Sommario:
1. Introduzione.
2. Definizioni di geopolitica e classificazione delle teorie geopolitiche:
- a) considerazioni generali;
- b) geopolitica e determinismo ambientale;
- c) geopolitica e geografia politica;
- d) geopolitica e geostrategia;
- e) geopolitica e geoeconomia;
- f) definizione e contenuti della geopolitica.
3. Precursori e storia del pensiero geopolitico fino alla fine del mondo bipolare:
- a) i precursori;
- b) la nascita della geopolitica moderna: Ratzel e Kjellén;
- c) il pensiero geopolitico continentalista;
- d) le teorie dei poteri marittimo e aerospaziale;
- e) le teorie del potere peninsulare;
- f) le concezioni regionali e multipolari;
- g) la geopolitica francese;
- h) la geopolitica sudamericana;
- i) l’idealismo geopolitico;
- l) considerazioni sulla geopolitica del Novecento.
4. La geopolitica italiana:
- a) dagli albori al Risorgimento;
- b) la geopolitica dell’Italia liberale e del regime fascista;
- c) la geopolitica della guerra fredda.
5. La geopolitica contemporanea:
- a) le teorie globaliste;
- b) le teorie multipolari;
- c) le teorie binarie;
- d) le teorie anarchiche;
- e) la geopolitica italiana del dopo guerra fredda.
6. I fattori geopolitici e i metodi impiegati dalla geopolitica:
- a) fattori permanenti;
- b) fattori variabili;
- c) approcci, metodi e tecniche.
Bibliografia.
1. Introduzione.
Il termine ‛geopolitica’ è tornato di moda e si è rapidamente diffuso nel linguaggio dei media dopo la fine del mondo bipolare e delle sue ideologie globali. Evidentemente il suo ritorno non è casuale, ma dipende dalle trasformazioni subite dal sistema internazionale. Al centro del dibattito non viene più posta la ‛statica’ dell’ordine mondiale, ma la ‛dinamica’ della competizione per il potere fra i vari attori geopolitici – siano essi ‛poli’ macroregionali, Stati o entità substatali – che cercano di affermare i loro interessi, identità e autonomia. Peraltro, talune teorie geopolitiche attuali tendono a studiare le condizioni per pervenire alla stabilità a livello mondiale e presuppongono che i rapporti internazionali possano essere basati sulla interdipendenza e sulla cooperazione per fronteggiare sfide globali, come quelle ecologiche e del sottosviluppo. Nell’ambito della geopolitica ‛globalista’, diversamente che nella geopolitica ‛classica’, cade ogni distinzione fra ‛interno’ ed ‛esterno’ dei vari attori geopolitici: il mondo viene trattato nella sua globalità, come unico autentico soggetto della geopolitica. Il termine geopolitica – in genere utilizzato pragmaticamente, senza pretese epistemologiche o scientifiche – indica e comprende i vari apporti provenienti da settori disciplinari diversi che, a vario titolo, influiscono sulle decisioni particolari e sulle politiche generali riguardanti tanto gli affari interni quanto le relazioni esterne.
La geopolitica generalmente riflette una visione realistica, conflittuale e talvolta deterministica della politica, specie internazionale: in alcuni casi si tratta di una semplice concettualizzazione ex post di decisioni già prese, finalizzata all’acquisizione del consenso interno ed esterno, alla manipolazione e alla propaganda; in altri, i suoi approcci, metodi e tecniche sono utilizzati in modo sistematico per elaborare scenari e per migliorare la qualità delle decisioni riguardanti la definizione di interessi e di obiettivi, di politiche e di strategie. In modo soggettivo e mai neutrale, nella geopolitica vengono utilizzati apporti che vanno dalla geografia politica alla storiografia, alla politologia, all’economia internazionale, alla psicologia collettiva, alla demografia, alla strategia militare, e così via. Vengono poi impiegate le tecniche di rappresentazione cartografica, per far confluire in un dato spazio le varie valutazioni.
La geopolitica non è né una scienza, né una disciplina ben definibile. Sull’incertezza della sua natura influisce l’inflazione semantica di cui essa è oggetto e che a sua volta deriva dall’incertezza e imprevedibilità della turbolenta fase di transizione che il mondo sta attraversando, dalle nuove gerarchie di potenza, dalle modifiche che sta subendo la divisione internazionale del lavoro e della ricchezza, nonché dall’incessante, rapida evoluzione delle tecnologie militari e di quelle per la produzione di ricchezza. La geopolitica classica – che si conforma in genere alle posizioni assunte dallo Stato di appartenenza, in particolare relativamente al suo destino rispetto al mondo – assume nella maggior parte dei casi una posizione statocentrica. Più che di geopolitica, si dovrebbe quindi parlare di geopolitiche proprie di ciascun paese e di ciascuna epoca.
Tutte le teorie geopolitiche vanno pertanto esaminate relativizzandole, ossia ricollocandole nell’ambito dello specifico contesto storico in cui sono state formulate e degli interessi che le hanno motivate. Anche la geopolitica ‛globalista’ presenta tale caratteristica di soggettività. La critica di una dottrina geopolitica comporta sempre l’affermazione di una ‛controgeopolitica’: all’inizio della seconda guerra mondiale, negli Stati Uniti, alla cattiva geopolitica nazista” fu contrapposta la buona geografia politica americana”, che si pretendeva ispirata dai valori propri dell’idealismo internazionalistico wilsoniano (v. Antonsich, 1994). La terza rivoluzione industriale – quella dell’informazione – e la riduzione dei costi dei trasporti e delle telecomunicazioni hanno modificato i paradigmi di base della geopolitica classica e il significato politico dello spazio e del tempo, nonché il ruolo della forza militare nella politica internazionale e nella determinazione della gerarchia degli Stati. La globalizzazione e l’interdipendenza richiedono un nuovo ordine geopolitico. La trasformazione dei territori degli Stati da aree sostanzialmente esclusive della sovranità statale in luoghi di concentrazione di reti, di comunicazioni e di flussi costringe a ripensare i concetti e gli approcci della precedente geopolitica ‛territoriale’. Inoltre, è aumentato il peso dei fattori non militari della sicurezza (immigrazioni, criminalità organizzata, droga e così via). La perdita di importanza della forza militare come paradigma per determinare la gerarchia fra gli Stati, su cui si erano fondati in ultima analisi gli ordini e gli equilibri precedenti, ha reso turbolenta l’attuale fase di transizione degli assetti mondiali.
Ma la geopolitica attuale differisce da quella del passato anche per altri motivi. In primo luogo, alla geopolitica degli spazi territoriali si è sovrapposta quella dei flussi immateriali, che non conoscono confini. In secondo luogo, si sono moltiplicati, sia quantitativamente sia qualitativamente, gli attori della politica. Non solo è aumentato il numero degli Stati, ma, anche se questi continuano a costituire gli elementi centrali del sistema internazionale, sono comparsi altri attori geopolitici. L’importanza e l’autonomia degli Stati sono erose dall’alto (dalle istituzioni sovranazionali a livello globale o regionale), dal basso (dai tribalismi, localismi e regionalismi) e dai lati (dalle imprese multinazionali, finanza, religioni, criminalità organizzata, ecc.).
La potenza e la ricchezza si sono smaterializzate e deterritorializzate, creando dissimmetrie con l’organizzazione politica e giuridica degli Stati, rimasta invece territoriale e delimitata da frontiere ben precise; nell’epoca agricola e in quella industriale, infatti, le frontiere separavano l’interno dall’esterno anche dal punto di vista economico, mentre la loro permeabilità nell’epoca postindustriale ha molto attenuato tale separazione. Ormai, l’interno e l’esterno vanno considerati un tutto unico. Avere una politica estera attiva non è più una scelta, ma una necessità. Oltre alle frontiere fisiche esistono altre frontiere, come quelle economiche, culturali, ecc., che sono in continuo movimento; esse definiscono sfere di influenza e di dominio in cui operano i vari soggetti geopolitici, che si espandono o ripiegano o comunque interagiscono, determinando la politica e, quindi, il benessere e la sicurezza dei vari attori geopolitici.
La centralità dei fattori fisici (posizione, dimensioni, distanze, risorse naturali, ecc.), tipica della geopolitica del passato, si è ridotta, anche se non è scomparsa del tutto; è invece aumentata quella dei fattori umani e immateriali, come demografia, tecnologia, produttività, informazione e media, nonché quella delle culture, delle religioni e della storia, che in passato erano compresse dal dominio di ideologie globalizzanti e dai meccanismi del confronto bipolare tra Stati Uniti e Unione Sovietica.
Durante la guerra fredda, il termine geopolitica venne colpito da una specie di ostracismo ideologico, sia perché esso venne associato indebitamente con l’assalto al potere mondiale da parte della Germania nazista (v. Paterson, 1987), sia perché l’approccio geopolitico, necessariamente collegato con una visione statocentrica e realistica delle relazioni internazionali, contrastava con le ideologie dominanti nelle due superpotenze, e cioè con l’idealismo wilsoniano e con il marxismo-leninismo, che ne legittimavano il predominio sul rispettivo blocco. Il ritorno del termine geopolitica è quindi strettamente connesso da un lato con il passaggio dall’ordine di Jalta al disordine delle nazioni e, dall’altro, con le tendenze alla globalizzazione, alla regionalizzazione e alla frammentazione, che coesistono e si contrappongono nel mondo post-bipolare.
Beninteso, anche la contrapposizione fra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica si ispirava a particolari visioni geopolitiche, dato che teneva conto dei rapporti fra potenza e spazio. Basti pensare alla dottrina del containment, a quella del ‛domino’, alla divisione dell’Europa in aree d’influenza, alle conferenze di Teheran, di Jalta e di Potsdam, ai contrasti anche territoriali fra l’Unione Sovietica e la Cina, e così via. La geopolitica non era scomparsa: era semplicemente stata accantonata come termine, per motivi del tutto contingenti e legati agli interessi politico-strategici del tempo.
Ciascuna epoca e ciascuno Stato hanno sempre avuto una propria geopolitica. Quest’ultima infatti rispecchia il particolare rapporto che le singole entità sociopolitiche hanno con il proprio spazio, non solo fisico, ma anche economico, tecnologico e psicologico-identitario, cioè con il particolare ‛senso dello spazio’ che corrisponde alla loro cultura ed esperienza storica, e che rappresenta un ponte tra fattori geografici e scelte politiche. In questo senso, la geopolitica è sempre stata anche geostoria. Le grandi teorie geopolitiche della prima parte del Novecento hanno sempre presupposto, implicitamente o esplicitamente, una visione globale del processo storico, volta a reinterpretare la storia passata per anticipare quella futura. Talvolta, traendo stimolo dall’allarme per la decadenza della propria civiltà o della potenza del proprio Stato, esse hanno sostenuto programmi di riarmo psicologico, militare o economico. Tipiche, a tale riguardo, le tesi sostenute da H. J. Mackinder o quelle sulla decadenza dell’Europa, tornate oggi d’attualità anche a causa delle preoccupazioni per lo spostamento del centro dell’economia mondiale dall’Atlantico al Pacifico.
2. Definizioni di geopolitica e classificazione delle teorie geopolitiche.
a) Considerazioni generali.
Non esiste una definizione univoca della geopolitica, anche se, come dice la stessa etimologia del termine, si tratta di una disciplina che studia i rapporti, le influenze, i condizionamenti e le limitazioni dei fattori geografici – fisici e umani – sulla politica, vale a dire su comportamenti, decisioni, percezioni e azioni dei vari attori geopolitici, siano essi gli Stati, le entità sovra- o sub-nazionali, o anche le grandi imprese industriali e commerciali. Gli approcci e i metodi propri della geopolitica vengono infatti utilizzati anche nelle valutazioni imprenditoriali dei rischi e delle opportunità dei vari ‛sistemi-paese’.
La geopolitica non esiste in natura, ma solo in letteratura. Va perciò studiata soprattutto – anche se non esclusivamente – in relazione alla storia del pensiero geopolitico, includendovi anche le metodologie di analisi, di valutazione, di sintesi e di rappresentazione via via utilizzate.
L’imprecisione del significato di geopolitica è connessa anche con la discussa natura della geografia, specie di quella umana, di cui quella politica costituisce una branca. Alcuni attribuiscono alla geografia un significato solo descrittivo e rappresentativo; altri la ritengono una scienza sociale, con contenuti anche predittivi e normativi. Come disciplina sociale, la geografia sarebbe capace di spiegare la storia delle varie entità politiche e dell’insieme dell’umanità, contribuendo, in un certo senso, a individuare le soluzioni più efficaci ai loro problemi.
Generalmente gli studiosi di geopolitica sono fautori della prima visione, quella ‛ristretta’, che considera la geografia scienza dei luoghi e degli uomini, ma di questi ultimi soprattutto in quanto elementi dell’ambiente e del paesaggio. L’utilizzo della geografia da parte della politica – ad esempio nel settore delle relazioni internazionali, come d’altronde in quello della politica interna, della strategia militare e dell’economia – non apparterrebbe al campo delle scienze geografiche, ma a quello delle scienze politiche, in quanto implicherebbe la costante utilizzazione di giudizi di valore e di approcci soggettivi che riflettono gli interessi contingenti di chi li adotta.
Questa seconda accezione della geografia rispecchia maggiormente la realtà del pensiero geopolitico, i cui principali esponenti, del resto, non erano geografi; e comunque le teorie che hanno sostenuto erano politiche, non geografiche.
La geopolitica non è quindi una scienza, ma essenzialmente un metodo di ragionamento, un modo con cui un attore geopolitico pensa a se stesso in rapporto allo spazio, agli altri e al mondo. Ciò spiega la ricca varietà del pensiero e delle dottrine geopolitiche e la necessità, come si è detto, di relativizzarle rispetto al contesto in cui sono state formulate.
Tentazione costante di tutti i geopolitici è stata – ed è ancora – quella di attribuire alle proprie conclusioni un valore oggettivo e necessario, facendo perciò della geopolitica una scienza nomotetica e descrivendola come una ‛geologia della politica’ (v. Portinaro, 1982). È una tendenza, questa, non limitata al campo della geopolitica. Chi definisce interessi, obiettivi e politiche tende a conferire un valore assoluto e scientifico alle soluzioni che propone. Lo stesso si verifica anche per taluni teorici della strategia militare, che, costantemente sottoposti alla tentazione di attribuire natura di scienza alla propria disciplina, affermano l’esistenza di principî aventi validità generale e normativa, dal cui rispetto o meno dipenderebbero successi o sconfitte. La realtà, invece, ci insegna che spesso la vittoria deriva proprio dalla violazione di tali principî, cioè dalla capacità di sorprendere l’avversario con stratagemmi, colpendo i punti più vulnerabili del suo dispositivo.
Per altri studiosi la geopolitica non indicherebbe che cosa fare, ma offrirebbe una gamma di possibilità, di limiti e di condizionamenti che si ripercuoterebbero direttamente sulle decisioni e sulle azioni. Per altri ancora, l’ambiente geografico condizionerebbe le decisioni politiche solo indirettamente, attraverso il ‛senso dello spazio’ proprio di ogni popolo e di ogni epoca e derivante dalla sua storia e dalla sua cultura.
b) Geopolitica e determinismo ambientale.
Nessuno studioso di geopolitica ha mai sostenuto l’esistenza di un determinismo ambientale assoluto. Anche le accuse di determinismo rivolte al generale Karl Haushofer – principale esponente della scuola geopolitica di Monaco di Baviera degli anni venti e trenta ed editore della rivista Zeitschrift für Geopolitik” – sono in gran parte ingiustificate (v. Strassoldo, 1985, pp. 204-207). Lo stesso Haushofer affermò che solo il 25% della storia può essere spiegato in termini di condizionamenti geografici” (v. Kristof, 1960, p. 31). Tralasciando l’infelice percentualizzazione, si deve quindi riconoscere che anche lo studioso di geopolitica considerato più determinista non metteva in discussione la dipendenza ultima della storia dalla libertà dell’uomo e non pensava affatto che si potesse attribuire un fondamento naturalistico alla politica sulla base di un determinismo ambientale, interpretato appunto dalla geopolitica.
Haushofer riconosceva poi che la geopolitica interveniva con una propria individualità solo dopo che fosse stata assunta un’idea politica, quando cioè esistesse una ‛metageopolitica’: ed era appunto una metageopolitica – la volontà di rivincita della Germania dopo i ‛torti’ subiti nella pace di Versailles – quella che ispirava le riflessioni di Haushofer. In un certo senso, quindi, come è stato maliziosamente notato, ogni geopolitica è sempre una ego-politica” (v. Antonsich, 1995, p. 57), ha un valore soggettivo e può essere compresa solo relativizzandola al contesto in cui è stata formulata.
In politica – come in strategia, economia, ecc. – la linea che separa il determinismo dal semplice condizionamento è sempre labile e incerta. Gli approcci dogmatici sono comunque smentiti non solo dall’esperienza storica, ma anche dalla complessità, incertezza e indeterminazione dei fattori che influiscono sulle scelte reali. Ad esempio, Ebrei e Fenici, pur vivendo in territori contigui, hanno avuto esperienze storiche del tutto diverse. Inoltre, sullo stesso territorio possono convivere geopolitiche del tutto diverse. In Israele ne convivono almeno tre: la prima, tipo Masada, che considera Israele come una ‛fortezza’; la seconda, che vede Israele come ‛Terra Promessa’ da riconquistare per volere divino; e la terza, infine, che considera Israele uno Stato come un altro ed è disponibile a cedere territori per raggiungere la pace. Qualcosa di analogo accade in Italia, dove il dibattito geopolitico è animato da tendenze atlantiste, europeiste, mediterranee e terzomondiste.
Ciò non toglie che taluni autori geopolitici siano più deterministi di altri. Lo sono ad esempio coloro che hanno sostenuto il condizionamento del clima sulla storia e sulla natura delle società, da Aristotele a Bodin, da Montesquieu sino a Ellsworth Huntington (v. Konigsberg, 1960). Deterministi sono coloro che affermano l’esistenza di ‛spazi vitali’, come hanno fatto i geopolitici tedeschi del primo Novecento, o di ‛frontiere naturali’, come è avvenuto durante la Rivoluzione francese, nonché tutti coloro che fondano la politica su una presunta volontà divina, su ‛diritti storici’, su un manifest destiny, e così via. Deterministiche sono infine tutte le dottrine geopolitiche, nel momento in cui pretendono di essere scientifiche e oggettive, e quindi normative e non semplicemente probabilistiche ed euristiche.
Bisognerebbe, in realtà, distinguere in geopolitica il determinismo vero o metodologico da quello strumentale. Quest’ultimo trasforma le proposte geopolitiche in slogan che sfruttano la potenza semplificatrice della rappresentazione cartografica e che vengono propagandati come verità al servizio di una causa.
Sicuramente il periodo di più spiccato determinismo geopolitico è quello che si colloca tra la fine dell’Ottocento e lo scoppio del secondo conflitto mondiale. Il determinismo si fondò allora su un complesso di presupposti teorici coerenti con la cultura dell’epoca – non solo tedesca – derivati dalla dottrina dello ‛Stato-potenza’ e, più in generale, dal darwinismo sociale, che concepiva lo Stato come un organismo vivente. Esso giustificava il colonialismo e l’imperialismo non solo di tutti gli Stati europei, ma anche degli Stati Uniti di Theodore Roosevelt. Le critiche rivolte al determinismo della geopolitica dell’epoca dovrebbero quindi essere indirizzate più propriamente agli assunti di base che le ispiravano, piuttosto che alle teorie geopolitiche in sé.
Va inoltre rilevato come talvolta il determinismo di tali teorie sia solo apparente. La geopolitica, come si è detto, è anche geostoria. D’altra parte, la geografia è la storia nello spazio, come la storia è la geografia nel tempo. Adottando una lettura diacronica per far emergere le tendenze ‛forti’, influenzate dalla geografia fisica, che è il fattore più stabile nella storia, si dà l’impressione di voler pervenire a conclusioni permanenti e immodificabili. In realtà non è così, perché obiettivo costante dei geopolitici è proprio modificare tali condizioni.
La tentazione del determinismo è alimentata in geopolitica dall’enorme valore propagandistico della carta geografica e dalla naturale tendenza a utilizzarlo per convincere delle proprie tesi chi deve decidere, oppure per ottenere il consenso dell’opinione pubblica. La scelta del centro della carta, della scala e del tipo di rappresentazione, l’accentuazione di taluni particolari anziché di altri possono prestarsi a vere e proprie manipolazioni (v. Lacoste, 19763, pp. 177-178 e 185; v. Taylor, 1992).
Con la sua capacità di semplificazione e la sua pseudoevidenza, la rappresentazione geopolitica costituisce un poderoso strumento di manipolazione psicologica. Affinata grandemente dalla geopolitica tedesca del primo dopoguerra, essa viene sistematicamente utilizzata da tutti coloro che propongono un programma politico: come cercano di arruolare ‛Dio’ e ‛l’Idea’ sotto le loro bandiere, così essi tendono a fare altrettanto con la geografia, la storia, la giustizia e così via. Far discendere le proposte politiche da una necessità naturale o divina presenta infatti il grande vantaggio di non doverne esplicitare le reali motivazioni.
Solo una ‛cultura geopolitica’ può tutelare i popoli dalle manipolazioni delle rappresentazioni cartografiche. Pertanto, la reintroduzione della geopolitica nel dibattito politico consente di riportare sotto il controllo democratico le grandi decisioni di politica estera, che tendono spesso a essere sottratte ai cittadini, se non altro per mancanza di informazioni e di conoscenze specifiche.
c) Geopolitica e geografia politica.
I due termini sono spesso impiegati come sinonimi, soprattutto nei paesi anglosassoni. Entrambi sono recenti, essendo stato il primo introdotto nel 1899 dallo svedese Rudolph Kjellén (v. Holdar, 1992) e il secondo nel 1897 dal tedesco Friedrich Ratzel (v. Parker, 1985).
Le incertezze e le ambiguità sulle differenze fra i termini geopolitica e geografia politica derivano anche da quelle sulla natura di quest’ultima. Come la storia, la geografia non ha un oggetto specificamente proprio, bensì costituisce la base spaziale di discipline diverse e comprende lo studio, oltre che la rappresentazione, della distribuzione spaziale dei vari aspetti geografici, fisici e umani, le loro classificazioni statistiche, il loro raggruppamento in insiemi omogenei e la previsione delle loro variazioni nel tempo.
Sin dall’inizio della storia, l’attività dei geografi ebbe rilevanza sul piano politico, militare, economico, ecc. Gli esploratori furono anche agenti segreti e operatori commerciali. Fino al XX secolo l’attenzione prevalente fu rivolta agli aspetti fisici e naturali; solo con Ratzel gli aspetti umani divennero centrali, anche perché la tecnologia affrancava rapidamente l’uomo dai condizionamenti dell’ambiente naturale, ma non da quelli dell’ambiente umano.
Fra la geografia politica e la geopolitica esistono comunque strette correlazioni. Per alcuni, specie per la scuola anglosassone, che considera la geografia anche una scienza sociale e non distingue fra geografia pura e applicata, non esiste alcuna differenza: anche se viene impiegato l’aggettivo geopolitical, non viene utilizzato il termine geopolitics. Per altri, la geografia politica studia la politica avvenuta, cioè la distribuzione spaziale dei fenomeni politici e la loro influenza sui fattori geografici. La geopolitica studia, invece, l’influenza dei fattori geografici sulle scelte politiche, tenendo anche conto delle possibili scelte e delle azioni/reazioni degli altri soggetti geopolitici che operano sul medesimo territorio.
La geografia politica è una scienza, in quanto studia i dati di fatto; la geopolitica non lo è, perché relativizza e soggettivizza tali dati, interpretandoli e fondendoli con fattori che non sono geografici, come i principî e i sistemi di valore. A livello di teoria, la geopolitica è quindi una metageografia, combinata con altre dimensioni metateoriche, quali la metastoria. Come campo disciplinare, essa è indipendente dalla geografia politica ed è dotata di una propria individualità, diversa da quella di una semplice geografia politica applicata.
d) Geopolitica e geostrategia.
Spesso i termini ‛geopolitica’ e ‛geostrategia’ sono impiegati come sinonimi. In realtà ciò accade anche per i termini ‛politica’ e ‛strategia’, soprattutto quando si parla di strategia globale o di ‛grande strategia’, intendendo in tal modo l’insieme dei principî ai quali si ispira la politica di sicurezza e degli obiettivi che essa si pone.
Sembra però opportuno fare una distinzione tra i due termini. La geostrategia si interessa della dimensione militare, e dovrebbe essere quindi una ‛geopolitica militare’, una sorta di ‛sorella minore’ della geopolitica (v. Célérier, 1969).
Nella storia, i due termini sono stati e vengono tuttora utilizzati nelle accezioni più varie. Giacomo Durando (v., 1846) ha utilizzato il termine geostrategia come sinonimo di geopolitica, individuando il punto ‛protostrategico’ che avrebbe dovuto permettere l’unificazione della Padania o Eridania con l’Italia peninsulare (v. Botti, 1994). Il gruppo di geostrategia della Fondation pour les Études de Défense Nationale (v. Lacoste, 1991) ha sostenuto che il concetto centrale della geopolitica è quello di ‛zona di influenza’, mentre per la geostrategia è quello di ‛zona cuscinetto’. Tale distinzione appare discutibile, in quanto le zone cuscinetto, per essere tali, devono essere anche zone di influenza, e comunque si trasformano in teatri operativi nel corso dei conflitti. Il geografo e geopolitico americano Saul Bernard Cohen (v., 1963) ha dato alla geostrategia un’accezione più ampia rispetto alla geopolitica. Egli infatti teneva conto dei due blocchi esistenti all’epoca della guerra fredda, che definiva regioni geostrategiche”; esse comprendevano al loro interno regioni geopolitiche differenti, che tendevano però a esser più omogenee e più integrate economicamente, culturalmente e anche politicamente. Tale suddivisione, che riflette le condizioni specifiche della guerra fredda, risulta tuttavia ‛datata’, in quanto corrisponde a un periodo in cui le esigenze di sicurezza venivano considerate prioritarie rispetto a qualsiasi altro aspetto. Inoltre, essa corrisponde anche a una concezione della strategia molto più ampia di quella tradizionale e che si riferisce alla cosiddetta ‛strategia globale’ del generale francese Beaufre o alla Grand strategy, termine largamente utilizzato, specie negli Stati Uniti. Nel linguaggio politico e militare, il termine ‛geostrategico’ tendeva infatti a sostituire ‛geopolitico’, proprio per l’ostracismo contro la geopolitica, considerata scienza ‛malvagia’ e sostanzialmente nazista.
Altra distinzione interessante è quella recentemente proposta da Yves Lacoste (v., 1993), secondo il quale non vi sarebbero differenze sostanziali tra geopolitica e geostrategia per la fondamentale identità dei loro contenuti: la geopolitica, però, si riferirebbe al dibattito interno sulla politica estera, che è influenzato dalla ‛rappresentazione’ che ogni gruppo politico ha del proprio spazio; la geostrategia riguarderebbe invece i rapporti, sia conflittuali che cooperativi, fra i vari soggetti geopolitici. Anche tale distinzione, tuttavia, non sembra accettabile, sia perché ove non esistesse dibattito democratico non vi sarebbe neppure geopolitica, sia per l’accezione troppo estesa del termine strategia, che coprirebbe di fatto tutta la politica estera.
Appare in sostanza preferibile riferire i due termini a campi specifici: a quello della politica apparterrebbe la geopolitica, intesa come definizione dei fini, degli obiettivi e delle grandi scelte circa i mezzi (diplomatici, economici, militari, ecc.) disponibili ai vari soggetti geopolitici per conseguirli. Il termine geostrategia si dovrebbe invece riferire al campo specificamente militare, subordinato e strumentale alla politica, estendendolo, beninteso, a tutti i fattori con esso strutturalmente collegati e subordinati, come l’impiego di sanzioni economiche, blocchi, embarghi, o come la preparazione degli strumenti militari, che prima di essere fatto tecnico, implica decisioni politico-sociali.
e) Geopolitica e geoeconomia.
La geopolitica va infine distinta dalla geoeconomia (v. Savona e Jean, 1995). Quest’ultimo termine è entrato nell’uso corrente a seguito dei lavori di Edward N. Luttwak (v., 1990), il quale afferma che la geoeconomia ha sostituito la geopolitica nel mondo industrializzato. La gerarchia delle potenze e la cooperazione/competizione fra gli Stati avanzati sarebbero ormai unicamente di natura economica. Geopolitici – nel senso tradizionale del termine – rimarrebbero invece il Terzo Mondo e gli Stati collocati alla periferia dei nascenti blocchi o poli regionali.
I temi fondamentali della geoeconomia riguardano la preparazione degli Stati per la competizione geoeconomica; l’analisi dei rapporti fra globalizzazione, regionalizzazione e localizzazione dell’economia; la competizione fra i vari sistemi economici, e così via.
Alla visione di Luttwak si contrappongono coloro, come Paul Krugman (v., 1991), i quali affermano che l’economia internazionale non obbedisce a regole di competitività dei ‛sistemi-paese’, ma a logiche del tutto diverse da quelle della politica.
A nostro parere, la geoeconomia non può avere in nessun caso una natura separata dalla politica, anche se, nella costante dialettica fra Stato e mercato, quest’ultimo ha assunto una maggior importanza che nel passato, soprattutto perché dalla situazione premoderna, in cui esistevano più mercati che Stati, e da quella moderna, in cui i mercati coincidevano essenzialmente con il territorio degli Stati, siamo attualmente passati a una situazione in cui esistono più Stati che mercati; questi ultimi, inoltre, per l’indipendenza e la globalizzazione economica, tendono a unificarsi in un mercato globale. La geoeconomia non si contrappone pertanto alla geopolitica, ma è una specie di geopolitica economica, come la geostrategia è una geopolitica militare, entrambe subordinate e strumentali alla geopolitica nel senso proprio del termine.
f) Definizione e contenuti della geopolitica.
Il significato e i contenuti della geopolitica variano notevolmente nelle varie accezioni che sono state date al termine. Se tutti sono d’accordo nel ritenere che la geopolitica esprima i rapporti fra fattori geografici e politica, è il differente giudizio sulla natura di tali rapporti a originare la diversità delle definizioni di geopolitica.
Per taluni, anche con le cautele prima descritte in riferimento al significato del determinismo in politica, la geopolitica è la disciplina che studia i fatti politici rispetto alla loro dipendenza dall’ambiente geografico. In quest’ottica, pertanto, la geopolitica assume valore normativo: indica alla politica, di cui in certo senso costituisce il fondamento naturalistico, ciò che deve fare. Inoltre, essa ha un oggetto specifico e quindi un campo disciplinare proprio, diverso da quello delle scienze geografiche. È questa la tesi attribuita da molti alla scuola geopolitica tedesca degli anni venti-trenta, ma non solo a essa (v. cap. 2, § b): si sarebbe trattato quindi di una ‛geopolitica metafisica’ (v. Gallois, 1990), di una vera e propria ‛mistica dello spazio’. Una simile geopolitica – sia detto per inciso – caratterizza tutti i conflitti identitari ed etnici emersi nel periodo post-bipolare, allorché sono entrate in una crisi irreversibile le ideologie globalizzanti che semplificavano il mondo della guerra fredda.
In una seconda accezione, i rapporti fra fattori geografici e politici vengono visti in una prospettiva non deterministica. Soggetto della geopolitica non è l’ambiente, ma l’uomo. La geografia, pur restando un fattore importante della politica e della storia, non può dare indicazioni, ma offrire solo opportunità e imporre condizionamenti che devono essere tenuti presenti da chi effettua le scelte. In questo senso la geopolitica è la geografia del principe” (v. Pagnini, 1985): essa appartiene più al campo delle scienze politiche che di quelle geografiche, in quanto per ogni ragionamento geopolitico sono determinanti i valori, i principî, gli interessi e la cultura che influenzano le valutazioni. Anche se indica una gamma di possibilità, la geopolitica presuppone l’esistenza, almeno implicita, di un progetto politico.
Secondo una terza accezione, nella geopolitica assume un ruolo determinante il ‛senso dello spazio’: in questa prospettiva l’influsso della geografia e della storia sulla cultura ‛determina’ la lettura dello spazio – o meglio degli spazi – in cui si vive e si agisce. La geopolitica riguarderebbe in primo luogo le ‛rappresentazioni’ che influenzano il comportamento politico (v. Lacoste, 1993, pp. 1-35): determinante sarebbe, più che l’ambiente, il modo in cui lo si immagina e lo si concettualizza ai fini delle decisioni politiche, cioè la Weltanschauung che ispira un ragionamento geopolitico. La geopolitica sarebbe quindi il derivato diretto di una metapolitica.
Una seconda classificazione della geopolitica si basa sulla differenza del punto di vista da cui ci si pone e della natura dei problemi che si intendono affrontare. Ponendo lo Stato come elemento centrale del sistema politico, sia interno che internazionale, si può distinguere una geopolitica esterna da una interna; qualora, invece, ci si riferisca a soggetti geopolitici diversi dallo Stato, si può distinguere una geopolitica globale, una statale, una regionale (nel senso delle macroregioni) e una substatale, che può variare da quella localistica alla geopolitica delle imprese.
La differenza fra la geopolitica interna e quella esterna appare evidente dagli stessi termini impiegati: la prima si riferisce ai rapporti di potere all’interno – quali, ad esempio, la ripartizione del territorio di uno Stato in regioni amministrative o la distribuzione territoriale delle varie forze politiche – e si sviluppa anche a seguito dell’affermarsi del concetto di frontiera naturale, che racchiude in sé quello di confine lineare; si tende a spostare ogni tensione sulle frontiere esterne, per eliminare quelle esistenti all’interno e per omogeneizzare il territorio. La geopolitica esterna si riferisce invece ai rapporti esterni di ciascun soggetto geopolitico.
Per la geopolitica globalista l’unico vero soggetto della politica sarebbe il mondo: si tratta di un approccio per molti versi simile all’attuale geopolitica ‛critica’, che taluni – data la globalizzazione delle culture, dell’ecologia, dell’economia e dell’informazione, l’interdipendenza fra gli Stati e l’affermarsi di istituzioni e di un diritto internazionali – hanno denominato ‛geopolitica della pace’ o ‛ecologia delle potenze’ (v. Strassoldo, 1979). L’interesse della geopolitica globale non dovrebbe essere rivolto ai rapporti di potere, ma alla stabilità e alla pace intese come fini in sé, non come fattori che riflettono i rapporti di potenza e mirano a perpetuarli o a modificarli (che sarebbe poi la preoccupazione principale della geopolitica ‛classica’: v. Wieser, 1994). Temi come quelli dei rapporti Nord-Sud e dei grandi problemi ecologici globali (buco dell’ozono, variazioni climatiche, ecc.) dovrebbero costituire le preoccupazioni centrali della ‛nuova’ geopolitica.
Un filone particolare di questa tendenza – come abbiamo già accennato – è rappresentato dalla cosiddetta geopolitica ‛critica’, che mira soprattutto a smascherare la funzione strumentale, sostanzialmente di manipolazione delle percezioni e di propaganda, di tutte le teorie geopolitiche ‛classiche’.
La geopolitica localistica e quella delle imprese hanno preoccupazioni più limitate, circoscritte a un’area o a un oggetto d’interesse particolare. La prima è caratteristica dei gruppi politici substatali; la seconda cerca di individuare, ai fini delle decisioni di carattere imprenditoriale, il rischio politico degli investimenti, l’affidabilità dei sistemi-paese e le opportunità che questi ultimi presentano ai fini degli interessi delle imprese.
Esistono poi geopolitiche specializzate o settoriali, come quelle delle religioni, dell’energia, dell’acqua, della droga e così via.
3. Precursori e storia del pensiero geopolitico fino alla fine del mondo bipolare.
a) I precursori.
Le origini della geopolitica, nella sua accezione allargata, risalgono agli albori della storia, cioè alle origini della politica e della geografia. La politica, come la strategia e l’economia, non possono prescindere dai loro rapporti con l’ambiente geografico, politico, strategico ed economico, siano essi tanto fisici o naturali quanto antropici.
Storicamente, l’influsso dei fattori geografici è sempre stato considerato importante, implicitamente o esplicitamente. I geografi, come gli esploratori, hanno sempre fornito notizie utili ai politici, agli strateghi e ai mercanti. I condizionamenti e le opportunità che offre la geografia hanno rappresentato, sin dagli albori della storia, tematiche di interesse fondamentale: l’influsso del clima, della morfologia e della collocazione geografica sugli interessi e sulle caratteristiche dei popoli e degli Stati, la contrapposizione fra terra e mare, popoli nomadi e sedentari, città e campagne, montagne e pianure. In tal senso il pensiero geopolitico può esser fatto risalire alla Bibbia, a Strabone, a Erodoto, ad Aristotele. Geopolitiche sono le teorie sull’evoluzione ciclica della storia, da Ibn Khaldūn a Vico, o sull’influsso del clima sulla cultura, l’organizzazione sociale e le strutture politiche, da Aristotele a Bodin e a Montesquieu (v. Konigsberg, 1960). Geopolitiche sono la concezione romana che ha presieduto alla costruzione delle grandi strade per unificare l’Impero, l’urbanistica di Cosimo de’ Medici o la geografia ‛volontaria’ di Vauban, mirante a correggere le vulnerabilità naturali della Francia e a rafforzarne le difese.
Geopolitiche sono anche le dottrine mercantilistiche, da E. J. Hamilton a F. List, e in particolare i progetti di quest’ultimo per la costruzione di una rete ferroviaria sia fra la Germania orientale e occidentale, per garantire l’unificazione della nazione e permettere un’agevole manovra per linee interne delle sue forze militari, sia in direzione nord-sud (ad es. con la ferrovia Berlino-Bagdad), per favorire la penetrazione economica tedesca verso sud, in modo non intercettabile dalla marina britannica.
Geopolitici sono stati il cosiddetto Great game, svoltosi nel secolo scorso fra gli Imperi britannico e zarista in Caucaso e in Asia centrale, come pure l’affermazione della frontiera naturale francese sul Reno, anticipata da Richelieu ma affermatasi con specifiche connotazioni naturalistiche, sotto l’influenza dell’illuminismo, durante la Rivoluzione francese. Geopolitiche sono state le decisioni di introdurre l’insegnamento della geografia nelle scuole e università, dapprima in Prussia, dopo il Congresso di Vienna, e successivamente in Francia, dopo la sconfitta del 1870-1871 e la perdita dell’Alsazia e della Lorena. In particolare, le decisioni prese a questo riguardo dal governo prussiano, sollecitato dai geografi K. Ritter e A. von Humboldt (v. Korinman, 1990, p. 17), sono state ispirate dalla volontà di acquisire il consenso del popolo tedesco all’unificazione, dimostrandone la necessità ‛naturale’ attraverso sapienti rappresentazioni cartografiche.
Le origini della geopolitica moderna, in particolare della Scuola tedesca, vanno invece fatte risalire alla fine del secolo scorso, con lo sviluppo della geografia umana e di quella politica, e con l’introduzione di concetti quali quelli di Stato-potenza, di Stato come organismo vivente, di mobilità delle frontiere, di spazio vitale e di autarchia. Tali teorie, sempre collegate col pensiero politico realistico, si contrapposero dapprima all’internazionalismo del libero mercato e della supremazia economica dell’Impero britannico, e successivamente all’idealismo wilsoniano.
È da tale punto che si prenderanno le mosse per analizzare anche l’influsso che tali teorie hanno avuto durante la guerra fredda e che ancora hanno sul pensiero geopolitico post-bipolare.
b) La nascita della geopolitica moderna: Ratzel e Kjellén.
Friedrich Ratzel (1844-1904) è il fondatore della geografia politica. Egli svolse un ruolo attivo in politica: si considerava infatti un patriota al servizio della Germania ed era fautore delle conquiste coloniali a sud, della costruzione di una grande flotta oceanica per proteggere le colonie dalla Marina britannica, e dell’espansione culturale ed economica, prima ancora che territoriale, verso est. Ratzel aveva una visione darwiniana e biologica dello spazio e dello Stato, e concepiva uomo e natura come componenti di un unico processo teleologico, in cui entrambi svolgono un ruolo essenziale; non era determinista, né fautore di una politica necessariamente aggressiva; sosteneva l’importanza sia del ‛senso dello spazio’ proprio di ciascun popolo, sia della volontà politica di realizzare un’armonica unità fra territorio e nazione, conseguibile solo allorché una nazione si sia estesa sull’intero spazio vitale che le è proprio.
Rudolph Kjellén (1864-1922), politologo e uomo politico svedese, impiegò per primo, nel 1899, il termine ‛geopolitica’ in un articolo sui confini della Svezia, riprendendo e sviluppando in seguito tale concetto nella sua opera fondamentale Lo Stato come organismo vivente (1916). Kjellén considerava la geopolitica una delle cinque categorie necessarie per l’analisi politica degli Stati, della loro struttura e delle loro relazioni, in cui interagiscono popolazione, territorio, società, economia e ordinamento giuridico e istituzionale; le altre quattro categorie erano rappresentate da demopolitica, sociopolitica, ecopolitica e cratopolitica. Secondo Kjellén la geopolitica non è solo un contenitore spaziale delle altre quattro categorie, che essa unifica su un determinato territorio, ma influisce anche direttamente sulle caratteristiche dello Stato e quindi sulla sua politica e sulla sua storia. Essa va esaminata sotto tre aspetti: la topopolitica, che riguarda la posizione di uno Stato rispetto agli altri; la morfopolitica, che analizza gli effetti della forma del territorio; la fisiopolitica, relativa alle caratteristiche fisiche, in primo luogo alle dimensioni dello Stato. In sostanza, Kjellén riteneva, a differenza di Haushofer (v. sotto, § c), che la geopolitica non assorbisse tutto l’influsso dei fattori geografici sulla politica; alcuni fattori geografici venivano infatti considerati dalle altre quattro categorie di analisi dello Stato (le risorse naturali dall’ecopolitica, l’entità della popolazione dalla demopolitica, ecc.).
Kjellén pertanto combinava la geografia con la scienza della politica e considerava lo Stato un organismo vivente territoriale, la cui essenza era costituita dalla potenza. Egli era influenzato dal darwinismo sociale, dalla filosofia idealistica tedesca e dalla scuola della politica di potenza, e riprendeva tesi sostenute da von Ranke, da von Treitschke e da Ratzel.
Filotedesco, auspicava la vittoria della Germania nella prima guerra mondiale, in quanto solo con la germanizzazione dell’Europa la civiltà europea avrebbe potuto sopravvivere, espandendosi verso sud fino al Golfo Persico e creando una zona d’influenza a est, per poter competere con le altre due grandi ‛panregioni’: quella americana, dominata dagli Stati Uniti, e quella dell’Asia Orientale, a egemonia giapponese. Kjellén costituisce un tramite fra Ratzel e la scuola geopolitica tedesca sul potere continentale, sviluppatasi nel primo dopoguerra a Monaco di Baviera.
c) Il pensiero geopolitico continentalista.
Sir Halford John Mackinder (1861-1947) è il più conosciuto sostenitore della teoria del potere continentale. Il punto centrale delle sue tesi è che esiste un’area, che denomina prima pivot area” (v. Mackinder, 1904) e successivamente heartland” (v. Mackinder, 1919), il cui controllo garantirebbe alla massa continentale euroasiatica (isola del mondo”) il dominio mondiale. Dal cuore dell’Eurasia mossero nel passato le grandi invasioni verso la ‛mezzaluna interna’ (Europa, Medio Oriente, India e Cina ). Solo con la scoperta dell’America e la sua conquista, l’Europa acquisì la superiorità sulla massa continentale euroasiatica, estendendo il suo dominio su altre parti della mezzaluna interna, oltre che sulla mezzaluna esterna (Americhe, Africa, Australia). All’inizio del Novecento, però, due fattori stavano nuovamente modificando la situazione: la costruzione delle ferrovie russe, che consentivano una manovra per linee interne, e l’espansione industriale tedesca, che metteva in pericolo la superiorità britannica. Di qui l’esigenza per la Gran Bretagna di cambiare politica, rompendo l’alleanza con la Germania e alleandosi con la Francia, gli Stati Uniti e il Giappone.
La tesi dell’esistenza di un centro da cui si irradiava la potenza continentale era ben spendibile, dal punto di vista propagandistico, per sostenere la politica che Mackinder proponeva per la Gran Bretagna, una politica che fu rivista più volte dallo stesso Mackinder per adattarla alle circostanze. Prima della sconfitta della Russia a opera del Giappone, lo heartland era collocato nell’Asia Centrale e nella Siberia, da dove la Russia zarista poteva minacciare l’India, cuore dell’Impero britannico. Dopo la prima guerra mondiale venne spostato a ovest, includendo i bacini del Baltico e del Mar Nero, fino alla linea Elba-Adriatico; infatti, il nemico principale era in questo caso la Germania, dato che la Russia era stata neutralizzata dalla Rivoluzione. L’obiettivo principale delle potenze marittime era impedire che le capacità organizzative e industriali tedesche si potessero giovare delle risorse della massa continentale; per raggiungerlo, esse dovevano quindi creare e mantenere il controllo su una fascia cuscinetto che separasse la Germania e l’Unione Sovietica. In sostanza, Mackinder polemizzava con l’applicazione pro-tedesca dei quattordici punti di Wilson sull’autodeterminazione dei popoli e razionalizzava la politica francese e britannica al congresso di Versailles, opponendo le ragioni del realismo geopolitico a quelle degli ‛ideali democratici’ wilsoniani. Al volgere della seconda guerra mondiale, il cuore della Terra” (v. Mackinder, 1943) venne spostato nuovamente, questa volta verso est, e venne individuato un secondo cuore marittimo” nell’Oceano Atlantico, ponte fra gli Stati Uniti e l’Europa occidentale. I due ‛pivot’ dell’emisfero Nord avrebbero dovuto allearsi per bilanciare il crescente peso della Cina e dell’India.
La scuola geopolitica tedesca degli anni venti e trenta, che fa capo al generale Karl Haushofer (1869-1946), trae spunto polemico dal concetto di heartland di Mackinder per denunciare le basi imperialistiche della politica britannica nella pace di Versailles e, nel contempo, per sostenere la causa della rivincita tedesca contro le ingiustizie subite e promuovere un nuovo assetto del potere mondiale – basato sull’intesa della Germania con l’Unione Sovietica e con il Giappone – abbattendo il monopolio marittimo e coloniale delle potenze anglosassoni. Secondo Haushofer, il mondo andava ristrutturato in ‛panregioni’ estese nel senso dei meridiani e caratterizzate, per la diversità delle loro parti, da un equilibrio interno. Le panregioni avrebbero dovuto essere quattro: la Pan-Europa, comprendente anche il Mediterraneo, l’Africa e il Medio Oriente fino al Golfo Persico; la Pan-America; la Pan-Russica, estesa fino all’India, ma non più menzionata a partire dal 1941; e la Pan-Pacifica, a egemonia giapponese, comprendente la Cina, l’Indonesia e l’Australia. Il sistema Mediterraneo avrebbe avuto una sua autonomia nell’ambito della Pan-Europa e sarebbe stato dominato dall’Italia.
Contrariamente a quanto affermato dai geografi americani negli anni quaranta (v. Antonsich, 1994), la geopolitica di Haushofer si ispirava alla tradizione del nazionalismo tedesco, e quindi era del tutto opposta a quello che fu il programma nazista, che prevedeva – sulla base di una concezione razzista sconosciuta, fino ad allora, alla geopolitica tedesca – un’espansione illimitata a est e il mantenimento della pace a ovest; per Hausofer, il nemico era costituito dalla Gran Bretagna e dalle potenze marittime, non dalla Russia. In geopolitica, in realtà, tra il concetto di razza e quello di spazio esiste una contraddizione sostanziale.
d) Le teorie dei poteri marittimo e aerospaziale.
Le teorie del potere marittimo – i cui principali esponenti sono l’americano Mahan e il britannico Corbett – sono vere e proprie teorie geopolitiche, che vanno separate dal pensiero strategico navale. La potenza navale è considerata unitariamente con quella economica e finanziaria.
Alfred Thayer Mahan (1840-1914) visse nell’epoca in cui, raggiunto il Pacifico, gli Stati Uniti dovevano espandersi sui due oceani – anche per controllare gli accessi al canale di Panama, fulcro strategico della sicurezza e dell’unitarietà geostrategica fra le coste orientali e quelle occidentali degli Stati Uniti – occupando le Hawaii, le Filippine e Cuba. Le visioni geopolitiche di Mahan furono fatte proprie dal presidente Theodore Roosevelt, di cui Mahan era consigliere, e ispirarono il neoimperialismo americano, che diede della dottrina Monroe un’interpretazione dinamica, se non aggressiva. Come stratega navale, Mahan è considerato il principale esponente delle cosiddette ‛scuole navaliste’, che attribuiscono grande importanza agli aspetti geografici del potere navale, come le basi, e che, in caso di conflitto, sostengono la priorità dell’acquisizione del dominio sul mare mediante la distruzione delle flotte nemiche, con una grande battaglia navale volta a consentire il dominio del mare e la libera utilizzazione delle vie di comunicazione marittime. Come Ratzel e von Tirpitz nella Germania guglielmina e, in tempi successivi, come l’ammiraglio S. G. Gorshkov, creatore della grande marina sovietica del secondo dopoguerra, Mahan venne condizionato da concezioni mercantilistiche, come quelle dell’importanza del commercio estero e del possesso, se non di colonie, almeno di basi per esercitare un dominio mondiale.
L’inglese Julian Corbett (1854-1922) aveva una visione ‛anfibia’ del potere navale e incentrava la sua attenzione sull’influenza che esso esercitava sulle operazioni terrestri. Egli riteneva che, pur facilitando la vittoria, il dominio del mare, da solo, non permettesse di vincere un conflitto, e che a tal fine occorresse un esercito reso mobile dal trasporto navale. Le tesi di Corbett riflettono la ‛grande strategia’ della pax britannica del secolo scorso e, dalla fine della guerra fredda, sono in corso di rivalutazione in Occidente, dove tutte le marine stanno passando da una strategia ‛navalista’ a una ‛marittima’.
Per molti versi analoghe alle teorie del potere marittimo sono quelle del potere aerospaziale. Esse rappresentano in realtà teorie geostrategiche, fondate sullo sviluppo del potere aereo e dell’impiego militare dello spazio; i loro esponenti principali sono stati l’italiano Giulio Douhet, che in realtà era un teorico esclusivamente strategico, e il russo-americano Alexander de Seversky, che sviluppò anche argomentazioni di tipo geostrategico e, parzialmente, geopolitico. Tali teorie rispecchiano il fatto che lo sviluppo della dimensione aerea e delle armi nucleari ha attenuato la contrapposizione terra-mare, divenuta subordinata alla competizione per il dominio dell’aria. Il centro del potere mondiale si sarebbe spostato nell’Oceano Artico, come risulterebbe evidente dalle rappresentazioni cartografiche centrate sul polo Nord. Tali tesi – superate peraltro dalla gittata dei missili intercontinentali lanciati sia da terra che da sottomarini, nonché dalla conquista dello spazio – attribuiscono prevalente importanza ai fattori tecnologici e si ripercuotono sulle nuove teorie della ‛guerra delle informazioni’; quest’ultima starebbe provocando una ‛rivoluzione negli affari militari’ che permetterebbe agli Stati Uniti di esercitare il dominio mondiale senza ricorrere allo schieramento permanente di forze in Europa occidentale e in Asia orientale. Si tratta però di tesi che si ispirano a una visione esclusivamente tecnologica, la quale riduce la politica alla strategia e quest’ultima alla tecnologia degli armamenti: per quanto esse abbiano ispirato le teorie della dissuasione nucleare, predominanti nel corso della guerra fredda, appaiono ora superate sia dal fatto che la dissuasione nucleare reciproca si è tradotta in autodissuasione (v. Gray, 1977), sia dalla diffusione di potenza e dalla frammentazione del mondo post-bipolare (v. Gray, 1991), che hanno portato a rivalutare il ruolo delle forze convenzionali.
e) Le teorie del potere peninsulare.
Nicholas J. Spykman (1893-1943), uno degli esponenti più importanti della scuola americana del realismo politico, concepiva la geopolitica come un filone particolare di quest’ultimo, come componente essenziale degli arcana imperii, polemizzando aspramente sia con l’idealismo cosmopolita di derivazione wilsoniana, sia con l’isolazionismo miope di coloro che avrebbero voluto estraniare gli Stati Uniti dagli affari del mondo. Secondo Spykman, la conservazione della ricchezza e della potenza degli Stati Uniti imponevano loro, invece, di intervenire nel secondo conflitto mondiale e di farsi promotori, alla sua fine, di un ordine mondiale coerente con i loro interessi, definiti beninteso anche in relazione ai loro principî e valori di fondo.
Il centro propulsore della conflittualità mondiale sarebbe costituito (v. Spykman, 1944) dalla fascia peninsulare e insulare dell’Europa occidentale e dell’Asia orientale (denominata rimland), da cui sono partiti gli assalti al potere mondiale”. La sua unificazione sarebbe stata disastrosa per gli interessi degli Stati Uniti, che, infatti, erano circondati dal rimland, come risultava evidente esaminando una carta del mondo incentrata sugli Stati Uniti, e non lo circondavano, come invece si sarebbe potuto concludere da una carta incentrata sull’Europa.
Gli Stati Uniti sarebbero stati gli alleati naturali della Russia, con cui condividevano l’interesse a evitare l’unificazione del rimland, e che pertanto avrebbe dovuto essere favorevole alla presenza statunitense sia in Europa che in Estremo Oriente. Tale alleanza presentava, però, un limite: qualora fosse stata Mosca a cercare di esercitare la propria egemonia sul rimland, gli Stati Uniti avrebbero dovuto intervenire per impedirlo. Quelle di Spykman sono tesi ricorrenti nelle relazioni fra Washington e Mosca. Sia la politica roosveltiana, sia quella attuale, nota come ‛Russia first‘ – fondamento dell’idea di un nuovo ordine mondiale basato su un ‛duopolio imperiale’ americano-russo legittimato dall’ONU, quale sembrò affermarsi con la guerra del Golfo – sia la politica del containment della guerra fredda, sono sicuramente ispirate a questa visione geopolitica. Taluni, però, fanno discendere la grande strategia americana del periodo della guerra fredda” dalle tesi di Mackinder piuttosto che da quelle di Spykman (v. Gerace, 1991).
Di tutte le teorie elaborate dalla geopolitica classica, quelle di Spykman sono ancora quelle che verosimilmente più influiscono sull’attuale pensiero geopolitico (v. Wilkinson, 1985).
f) Le concezioni regionali e multipolari.
Saul B. Cohen (v., 1963) criticò tutte le concezioni geopolitiche precedenti per il loro eccessivo schematismo, che avrebbe comportato una visione rigida e globalistica del containment, da cui era derivata la cosiddetta ‛dottrina del domino’, base dell’intervento americano in Vietnam. Secondo Cohen, ogni elemento geopolitico della fascia del containment dell’Unione Sovietica era dotato di una propria individualità; pertanto, la conquista di uno di essi non avrebbe provocato il collasso – per l’‛effetto domino’, appunto – dell’intero sistema. Gli Stati Uniti avrebbero dovuto puntare a una maggiore autonomia regionale, diminuendo il loro impegno continentale sul rimland e creando poderose forze mobili, che avrebbero costituito un elemento equilibratore da impiegare solo in caso di aggressione a parti vitali del sistema antisovietico.
La prevalenza della dimensione strategica nella guerra fredda portò Cohen a dividere il mondo in due grandi regioni geostrategiche – il mondo commerciale marittimo e quello continentale euroasiatico – a loro volta suddivise in regioni geopolitiche, destinate a integrarsi attorno a uno Stato catalizzatore regionale, come la Germania per l’Europa.
Tali concezioni regionali o multipolari, che non ebbero modo di svilupparsi durante la guerra fredda data la rigidità della struttura del mondo bipolare, si stanno affermando dopo che quest’ultimo è venuto meno e si riflettono anche nelle concezioni geopolitiche del ‛nuovo disordine’ o dell’‛anarchia internazionale’.
g) La geopolitica francese.
La geopolitica francese si contrappone costantemente a quella tedesca. La Francia del XIX secolo non aveva ambizioni territoriali, se non quelle di recuperare i territori perduti dopo la sconfitta del 1870-1871. La scuola geopolitica francese si contrappose constantemente a quella tedesca, che tendeva ad arruolare la geografia sotto le bandiere dell’espansionismo (come avvenne nella Germania guglielmina prima e in quella hitleriana poi).
Il fondatore della geopolitica francese è considerato Paul Vidal de la Blache (1845-1918). Pur riconoscendo l’influenza della geografia sulla politica e sulla storia, egli affermava l’influenza determinante dell’uomo e della sua volontà, ridimensionando quindi quella dell’ambiente naturale e sostenendo una visione possibilista e antideterministica dell’impatto dei fattori naturali. Egli sottolineava la preminenza dei fattori culturali e della libera scelta dei cittadini, proprio per affermare la ‛francesità’ dell’Alsazia e della Lorena.
La sua impostazione venne ripresa da Jacques Ancel, che adottò l’approccio metodologico della scuola di Haushofer, francesizzando quindi la geopolitica tedesca proprio per confutarne le tesi e per porne in luce le finalità di mistificazione e di manipolazione.
L’intera geopolitica francese riflette quindi le concezioni francesi di nazione e di cittadinanza, contrapposte a quelle etniche e linguistiche proprie del pensiero tedesco.
h) La geopolitica sudamericana.
Negli anni cinquanta e sessanta si sviluppò, principalmente negli ambienti militari brasiliani, argentini e cileni, una geopolitica soprattutto interna, riferita alle esigenze di sistemazione, valorizzazione e organizzazione del territorio, anche in vista del miglioramento della sicurezza nazionale.
In particolare, il generale brasiliano Galbery do Conto e Silva (v. Lorot, 1995, pp. 80-83) applicò al Brasile il concetto di heartland, che situò nell’area compresa fra Brasilia, San Paolo e Rio de Janeiro. Tale zona sarebbe stata il centro di un arcipelago, dal quale si sarebbe dovuto procedere per integrare l’‛isola amazzonica’ e le penisole periferiche del nord-est (Recife), del sud (Rio Grande do Sul) e del centro-ovest nei pressi della frontiera con la Bolivia e il Paraguay. Da tale visione discesero lo spostamento della capitale a Brasilia e la decisione di costruire grandi vie di comunicazione strategiche per consolidare l’autorità del centro sulle regioni periferiche (per inciso, la recente decisione del Kazachstan di spostare la capitale da Alma Ata ad Akmola risponde a criteri almeno in parte analoghi).
Anche in Argentina e in Cile si diffusero teorie geopolitiche tendenti sempre a giustificare l’integrazione del territorio sotto il controllo dell’autorità centrale, completando la colonizzazione delle regioni scarsamente popolate e prevedendo anche il trasferimento, se necessario coatto, delle popolazioni.
i) L’idealismo geopolitico.
Tale orientamento si ispira a una visione idealistica o wilsoniana delle relazioni internazionali, in cui i rapporti di potenza sarebbero superati dall’esigenza di una pace positiva, basata sulla cooperazione e sulla solidarietà fra i popoli: ciò consentirebbe, fra l’altro, di non disperdere energie nella contrapposizione fra gli Stati, ma, al contrario, di concentrarle per la risoluzione dei grandi problemi comuni a tutta l’umanità, quali il sottosviluppo e il degrado ecologico.
Il tentativo più globale in questo senso fu compiuto da Immanuel Wallerstein (v., 1991), autore di un modello di sviluppo politico-economico mondiale, che avrebbe dovuto superare le disuguaglianze fra centro e periferia.
In Italia tali tesi sono state riprese e sviluppate, in particolare da Raimondo Strassoldo (v., 1979 e 1985), il quale ha teorizzato una ‛geopolitica costruttiva’ della pace e della ricostruzione sociale, cioè una ‛ecopolitica’ largamente decentrata da un lato e mondializzata dall’altro, contrapposta alla geopolitica classica, statocentrica e fondata sulla competizione per la ricchezza e per il potere.
Molte di queste tesi sono state riprese dalla moderna geopolitica ‛critica’ (v. Antonsich, 1995, pp. 49-57), i cui assunti sembrano però smentiti dal ‛pessimismo geopolitico’ ora dominante, in un mondo in cui a fenomeni di globalizzazione e anche di integrazione regionale ‛aperta’ sembrano contrapporsi da un lato la realtà del conflitto fra poli politico-economici, e dall’altro, soprattutto, le tendenze alla frammentazione, se non all’anarchia, del sistema internazionale.
l) Considerazioni sulla geopolitica del Novecento.
La geopolitica classica deriva dalla fusione di apporti storici e geografici ed è profondamente influenzata sia dall’evoluzione della tecnologia, sia dall’idea, tutta illuministica, di un progresso continuo verso un equilibrio corrispondente agli interessi dello Stato, al particolare periodo storico e all’ottica specifica in cui ci si colloca. Essa è fondata, in particolare, sulle correlazioni geografiche e su quelle della storia, intesa, quest’ultima, come processo razionale, interpretabile scientificamente e quindi tale da fornire indicazioni per la politica degli Stati.
La geopolitica classica, peraltro, non essendo mai neutrale né scientifica, assolve spesso una funzione ideologica e propagandistica, e rispecchia il sistema di valori e gli interessi di chi ne ha formulato le diverse teorie. Tale aspetto è particolarmente evidente nei ripetuti spostamenti dell’heartland di Mackinder.
Ciò non toglie che tali teorie costituiscano interessante materia di studio, perché taluni loro assunti, quali quello delle macroregioni (i Grossräume di Ratzel e Haushofer, ripresi da Carl Schmitt) sono stati ripresi sia dai sostenitori del NAFTA (North America Free Trade Agreement) o del cosiddetto partenariato euromediterraneo, sia dai federalisti europei o dagli eurasisti russi, spesso – ma non necessariamente – in antitesi con dottrine globaliste o internazionaliste. Queste ultime appaiono talvolta finalizzate esclusivamente a perpetuare, legittimandola, la superiorità degli Stati Uniti nell’epoca successiva alla guerra fredda e l’utilizzo da parte di questi ultimi delle grandi istituzioni internazionali, come l’ONU, la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e l’Organizzazione Mondiale del Commercio, nei cui confronti peraltro – quando sono in gioco gli interessi americani – gli Stati Uniti assumono un approccio marcatamente unilaterale.
Un altro motivo di interesse è dovuto al fatto che, con la frammentazione del mondo post-bipolare e lo scoppio di conflitti identitari, etnici e regionali, le percezioni e le rappresentazioni geopolitiche tradizionali, cioè il senso dello spazio proprio di ciascun gruppo socio-politico, stanno riemergendo e si prestano a essere strumentalizzate dai leaders politici per assumere o consolidare il loro potere, acquisendo il consenso delle masse su programmi nazionalistici che vengono giustificati facendo appello alla geografia e alla storia.
4. La geopolitica italiana.
a) Dagli albori al Risorgimento.
Le origini della geopolitica italiana possono esser fatte risalire al Medioevo, allorché non solo le Repubbliche marinare e il Regno di Napoli, ma anche Roma, Firenze e Milano erano veri e propri Stati, con una propria politica economica, se non globale, estesa almeno dal Mediterraneo all’Europa settentrionale e con rapporti internazionali molto intensi anche sotto il profilo culturale. È inoltre opportuno ricordare le tesi di Vico sui cicli storici e sui rapporti reciproci fra le civiltà dei monti, dei fiumi e delle pianure.
La geopolitica si sviluppò però nel Risorgimento, sia al fine di razionalizzare le motivazioni dell’unificazione nazionale anche a scopi propagandistici, sia per affrontare problemi di fondo, come quelli relativi a un’iniziativa puramente nazionale o all’inserimento del movimento unitario nel gioco degli equilibri delle grandi potenze, quello della struttura centralizzata o federativa del nuovo Stato, quello dei suoi interessi e del suo ruolo una volta che, dopo l’unificazione, esso fosse entrato a far parte del novero delle grandi potenze europee.
Molti dei temi dibattuti allora sono ancora vivi. Federalisti furono Cattaneo, Gioberti e Balbo, anche se con motivazioni diverse: il federalismo di Cattaneo era soprattutto anti-piemontese; quello di Gioberti teneva conto del peso del papato al centro della penisola e della necessità di acquisirne il sostegno al movimento di unificazione nazionale o, quanto meno, di non provocarne l’ostilità; Balbo riteneva invece che una struttura federale risultasse più accettabile da parte delle potenze europee di quanto potesse esserlo uno Stato centralizzato, sia perché uno Stato federale, assorbito dal problema di mantenere gli equilibri interni, non avrebbe potuto svolgere una politica di potenza, alterando in modo imprevedibile i rapporti di forza in Europa, sia perché esso avrebbe potuto meglio conservare gli assetti socio-economici esistenti, senza riflessi negativi sulla stabilità interna degli altri Stati. Per questo Balbo criticava l’idea giobertiana del primato morale e civile” degli Italiani e voleva collocare il movimento unitario italiano nell’ambito di un vasto e pacifico assestamento geopolitico dell’intera Europa. L’unificazione italiana sarebbe stata compensata da un’espansione dell’Austria nei Balcani e nell’Europa sud-orientale fino agli stretti turchi, della Germania verso est, per dar sfogo al suo incremento demografico, e della Russia in Asia, per civilizzarla e cristianizzarla. Balbo prevedeva inoltre una lega germano-italica”, dal Baltico all’Adriatico, diaframma moderatore fra Oriente e Occidente.
Il movimento rivoluzionario risorgimentale fu invece decisamente unitario: esso propugnava la cacciata dell’Austria dall’Italia attraverso la mobilitazione popolare e la ‛guerra di popolo’. I suoi esponenti principali furono Carlo Pisacane – antesignano di quel socialismo nazionale, dotato di notevole carica irredentista e interventista, che diventerà una componente fondamentale della nostra storia – e Giuseppe Mazzini, che auspicava una repubblica centralizzata sul modello rivoluzionario francese e il raggiungimento dei confini naturali delle Alpi, con l’incorporazione quindi delle popolazioni alloglotte dell’Alto Adige e della Venezia Giulia. Mazzini sosteneva anche la tesi che l’Italia unificata avrebbe dovuto mettersi a capo di una ‛lega’ degli Stati minori europei, da quelli scandinavi alla Grecia, che avrebbe dovuto ottenere l’appoggio esterno dell’Inghilterra e allearsi con i popoli slavi per concorrere all’equilibrio europeo, opponendosi alle tendenze egemoniche russa, tedesca e francese. Mazzini era favorevole, infine, a una maggiore influenza italiana nel Mediterraneo e in Africa. In sostanza, nel suo pensiero erano presenti molte delle tendenze geopolitiche che successivamente influenzarono la politica estera dell’Italia unificata.
Il pensatore geopolitico più originale del Risorgimento fu il generale pontificio Giacomo Durando (v. Botti, 1994), che per primo introdusse il termine geostrategia, attribuendogli il significato che avrebbe assunto nel Novecento, ossia quello di geopolitica. Egli sosteneva che fossero i rilievi montani a determinare sia le strutture degli Stati e le caratteristiche delle nazionalità, sia le loro potenzialità strategiche. Secondo tale prospettiva, l’Italia sarebbe costituita da due subregioni, divise dall’Appennino tosco-emiliano: a nord l’Eridania, basata sul sistema idrografico del Po; a sud la regione peninsulare, basata sugli Appennini. Il ‛punto protostrategico’, situato fra le sorgenti del Santerno e il Monte Falterona, avrebbe costituito lo spartiacque fra i due sistemi geostrategici italiani, e pertanto il suo possesso avrebbe avuto un effetto catalitico per la loro unificazione.
b) La geopolitica dell’Italia liberale e del regime fascista.
Il Regno d’Italia fu caratterizzato dal sovrapporsi di varie tendenze geopolitiche incoerenti fra di loro. La nuova classe dirigente, rimasta prigioniera dei miti di grandezza nazionale propagandati nel Risorgimento, tese a strumentalizzare la politica estera a scopi interni, sforzandosi di occupare un ruolo che collocasse l’Italia nel novero delle grandi potenze europee. Ne derivò la cosiddetta politica del ‛peso determinante’, di cui un riflesso attuale è il presenzialismo, vale a dire la costante ricerca di un ruolo di mediazione nonostante la ridotta capacità propositiva, le cui ragioni vanno ricercate anche nel fatto che, in assenza di una cultura geopolitica delle classi dirigenti, non è possibile individuare interessi nazionali né elaborare una coerente politica estera, e si determina invece la tendenza a sostituire gli interessi con un ‛ruolo’. È da questa situazione che sono nate le ambiguità, i cambiamenti di alleanza e la tendenza a inserirsi in ogni combinazione e a trarne vantaggi. Ciò spiega inoltre l’intercambiabilità dell’irredentismo italiano – diretto talora contro la Francia, talaltra contro l’Austria – e la conversione di Crispi e di Mancini dall’anticolonialismo a una disastrosa politica di espansione in Africa, con grande sperpero di sforzi e risorse che avrebbero potuto essere più efficacemente impiegati per lo sviluppo del Mezzogiorno.
Le uniche costanti della politica italiana dell’epoca furono l’amicizia con la Gran Bretagna, che dominava il Mediterraneo e che seguiva tradizionalmente in Europa una politica antiegemonica, e il tentativo di evitare confronti armati, in cui l’Italia sarebbe stata marginalizzata e avrebbe rivelato tutte le sue debolezze strutturali.
La costituzione, nel 1867, della Reale Società Geografica Italiana – alla quale diede un grosso impulso Cesare Correnti, con il dichiarato scopo di far sorgere in Italia uno spirito geografico per unificare culturalmente il paese e costituire uno stimolo per la sua politica estera – e quella, nel 1879, della Società Milanese di Geografia Commerciale – finanziata da industriali e volta inizialmente a reperire fonti di materie prime e mercati – trovarono scarsa eco negli ambienti accademici geografici, legati a una visione strettamente scientifica, se non arcadica, della loro attività, e interessati alla politica soprattutto per trarne sostegni finanziari.
Fece eccezione un’iniziativa editoriale di Cesare Battisti e del geografo Renato Biasutti, i quali fondarono nel 1899 a Trento la rivista Cultura geografica”, che ebbe però vita assai breve: essa si proponeva di porre il problema di rapporti fra geografia e politica su basi nuove, più attente ai problemi reali della società, contrapponendosi agli orientamenti più governativi e conservatori della Società Geografica.
Nemmeno la politica estera del fascismo, seppure caratterizzata da un grande attivismo – anche se in gran parte di semplice facciata e a uso interno -, fu sostenuta da un solido pensiero geopolitico. Negli anni trenta la politica estera italiana divenne destabilizzante, contestatrice degli assetti di Versailles e quindi alleata naturale, anche se inizialmente riluttante, del revanscismo tedesco; fu decisamente aggressiva sia nei Balcani che nel Mediterraneo, e tese a sfruttare il peso italiano, utile a Francia e Gran Bretagna in Europa, per ottenere compensazioni coloniali.
I problemi più delicati non riguardavano tanto lo ‛spazio vitale’ mediterraneo, quanto i Balcani, in cui l’Italia si trovava a fronteggiare la Germania; anche in questo caso l’incoerenza politica italiana è dimostrata dall’appoggio dato al croato Ante Pavelić, poi abbandonato nelle mani dei Tedeschi, per sostenere nel corso dell’occupazione più le milizie cetniche che quelle ustascia.
La corporazione dei geografi italiani sostenne i progetti di espansione nazionale ma, anziché dare un apporto culturale di spessore, si fascistizzò, beninteso con le dovute eccezioni, per ottenere riconoscimenti e prebende dal regime.
Il pensiero geopolitico non ebbe grande sviluppo. Vanno comunque segnalati i lavori di Roberto Almagià (v., 1923), che introdusse l’espressione ‛geografia politica dinamica’, utilizzata come sinonimo di geografia politica applicata, e di Luigi De Marchi (v., 1929), che sottolineò il valore indicativo e predittivo della geografia rispetto alla politica e affermò l’esistenza di ‛leggi tendenziali’ nel comportamento degli Stati.
Una vera e propria scuola geopolitica italiana si affermò a Trieste. Qui fu fondata nel 1939, e continuò le sue pubblicazioni fino al 1942, la rivista Geopolitica – Rassegna di geografia economica, politica, sociale e coloniale”, diretta da Giorgio Roletto, professore di geografia economica all’Università di Trieste, e dal suo allievo Ernesto Massi, docente di geografia all’Università di Pavia e all’Università Cattolica (v. Antonsich, 1991-1992). La rivista fu influenzata dalla tedesca Zeitschrift für Geopolitik”, ma se ne differenziò grandemente non solo per impostazione, negando ogni determinismo e affermando l’importanza centrale dell’uomo, ma anche per una maggiore ‛geograficità’, dato che i suoi collaboratori erano in prevalenza geografi. La sua tesi centrale era quella dello ‛spazio vitale’, inteso come spazio da organizzare più che da conquistare. Alla rivista non interessavano tanto le impostazioni teoriche; essa aveva l’ambizione di divenire la ‛coscienza geografica’ del regime e di sostenerne la politica estera, sia culturalmente, sia come mezzo di propaganda. Di fatto, il suo impatto reale rimase ridotto e la sua tiratura limitata, mentre la geografia accademica italiana la ignorò completamente, forse per il sospetto che l’autonomia della geopolitica dalla geografia fosse finalizzata ad ambizioni accademiche dei suoi sostenitori. La geopolitica italiana subì, in sostanza, una sorte analoga a quella della geopolitica tedesca. L’improvvisazione del regime, solitamente gabellata per pragmatismo, non voleva sicuramente farsi imbrigliare da elaborazioni che, per la loro stessa esistenza, l’avrebbero costretta a confrontarsi con l’esigenza di una maggiore coerenza e sistematicità.
c) La geopolitica della guerra fredda.
Le grandi ‛scelte di campo’ effettuate dall’Italia nell’immediato dopoguerra furono ispirate a una precisa visione geopolitica, chiaramente rintracciabile nel discorso di Luigi Einaudi a favore della firma del Trattato di pace, che mirava al reinserimento dell’Italia nell’Occidente e nell’economia internazionale. Non mancò neppure una politica di espansione economica nel Mediterraneo e nel mondo arabo, subordinata alle scelte atlantica ed europea, e una mini-Ostpolitik, ispirata non solo da interessi commerciali, ma anche di politica interna.
L’Italia perseguì in modo organico gli interessi nazionali entro tre cerchi (v. Incisa di Camerana, 1993): quello atlantico, quello europeo e quello mediterraneo, a cui se ne aggiunse successivamente un quarto, comprendente l’Est europeo e l’Unione Sovietica. Il primo, che era preminente, garantì la sicurezza esterna e costituì anche un fattore di stabilità interna; il secondo stimolò la modernizzazione e lo sviluppo economico italiano; il terzo e il quarto costituirono l’apporto più originale dell’Italia alla politica occidentale e consentirono inoltre la creazione di interessanti sbocchi commerciali e, soprattutto, di raggiungere l’indipendenza energetica, ma ebbero anche un non trascurabile effetto politico interno, in quanto attenuarono l’opposizione delle forze della sinistra cattolica e comuniste all’atlantismo e all’europeismo.
Il pensiero geopolitico teorico ebbe scarso spazio. Vanno comunque ricordati la rivista Hérodote/Italia”, diretta da Massimo Quaini fra gli anni settanta e ottanta e ispirata alla omonima rivista francese, e numerosi articoli, specie di Ernesto Massi e di Paola Pagnini, pubblicati sulla Rivista geografica italiana”. Più legati a visioni globaliste, ecologiste e pacifiste sono i già citati lavori di Strassoldo degli anni settanta e ottanta sulla ‛geopolitica della pace’, sull’‛ecologia delle potenze’ e sul significato delle frontiere, che dovrebbero essere i limiti permeabili di sistemi aperti portati alla collaborazione, anziché di sistemi chiusi e conflittuali, volti all’affermazione egoistica di propri specifici interessi.
5. La geopolitica contemporanea.
a) Le teorie globaliste.
La fine della guerra fredda ha provocato anche la scomparsa della separazione del mondo in tre raggruppamenti di Stati – i due blocchi e il Terzo Mondo – e ha in tal modo avviato una nuova dinamica. Lo sviluppo tecnologico ha portato alla globalizzazione dell’economia, della finanza e dell’informazione; ciò ha a sua volta determinato interdipendenze che andrebbero valorizzate a vantaggio di tutti. Il ‛gioco’ politico-strategico-economico non è più a somma zero: è divenuto a somma diversa da zero. La stessa contrapposizione economica fra gli Stati e fra i ‛poli’ regionali dovrebbe essere assoggettata a regole, basi di un nuovo ordine economico mondiale, in cui il Nord sarebbe portato a sviluppare il Sud e a risolvere i grandi problemi comuni, come quelli ecologici, quelli demografici e quelli dovuti a forze ‛devianti’ transnazionali, come la criminalità internazionale. Gli Stati-nazione sarebbero in via di estinzione, perché erosi dalle forze sovranazionali, transnazionali e substatali. La democrazia e il libero mercato avrebbero vinto. Si sarebbe determinata la ‛fine della storia’ e si sarebbero poste le basi per un ‛villaggio globale’, in cui la politica di potenza sarebbe sostituita dal diritto e da un ordine mondiale facente capo alle grandi istituzioni internazionali, dall’ONU a quelle economiche (Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale e Organizzazione Mondiale del Commercio). L’unica superpotenza rimasta – gli Stati Uniti – dovrebbe svolgere il ruolo di ‛gendarme del mondo’, regolatore e garante degli equilibri, della stabilità e della pace mondiali, in nome della democrazia, dei diritti umani e del libero mercato.
Il punto culminante del successo di tali teorie è stata la guerra del Golfo, in cui gli Stati Uniti, alleati di fatto con l’Unione Sovietica in una specie di ‛duopolio imperiale’, hanno ripristinato il diritto internazionale violato dall’aggressione irachena al Kuwait.
L’euforia globalista si è ora notevolmente attenuata, anche se non è completamente scomparsa, e si è modificata con l’affermazione di un ‛regionalismo aperto’, fondato sulla cooperazione anziché sulla competizione fra i poli politico-economici che stanno sorgendo nel mondo, anch’essi peraltro sottoposti a tensioni interne fra le forze dell’integrazione e quelle della frammentazione.
Il collasso interno ha trasformato l’ex Unione Sovietica da fattore di ordine in causa di disordine anche al di fuori del suo spazio imperiale: infatti, la scomparsa della sua potenza militare, con le pressioni che questa esercitava anche a nord della Cina, consente a quest’ultima una politica, se non espansionistica, quanto meno di pressione in Asia orientale e meridionale.
Ma gli Stati Uniti, concentrati sui loro problemi interni e sull’esigenza di fronteggiare la competizione economica con l’Europa e con il Giappone, sono sempre più restii ad assumersi l’onere di guardiani dell’ordine mondiale.
La crescita vertiginosa dell’Asia, non solo economica ma anche militare, e il progressivo slittamento del centro dell’economia mondiale dall’Atlantico al Pacifico creano nuove tensioni e pongono a rischio la prosperità dei paesi più ricchi e la loro capacità di competere economicamente con paesi che hanno costi della manodopera estremamente ridotti. L’Africa subsahariana è in completo collasso: la disintegrazione dovuta alla conflittualità sorta negli Stati post-coloniali e in quelli post-comunisti non sembra arginabile. I fallimenti dell’ONU in Somalia, Ruanda e Bosnia hanno fatto diminuire la fiducia nella sua capacità di realizzare un nuovo ordine. Il commercio mondiale, anziché essere regolato dall’Organizzazione Mondiale del Commercio, vede il sorgere di una rete di accordi interregionali e interstatali, spesso in contrasto con le sue regole globali.
b) Le teorie multipolari.
A differenza delle teorie globaliste, quelle multipolari ritengono che il nuovo assetto geopolitico mondiale sia basato sul consolidamento di blocchi regionali, con rapporti sia cooperativi sia competitivi o, al limite, conflittuali fra di loro.
Di fatto, si assiste al riemergere di panregioni, che si sviluppano nel senso dei meridiani, analogamente a quanto sostenuto dalle tesi della scuola di Haushofer. La costituzione del NAFTA e la ripresa del concetto di Eurafrica nel programma del cosiddetto partenariato euromediterraneo, affermato nella Conferenza di Barcellona del 1995, ne sono dimostrazioni. Tali tesi riecheggiano anche nelle teorie eurasiste (v. Thom, 1994), che propongono un programma di cooperazione della Russia con Iran e India da un lato, e con Germania e Cina dall’altro, nell’ambito di una contrapposizione ‛binaria’ fra Eurasia e potenze oceaniche anglosassoni. Prosegue anche l’integrazione nel senso dei paralleli, come avviene nell’Unione Europea, nell’ASEAN (Association of South-East Asia Nations), nell’APEC (Asia-Pacific Economic Cooperation) e, in un certo senso, con i più stretti rapporti fra Unione Europea e MERCOSUR (Mercado Común del Sur; v. Sacco, 1994).
Sembra prodursi un sistema pentapolare, simile a quello previsto da Henry Kissinger, in cui il mondo sarebbe basato su Stati Uniti, Europa, Russia, Cina e Giappone, a cui si potrebbero aggiungere l’India e forse, in futuro, i paesi del MERCOSUR. Il concetto di panregione serve comunque spesso a giustificare in termini geopolitici, come peraltro già avveniva in passato, le ambizioni egemoniche degli ‛Stati catalizzatori’.
Non è ancora chiaro se il panregionalismo tenda a essere ‛aperto’, cioè collaborativo a livello globale, oppure ‛chiuso’ e potenzialmente conflittuale. Un ‛polo’ che sembra corrispondere alle caratteristiche di quest’ultimo tipo è la Cina, che costituisce l’unico soggetto geopolitico potenzialmente in grado di sfidare la supremazia degli Stati Uniti, almeno in Asia orientale e sud-orientale. La Russia e il Giappone stanno attraversando un periodo di regressione, forse transitoria, mentre la potenza dell’India sembra svilupparsi con molta rapidità, nonostante le incertezze che esistono circa la sua stabilità interna.
c) Le teorie binarie.
Le principali teorie binarie sono quella dello ‛scontro fra civiltà’ (v. Huntington, 1993), quella eurasista (v. Thom, 1994) e quella geoeconomica ( v. Luttwak, 1990).
La prima – che per certi versi è anche multipolare, poiché considera otto civiltà differenti – sostiene che l’identità religiosa condiziona le civiltà, le quali, a loro volta, influenzano le tendenze alla cooperazione o al conflitto fra i popoli. La comunanza di civiltà è quindi un fattore molto influente nelle relazioni internazionali, anche perché viene strumentalizzata dalle classi politiche per legittimare sia il loro potere, sia le loro alleanze internazionali. Huntington prevede che il prossimo conflitto mondiale mobiliterà contro l’Occidente un’alleanza – peraltro improbabile, a nostro avviso – confuciano-islamica, che minaccerà prima la Russia, poi l’Europa e infine gli Stati Uniti; questi ultimi tre dovrebbero pertanto allearsi. Su scala regionale, tale tesi è ripresa da coloro che sostengono in Europa l’esistenza di una minaccia islamica e che non considerano il Mediterraneo il centro di una regione geopolitica unitaria, ma ne auspicano la trasformazione in una barriera fra Nord e Sud.
La scuola eurasista, sviluppatasi grandemente in Russia, riprende le tesi della contrapposizione fra terra e mare proprie della geopolitica classica. Essa sostiene l’esigenza per la Russia di un’alleanza con la Germania a ovest, con la Cina a sud-est e con l’Iran e l’India a sud, per opporsi alla supremazia talassocratica degli Stati Uniti. I principali avversari di tale progetto sarebbero gli Stati europei occidentali e gli Stati islamici alleati degli Stati Uniti, primo fra tutti la Turchia, che costituiscono strumenti della penetrazione statunitense nell’Eurasia.
Quanto alle teorie geoeconomiche di Luttwak, esse possono in un certo senso essere assimilate alle teorie binarie, pur risentendo grandemente anche delle teorie dell’anarchia internazionale; in tale impostazione è centrale la distinzione tra un mondo industrializzato, dominato dalla geoeconomia e dall’assenza di conflitti militari, e un mondo ancora geopolitico, teatro di conflitti territoriali.
d) Le teorie anarchiche.
Viene indicata col nome di teorie anarchiche una ricca gamma di posizioni, da quelle della rinazionalizzazione e frammentazione del sistema internazionale a quelle del disordine mondiale – dovuto all’implosione degli Stati sotto la pressione degli etnonazionalismi – a quella sostenuta da Immanuel Wallerstein (v. Wallerstein, 1991) della fine del capitalismo, a quelle della cosiddetta geopolitica critica e della geopolitica ‛morbida’. Quest’ultima, che attribuisce grande importanza alle culture, all’economia, alle religioni e alle istituzioni sociali e politiche, si contrappone alla geopolitica ‛dura’, basata su fattori geografici fisici e sulla tecnologia militare.
Alle teorie del disordine si è già accennato precedentemente, parlando della crisi delle teorie globaliste.
Wallerstein sostiene che la fine dell’escatologia marxista comporterà anche la fine di quella liberista, giacché entrambe sono portatrici di una concezione del progresso di derivazione illuministica, imperniata sull’idea di un processo lineare dell’umanità verso un ordine sempre maggiore; ciò lascerà spazio a una fase storica imprevedibile, complessa e incerta, in cui si modificheranno profondamente le strutture del mondo. Tesi analoghe sono state sostenute da altri studiosi, come Alain Minc, che prevede un nuovo Medioevo senza impero e senza papato.
La geopolitica critica (v. Ó Tuathail, 1996) sostiene che, per comprendere le dinamiche del mondo ‛postmoderno’, occorre una nuova geopolitica. Lo spazio va concepito come prodotto sociale, quindi eterogeneo; vanno inoltre valorizzate le differenze e l’indeterminatezza e rifiutata ogni egemonia e ogni gerarchia. La geopolitica può essere solo globale, dato che la separazione fra gli Stati non ha più senso; a differenza delle teorie globaliste, la geopolitica critica auspica l’avvento di un ordine non gerarchico ma orizzontale, di natura funzionale.
e) La geopolitica italiana del dopo guerra fredda.
Se, nel periodo della guerra fredda, il riferimento principale della politica italiana era costituito dagli Stati Uniti, nel ‛terzo dopoguerra’ esso si è spostato sull’Europa, che l’unificazione tedesca ha trasformato da un sistema di equilibri in uno almeno parzialmente gerarchico. L’importanza del rapporto con gli Stati Uniti per l’Italia rimane però determinante, anche perché la presenza americana garantisce uno stretto legame fra il Mediterraneo e l’Europa centrale e mantiene un maggior equilibrio interno europeo, il che costituisce la premessa per la continuazione di quel processo d’integrazione europea che rappresenta, per il nostro paese, un interesse vitale.
Mutata è anche la dimensione del Mediterraneo. In passato esso era diviso in senso est-ovest dal confronto bipolare, ma era unificato dalla presenza della Sesta Flotta; oggi, invece, esiste una separazione nel senso dei paralleli, fra nord e sud. Inoltre, mentre nel periodo della guerra fredda la politica interna italiana era caratterizzata da una divisione ideologica verticale fra governo e opposizione, ora predominano le tensioni che contrappongono le zone settentrionali (e soprattutto quelle nordorientali) del paese a quelle centrali e meridionali. Infine, la caduta delle rigide strutture della guerra fredda ha fatto riscoprire talune dimensioni geopolitiche proprie degli Stati preunitari italiani, soprattutto, ma non solo, sotto il profilo economico (v. Incisa di Camerana, 1993; v. Santoro, 1993).
È ripresa in Italia la riflessione geopolitica, volta a superare la visione eccessivamente ideologizzata di molte delle forze politiche e culturali italiane; essa pone al centro del dibattito la definizione degli interessi nazionali italiani. Il successo di Limes – Rivista italiana di geopolitica” dimostra come nella cultura nazionale esistessero sia un vuoto al riguardo, sia la percezione dell’esigenza che tale vuoto andasse colmato.
6. I fattori geopolitici e i metodi impiegati dalla geopolitica.
a) Fattori permanenti.
I principali fattori geopolitici permanenti, o sufficientemente stabili per essere considerati tali, sono: lo spazio, la posizione, la natura continentale o insulare, la morfologia, la dimensione, il clima, le risorse naturali e la cultura di un popolo, quest’ultima intesa come quel complesso di valori e di principî che gli derivano dalla sua storia, religione, ecc., e che determinano la sua percezione, o ‛senso dello spazio’, il quale a sua volta si materializza in una particolare rappresentazione.
I fattori fisici dominarono la geopolitica fino al secondo conflitto mondiale, anche se quelli umani assunsero crescente importanza con lo sviluppo sia di una visione darwinista (e quindi dinamica) dei rapporti sociali, sia di una concezione ispirata all’antropologia e alla geografia politica. Si postulava, infatti, tanto la costanza di taluni meccanismi di fondo dei rapporti internazionali, quanto l’impatto diretto dei condizionamenti e delle opportunità geografiche sulla dinamica delle potenze. Il pensiero geopolitico serviva quindi all’elaborazione di una serie di principî e regole aventi validità generale e tendenzialmente normativa, soprattutto quando da tali principî furono sviluppate teorie coerenti, con l’ambizione di trasformare la geopolitica in scienza o di dimostrare la necessità e l’oggettività delle proposte via via formulate (v. Strassoldo, 1985, p. 205).
Lo sviluppo della tecnologia ha diminuito l’importanza delle dimensioni naturali e soprattutto di quelle spaziali, anche se il territorio rimane determinante, come risulta evidente dall’importanza delle autorappresentazioni geopolitiche dei gruppi in lotta nei conflitti etnici e identitari. Si è modificato anche il valore della distanza: più che di distanza geografica, bisogna parlare di dimensioni spazio-temporali o di costo e tempo dei trasporti (l’impatto di questi ultimi è peraltro diminuito, per il fatto che una parte crescente del commercio mondiale si riferisce ai servizi e quindi a beni immateriali, veicolabili sulle ‛autostrade dell’informazione’). La ‛geografia volontaria’ (tunnel, canali, ponti, ecc.) e l’avvento dei trasporti aerei e delle telecomunicazioni via satellite hanno modificato profondamente la geografia naturale. Con l’avvento dei mezzi aerospaziali, la contrapposizione fra terra e mare non è più netta come in passato.
L’importanza delle risorse naturali si è modificata, sia per la moltiplicazione delle loro fonti, sia per la loro ampia sostituzione con materiali artificiali, quali la plastica al posto dell’acciaio, l’energia nucleare al posto del petrolio, ecc.
In passato, il valore geopolitico del territorio era collegato soprattutto con il gettito fiscale (prevalentemente agricolo) e con la leva militare: per questo le dimensioni erano considerate tanto importanti, da originare teorie come quelle dello ‛spazio vitale’. Oggi le dimensioni possono rivelarsi, invece, un handicap per l’economia: lo Stato-nazione è al tempo stesso troppo piccolo e troppo ampio. Si è passati da una situazione in cui i mercati erano in numero maggiore degli Stati a una in cui esiste, almeno per molti settori, un unico mercato mondiale.
In passato dominavano le dimensioni territoriali e orizzontali della geopolitica, oggi invece sono preminenti i flussi, rispetto agli spazi. La potenza e la ricchezza di uno Stato dipendono sempre più dall’essere inserito efficacemente nei flussi globali; la geopolitica si è così trasformata da prevalentemente statica in dinamica, anche se il principale soggetto geopolitico – lo Stato – è rimasto territoriale e deve quindi conciliare la sua territorialità con un efficace inserimento nella rete dei flussi finanziari, informativi, dei servizi avanzati, tecnologici, ecc. A tale proposito va rilevato che, mentre nel passato la coesione dello Stato veniva mantenuta soprattutto opponendosi alla rivolta dei poveri e proteggendo le industrie con barriere tariffarie, la situazione ora è notevolmente cambiata: non sono più i poveri a rivoltarsi contro lo Stato, ma i ceti e le regioni più ricche, che tendono a internazionalizzarsi sempre più, trasferendo capacità produttive, conoscenze tecnologiche, capitali e attività negli Stati o insiemi subnazionali che offrono loro migliori condizioni dal punto di vista fiscale, di costo e qualità di manodopera, di servizi e di infrastrutture. Non è più lo Stato a tassare le imprese, bensì queste ultime a scegliere lo Stato da cui farsi tassare. Il significato territoriale della base economica nazionale, fondamentale nella geopolitica del passato, che cercava, appunto con lo ‛spazio vitale’, di realizzare l’‛autarchia’, si è grandemente modificato.
Al modello ‛impero territoriale’ si è sostituito quello ‛economia mondo’, più vantaggioso perché non comporta i costi burocratici del mantenimento dell’ordine dell’impero, pur consentendo di trarne gli stessi vantaggi con i mezzi della geoeconomia e dell’informazione. La sconfitta dell’Unione Sovietica nella guerra fredda è sicuramente dovuta anche alla maggiore efficienza dei sistemi ‛economia mondo’ dell’Occidente rispetto al modello dell’‛impero territoriale’ che caratterizzava il blocco sovietico.
L’importanza e il significato diretto dei fattori geografici e fisici sulla geopolitica non sono peraltro scomparsi. La posizione, gli stretti marittimi, la disponibilità d’acqua e di prodotti petroliferi, ecc., sono rimasti fattori essenziali anche nella geopolitica contemporanea.
b) Fattori variabili.
I fattori geopolitici variabili sono la popolazione, l’economia, la finanza, le istituzioni politiche interne e internazionali e la tecnologia, sia militare che dei trasporti, delle telecomunicazioni e dell’informazione.
Per quanto riguarda la demografia, il fattore di maggior rilievo è l’accelerazione della crescita demografica e soprattutto il diverso tasso che essa fa registrare nei paesi in via di sviluppo e in quelli industrializzati. Altri fattori importanti sono rappresentati dall’urbanizzazione, spesso selvaggia, del Terzo Mondo, dalla tendenza delle sue popolazioni ad ammassarsi lungo le coste, dove esistono migliori condizioni di integrazione nell’economia mondiale, e infine dall’invecchiamento della popolazione dei paesi industrializzati, che influisce sui costi sociali e quindi sulla competitività globale degli Stati occidentali.
Particolarmente critica è la situazione dell’area del Mediterraneo: le differenze fra i livelli di crescita economica, anche nell’ambito dei medesimi Stati, stanno acquistando notevole importanza geopolitica, per le tendenze alla frammentazione che esse comportano. Lo dimostrano le situazioni italiana e britannica; lo dimostra anche, in un contesto diverso, il caso della Cina, dove, per la prima volta nella storia di quel paese, le regioni marittime stanno divenendo più importanti di quelle centrali, rimaste però sedi del potere politico e militare.
Se l’economia, l’informazione, ecc., si globalizzano, sorgono come reazione da un lato movimenti etnici e localistici, se non tribali, mentre, dall’altro, crescono le tendenze alla macroregionalizzazione sovranazionale. La crisi dello Stato – o meglio, l’esigenza dell’adeguamento dell’organizzazione economica e strategica alle nuove condizioni – sta determinando una dinamica geopolitica particolarmente accentuata, in cui esiste una presenza competitiva, se non conflittuale, delle forze tese all’integrazione e di quelle che portano alla frammentazione e alla disintegrazione. Determinanti in geopolitica sono divenute le grandi reti globali, i flussi che vi circolano e la capacità degli Stati di accedervi; la geopolitica risente della rivoluzione dell’informazione, che influisce in modo molto rilevante sulla potenza militare e sulla ricchezza, e che obbliga a ripensare le funzioni e le stesse strutture organizzative degli Stati-nazione.
c) Approcci, metodi e tecniche.
I mutamenti attuali impongono una revisione dei fondamenti epistemologici e metodologici della geopolitica classica, che, come si è più volte detto, era essenzialmente territoriale. Agli spazi prevalentemente fisici se ne sono sovrapposti altri di maggiore rilevanza: economici, demografici, strategici, istituzionali, psicologici, culturali, ecc.
Gli attori sono divenuti qualitativamente differenti: non si tratta più solo degli Stati, ma anche delle istituzioni sovranazionali, delle organizzazioni substatali e delle forze transnazionali. Ciò nonostante, molti tendono a ricollocare al centro dell’interesse della geopolitica gli Stati, considerati gli elementi fondamentali del sistema internazionale, i luoghi in cui gli uomini sono collegati a un territorio e a un ordinamento giuridico, gli aggregati sociali capaci di definire anche impositivamente valori, interessi e politiche e in cui sia possibile realizzare un equilibrio fra solidarietà e libertà, e, infine, le entità il cui valore di riferimento simbolico non va trascurato.
Insomma, la ‛nuova’ geopolitica rimane soprattutto statocentrica, anche se è molto più multidirezionale e multidisciplinare che in passato. Ogni fattore e ogni attore ha un suo spazio specifico, che si incrocia con quello degli altri sul medesimo territorio: non si tratta di spazi reali né tantomeno naturali, ma di spazi risultanti da una concettualizzazione, basati sia sugli interessi, sia sulle capacità necessarie per conseguirli e che sono sempre più immateriali. La geografia che interessa non è tanto quella fisica, quanto quella umana. Mentre la geopolitica classica considerava soprattutto le dimensioni spaziali – diversamente dalla filosofia, che dava preminenza a quelle temporali – la nuova geopolitica attribuisce importanza a entrambe le dimensioni e ai fattori immateriali. Per pensare lo spazio, al fine di poter agire efficacemente, possono essere seguiti vari approcci (v. Cohen, 1963; v. Hartshorne, 1950 e 1960): storico, morfologico o geografico in senso proprio, funzionalista, dell’analisi di potenza, comportamentale e sistemico. L’approccio storico prende in considerazione soprattutto le ‛rappresentazioni geopolitiche’, cioè il ‛senso dello spazio’ dei vari attori; quello morfologico-geografico analizza i fattori geopolitici permanenti e variabili con le metodologie proprie delle scienze geografiche, mettendo in correlazione i vari fattori, valutandoli e ponderandoli secondo la logica dei loro meccanismi interni, beninteso in relazione agli interessi che ne hanno motivato la rilevazione e che influiscono anche sulle valutazioni; l’approccio funzionale si incentra sulla valutazione del funzionamento e del significato di una particolare regione, considerata come un’entità politica, economica, strategica, ecc.; quello dell’analisi di potenza tende a dare rilievo alle interrelazioni esistenti in una determinata area fra i vari soggetti che vi agiscono e si basa sull’individuazione di convergenze e conflittualità e sulla correlazione delle forze presenti nell’area; l’approccio comportamentale è fondato sull’individuazione delle presumibili intenzioni dei vari attori, su cui influiscono le strutture e i meccanismi decisionali, politici e burocratici; l’approccio sistemico, infine, è una combinazione dei precedenti, soprattutto di quello dell’analisi di potenza e di quello comportamentale, e attribuisce eguale importanza alle possibilità e alle intenzioni.
Qualsiasi metodologia di valutazione geopolitica comporta tre aspetti: 1) la definizione degli spazi, e quindi degli attori interni ed esterni, da considerare; 2) i fattori da valutare; 3) le interconnessioni fra attori e fattori. A monte di ogni analisi deve beninteso esistere una meta-geopolitica, cioè un insieme di valori che influiscono sulle preferenze soggettive circa gli interessi generali da perseguire e che costituiscono elemento di riferimento indispensabile sia per le delimitazioni che per le successive valutazioni.
La delimitazione dello spazio, o degli spazi, dipende dalla natura degli interessi che si intende perseguire e dal livello di potenza disponibile, che peraltro può variare nel tempo; con essa vengono anche definiti gli attori da prendere in considerazione. Esistono zone di interesse, d’influenza e d’azione, che sono di solito rappresentate con cerchi concentrici, ma che nella realtà si distribuiscono a ‛chiazze di leopardo’ – in modo diverso, ad esempio, per gli interessi economici e per quelli relativi alla sicurezza. Lo stesso avviene per la potenza disponibile, che subisce un fenomeno di attenuazione differenziata con l’aumentare della distanza, in modo comunque dipendente dalla tecnologia disponibile.
I fattori da considerare non vanno valutati in modo assoluto bensì relativo, tenendo conto delle interrelazioni fra di loro e fra i vari attori geopolitici che agiscono nello spazio prima delimitato. Si tratterà sempre di effettuare analisi e valutazioni in campi disciplinari differenti, ciascuno con propri spazi e orizzonti. Solo l’esistenza di un progetto, anche se di larga massima, permette valutazioni coerenti: occorre ragionare prima di misurare. La sintesi progettuale precede l’analisi e questa retroagisce sulla prima, affinandola e perfezionandola.
La valutazione delle interazioni fra i vari attori e fattori mira infine a precisare gli interessi e a definire le politiche e le strategie per conseguirli. La tecnica impiegata è sostanzialmente quella dell’‛impatto incrociato’, molto più flessibile e meglio in grado di tener conto degli aspetti qualitativi, e non solo quantitativi, rispetto a tecniche più rigide, quali quelle ispirate alla ‛teoria dei giochi’. Quest’ultimo ‛passo’ metodologico è quello più creativo ed è quindi caratterizzato da un elevato tasso di soggettività, soprattutto allorquando si tratta di definire interessi e obiettivi. Nell’azione concreta, volta a raggiungere tali obiettivi, i condizionamenti e le opportunità dell’ambiente hanno invece un influsso più diretto.
La nuova geopolitica tiene quindi conto degli spazi e dei flussi e si traduce nella capacità di ‛pensare lo spazio’. La fine del mondo bipolare, rimettendo in gioco gli assetti precedenti di potere, la divisione internazionale del lavoro e la gerarchia delle potenze, ha dato il via a una nuova competizione per il dominio dello spazio e per la sua organizzazione, di cui si deve tenere conto per essere attori e non solo spettatori della storia e dei destini propri e del mondo.
Si ringrazia l’Autore e l’Istituto della Enciclopedia Italia per aver autorizzato la pubblicazione della voce, apparsa in Enciclopedia del Novecento vol. X Suppl. II A-G.
* Carlo Jean – Nato a Mondovì (Cuneo) il 12 ottobre 1936. È docente di Studi Strategici alla “LUISS – Guido Carli” e Presidente del Centro Studi di Geopolitica Economica. È autore o curatore di numerosi articoli, libri e saggi tra i quali, in particolare: “Guerre Stellari: società ed economia nel cyberspazio” in collaborazione con Giulio TREMONTI, Franco Angeli, 2000; “An Integrated Civil Police Force for the European Union”, CEPS, Brussels, 2002; e con Tito FAVARETTO “Reti infrastrutturali nei Balcani”, CSGE – Franco Angeli, 2002; Guerra, strategia e sicurezza, Laterza, 2002; “Manuale di geopolitica”, Laterza, 2003; “Manuale di Studi Strategici”, Franco Angeli, 2004; “La geopolitica del XXI secolo” Laterza, 2004; “Geopolitica dei Balcani Orientali e Centralità delle Reti Infrastrutturali”, CSGE – F. Angeli, 2004; “Sicurezza: Le nuove frontiere”, CSGE – Franco Angeli, Milano, 2005; “Interessi Nazionali: metodologie di valutazione”, Franco Angeli, 2005. Membro del Consiglio esecutivo e direttore scientifico della Rivista Liberal Risk. È insignito della onorificenza di Cavaliere di Gran Croce O.M.R.I e della Medaglia d’oro di Gandhi dell’UNESCO per le sue attività in Medio Oriente e nei Balcani.
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