Nell’approfondire le spese e lo sforzo militare di un Paese è possibile incontrare numerose difficoltà e approcci di diverso tipo. In linea generale, essendo l’attività militare fondamentale per la gestione della politica estera e i rapporti internazionali, non è possibile accettare un approccio meramente economicista, basato cioè solo sui bilanci. Sebbene soprattutto in periodi critici da un punto di vista economico e sociale è importante rivedere alcune priorità, non è possibile valutare pro e contro di una gestione militare soltanto attraverso i dati della spesa pubblica. E’ fondamentale invece valutare la qualità di quella spesa; questa evidenza vale per ogni tipo di spesa statale e a maggior ragione per quella militare che non ha un valore esclusivamente materiale, ma comporta scelte strategiche e, a cascata, economiche, sociali, politiche.
La spesa militare italiana secondo il Sipri (Stockholm International Peace Research Institute) è per il 2012 di 26 miliardi di euro, pari all’1,7% del Pil. I dati militari in realtà dovrebbero essere presi con il beneficio del dubbio, altre fonti indicano la spesa reale italiana di circa 17 miliardi di euro, quello però confermato da tutti è il trend sul lungo periodo. Se in Italia i bilanci della difesa sono quindi scesi dal 2% del Pil di circa dieci anni fa, così come sono scesi ovviamente quelli degli Stati periferici europei in crisi (insieme a Roma, Madrid, Atene, Lisbona), siamo di fronte ad una sostanziale conferma per i bilanci dei grandi Paesi centrali europei e un incremento invece per Stati Uniti e Paesi emergenti.
La questione però non è per l’appunto quantitativa, ma qualitativa. La spesa militare è come ogni spesa e forse più di altre necessaria, ma quello che si compie con questo denaro impiegato e investito è il fulcro della questione.
La politica estera italiana ed europea degli ultimi decenni, a parte situazioni di particolare vantaggio come la guerra fredda (essendo l’Italia sulla cortina, in cambio della fedeltà agli Usa venne lasciata libera nello svolgere la politica ne Mediterraneo) non ha brillato particolarmente. Anzi, come possiamo vedere apertamente oggi, ha portato il continente dall’essere un faro e un esempio mondiale, ai margini della geopolitica mondiale. Come è potuto accadere se la spesa comune è più elevata che non in altre aree del pianeta? Incompetenza? Non è questa la spiegazione.
Attraverso la coalizione geopolitica che risponde al nome di Trattato del Nord Atlantico (Nato), viene gestita la politica estera dell’intero continente europeo. Basti pensare che fatta di circa 1750 miliardi di dollari la spesa militare mondiale nel 2012, oltre 1000 miliardi (circa il 57% del totale) è fatto dai bilanci dei membri dell’Alleanza Atlantica. Ma per fare cosa? Chiaramente essendo la guida della Nato stretta in mani statunitensi, che a loro volta rimangono indiscutibilmente la super potenza militare con il 40% delle spese globali (682 miliardi) seguiti ad abissale distanza dalla Cina (166 miliardi), la politica che la Nato segue è affine all’elaborazione strategica e geopolitica nord americana. Ed è qui che si evidenzia il vulnus delle spese militari, non solo in sprechi o esagerazioni: quasi il totale ammontare della spesa militare italiana ed europea è utilizzata per finanziare strategie nord atlantiche che nulla hanno a che vedere con gli interessi del continente.
E non si parla soltanto del mantenimento negli Stati europei di centinaia e centinaia di basi militari Usa/Nato, che sono una spesa accollata alla cittadinanza ospitante (questo vale soprattutto per la Germania o il Giappone), dell’utilizzo che se ne potrebbe fare altrimenti e dei danni economici legati a quelli ambientali e alla salute. E neppure del budget civile Nato per il mantenimento di uffici, burocrazia e simili sempre sulle spalle dei cittadini europei (1).
Proprio l’utilizzo di gran parte della spesa militare per garantire le strategie della Nato, organizzazione che vogliamo approfondire tramite questa analisi, sarebbe come minimo da ridiscutere. Per mantenere il proprio status di super potenza in tempo di crisi, con potenze emergenti dai vertiginosi incrementi di Pil, gli Stati Uniti devono vedersi garantito lo sforzo congiunto degli alleati dell’Alleanza. Per esempio proprio nel 2012 la Nato ha cancellato esborsi per le basi militari degli alleati europei, mantenendo però quelli verso le basi Usa: in questo modo la Nato non contribuisce alle spese delle basi italiane utilizzate per le proprie missioni (per esempio la guerra alla Libia), mentre l’Italia contribuisce alle spese delle basi Usa in Italia.
C’è un termine che torna nella storia dello sviluppo occidentale angloamericano, ossia il fardello, il “burden”: dal “fardello dell’uomo bianco” colonialista, al “burden sharing” condivisione del fardello chiesta da Kennedy per lo sviluppo europeo; oggi più che negli anni passati torna l’interesse statunitense per la condivisione del fardello, l’utilizzo delle spese militari per assicurare il vantaggio su ogni continente alla Nato stessa, di cui si preoccupa anche il segretario generale Rasmussen (2). Ma rientra questo negli interessi italiani ed europei? E inizialmente, che cos’è la Nato e come si rapporta con gli alleati?
Come porsi poi dinanzi alla presenza nel nostro territorio di un centinaio circa di bombe nucleari controllate dagli stessi Stati Uniti, sebbene l’Italia abbia firmato il Trattato di non proliferazione, è uno dei tanti aspetti su cui una riflessione sarebbe d’obbligo, così come sull’utilizzo dello stesso territorio italiano per operazioni militari controproducenti per la stessa Italia.
In un sistema accademico, culturale, politico che non è erroneo definire estremista, nessuno di questi argomenti è mai stato toccato seriamente dai vertici istituzionali. Covano ad un livello inferiore, ma non vengono mai affrontati in quanto la stesso assetto politico è fondato su uno status quo vitale per alcuni poteri. Oggi però la crisi economica ci pone anche davanti a possibilità, sfide o semplicemente necessità, che l’estremismo ideologico non dovrebbe e non potrà contenere. C’è assoluto bisogno per l’Italia e per l’Europa di svincolarsi da strategie controproducenti che vedono nemici nel cuore della massa eurasiatica e che quindi hanno lo scopo di dividerla. E’ assolutamente necessario riavviare il dibattito, per lo meno accademico, sull’utilità e l’opportunità di fornire risorse e uomini a strategie dubbie ed elaborate lontano dal continente europeo.
*Matteo Pistilli è vice presidente del Cesem e redattore di “Eurasia, rivista di studi geopolitici”.
(1) Per fare un esempio il documento ufficiale Usa del 2004 stimava il contributo italiano agli sforzi statunitensi di circa 2,3 miliardi di euro; stima da considerare residuale in quanto riguarda solamente stime sulle operazioni ufficiali senza prendere in considerazione costi aggiuntivi, costi opportunità e quant’altro.
(2) Se dovessero essere tagliate le spese degli alleati “non saremo in grado di difendere la sicurezza da cui dipendono le nostre società democratiche e le nostre prospere economie” dice nel 2012 ad un Summit Nato; “Rischiamo di avere, a oltre vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, un’Europa debole e divisa” confermando che è proprio in Europa l’interesse della coalizione atlantica.
Questo articolo è la premessa dell’analisi del Cesem “Nato: un’alleanza da ripensare” che è possibile leggere qui: http://www.cese-m.eu/cesem/2013/05/nato-unalleanza-da-ripensare/
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