficit di consenso) dalle politiche “putiniane” degli ultimi anni[4].

Per fare ciò, secondo Prigožin (che pure si è reso protagonista in diversi casi di accesi confronti con i vertici militari della Federazione e con altre compagnie private operanti in Donbass ritenute scarsamente efficienti), l’Occidente starebbe puntando con forza proprio sulla guerra informativa, cercando di mostrare con la lente di ingrandimento il fallimento russo nel conflitto militare in corso e l’incapacità di Mosca nel raggiungere i propri obiettivi. Questo perché, se la Russia dimostra di non essere forte sul piano militare, nessuno prenderà sul serio i suoi piani di revisione del sistema internazionale in ottica multipolare (più o meno lo stesso tipo di trappola nel quale si cerca di attirare la Cina con un eventuale sforzo per una assai problematica annessione manu militari di Taiwan).

Tale presunzione strategica (corroborata dalle voluminose produzioni dei “think tank” lautamente finanziati dal complesso industriale-militare nordamericano) evita scientemente di riconoscere il fatto che il momento unipolare (iniziato con il crollo dell’URSS nel 1991) è già finito con il collasso economico occidentale del 2008. Dunque, la progressiva realizzazione della multipolarità è un processo già ampiamente in corso. Tuttavia, si rende necessario “capire fino a che punto il multipolarismo sia già divenuto il modus vivendi di un numero più o meno limitato di Paesi e regioni e quando l’ordine multipolare si sarà finalmente costituito[5].

Tornando al contesto ucraino, Prigožin sostiene la necessità di trasmettere l’idea (sia all’interno sia all’esterno) che, in realtà, la Russia abbia già raggiunto molti degli obiettivi prefissati: il controllo totale sul Mare d’Azov; l’esclusione della NATO da un’ampia fascia settentrionale del Mar Nero (impedendo, di fatto, che questo venisse trasformato in un lago dell’Alleanza Atlantica); la continuità territoriale tra Russia, Donbass e Crimea; l’eliminazione (tra decessi, feriti e fuggitivi) di larga parte della popolazione maschile attiva ucraina[6].

Naturalmente, vengono riconosciuti anche gli effetti indesiderati dell’Operazione Militare Speciale. In particolare, i processi di trasformazione dell’Ucraina in uno Stato ultranazionalista, iniziati nel dopo “Euromaidan”, hanno subito un’ulteriore accelerazione. E se in precedenza l’Occidente era restio nell’inviare eccessivi aiuti, oggi Kiev può godere di un flusso di armi e denaro ininterrotto utile per ungere il sistema corruttivo che tiene in piedi vertici politici che sopravvivono grazie al conflitto.

Nonostante ciò, i suddetti vertici politici, secondo Prigožin, hanno bisogno di una “vittoria reale” che giustifichi in qualche modo le enormi perdite subite. Qui, il ruolo del confronto sull’infosfera ritorna predominante. Il capo della Wagner, infatti, si domanda per quale motivo Zelensky e soci continuino a “sacrificare” i loro migliori reparti nel calderone di Bakhmut, sebbene sia gli stessi vertici politici ucraini sia molti “analisti militari” occidentali ne abbiano sminuito il valore strategico. In realtà, la città è parte integrante ed attiva del cosiddetto “anello del Donbass”: un’area massicciamente fortificata a partire dal 2014 che comprende inoltre Seversk, Slavyansk e Kramatorsk. La presa di Bakhmut, anche secondo Prigožin, non risulterà decisiva sulle sorti del conflitto: non spianerà la strada verso il Dnepr né verso la liberazione completa del Donbass. Tuttavia, consentirebbe alle forze russe di garantirsi posizioni difensive difficilmente attaccabili in una regione in cui la natura non ha concesso “rive” invalicabili. Dunque, consentirebbe ai Russi di poter resistere ad oltranza, (ri)costruire le regioni annesse e procedere alla loro assimilazione.

Il lento accerchiamento di Bakhmut ha altresì il merito di ritardare la tanto pubblicizzata offensiva ucraina, i cui obiettivi, nonostante l’afflusso di uomini e mezzi ed i trionfali proclami di vittoria, continuano ad essere ridimensionati con il passare del tempo: dalla riconquista della Crimea a portare la stessa a tiro dell’artiglieria di Kiev. Ad oggi, inoltre, nonostante gli sforzi della NATO, risulta assai difficile valutare le reali capacità offensive dell’esercito ucraino. Questo, infatti, si presenta come una massa piuttosto eterogenea di reparti esperti ed estremamente preparati alternati con altri il cui addestramento risulta nel migliore dei casi lacunoso. Lo stesso cospicuo flusso di armamenti ha messo a disposizione di Kiev sia mezzi di buona forgia e valore tecnologico sia residuati bellici vecchi di diversi decenni. A ciò si aggiunga il fatto che l’eventuale prossima offensiva, priva di reale sostegno aereo, potrà contare solo sul volume della massa umana e di mezzi scaricabile contro le postazioni russe. Per fare ciò, Kiev ha bisogno di costruire dei “miti”. Dunque, oggi, ha bisogno di trasformare Bakhmut in un simbolo di resistenza utile per la costruzione della sua religione ultranazionalista, sulla scia di quanto già fatto con l’Azovstal a Mariupol.

Proprio l’Azovstal rappresenta un buon esempio per ciò che concerne la costruzione della propaganda delle parti in conflitto. Sul lato russo, infatti, non sono mancate le rappresentazioni che ritraevano i soldati del Battaglione Azov come aiutati da forze sataniche. Una popolare canzone russa contemporanea, non a caso, recita “nell’Azovstal abbiamo seppellito demoni”.

Ciò dovrebbe rendere bene l’idea della percezione esistenziale/metafisica del conflitto che si ha dall’altra parte della nuova “cortina di ferro”. Ragione per cui, secondo Prigožin, non può esserci alcun compromesso, ma solo, egli si augura, un “confronto leale”. Mosca, inoltre, non può accettare alcun negoziato. Anzi, si rende necessaria la prova dell’offensiva ucraina perché dal suo esito si potrà valutare se i desideri di protagonismo della Russia nella costruzione del futuro ordine globale rimarranno tali o se possano trasformarsi in realtà.


NOTE

[1]D. Ragnolini, Il cyberspazio nel nuovo Concetto di Politica Estera della Federazione Russa (2023): prospettive e sfide, 18 aprile 2023, www.opiniojuris.it.

[2]G. Diesen, Europe as the Western Peninsula of Greater Eurasia. Geoeconomic regions in a multipolar world, Rowman & Littlefield, Londra 2019, p. 262.

[3]N. P. Monteiro, Theory of the Unipolar Politics, Cambridge University Press 2014, p. 4-5.

[4]E. Prigožin, Only fair fight: no agreement, 14 aprile 2023, www.southfront.org.

[5]L. Savin, Ordo pluriversalis. La fine della Pax Americana e la nascita del mondo multipolare, Anteo Edizioni, Cavriago 2020, p. 55.

[6]Only fair fight: no agreement, ivi cit.


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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).