All’origine degli scontri avvenuti nella città di Jos, che hanno causato quasi 500 morti, ci sarebbero motivazioni di carattere politico. A sostenerlo è l’arcivescovo della città monsignor Ignatius Ayau Kaigama. Con la diffusione della notizia, il 17 gennaio scorso, tutte le agenzie di stampa avevano parlato di conflitto interreligioso, mettendo in evidenza il terribile precedente del novembre 2008, in cui persero la vita complessivamente 700 civili e che provocò migliaia di profughi. Anche in quell’occasione l’arcivescovo di Abuja, mons. John Olorunfemi Onayekan, aveva contestato fortemente la ricostruzione della BBC (che fu poi, in sostanza, sostenuta dalle maggiori agenzie di stampa), ribadendo il movente politico e ammorbidendo quello religioso. Alla base del contrasto, sostiene la chiesa nigeriana, ci sarebbe il controllo della città. Gli hausa, stanziati da più di cento anni nell’area, e gli indigeni si contenderebbero il potere attraverso le armi. In effetti, furono proprio i risultati delle elezioni, che premiarono i cristiani beroms (l’attuale governatore, Jonah Jang, è di etnia berom) e ritenuti truccati dai mussulmani hausa, a causare gli scontri del novembre 2008. Un cooperante italiano sostiene, in riferimento agli scontri di gennaio, la natura politica, affermando che «i combattimenti sono tra indigeni e coloni. Gli indigeni sono di religione cristiana mentre i coloni fanno riferimento agli hausa musulmani. Gli indigeni spingono fuori gli hausa con qualsiasi mezzo e si arriva a questa situazione di scontro. Ma i pretesti per conquistare questo Stato cruciale sono i più vari. Le ragioni sono in realtà come sempre politiche». Ci si chiede: è possibile effettuare una distinzione netta tra l’elemento religioso e quello etnico-politico in un paese come la Nigeria? La risposta può forse trovarsi grazie ad un’analisi storica neanche troppo accurata, e tenendo gli occhi su una carta geografica della Nigeria. Lo stato di Plateau, in cui si trova la città di Jos, è una pedina importante nello scacchiere politico nazionale. Trovandosi esattamente al centro del paese, quindi tra il nord a maggioranza mussulmana e il sud a maggioranza cattolica, è un territorio appetibile per coloro – e in Africa non è inconsueto – che vogliono estendere il loro dominio attraverso lo scontro armato, anche in nome della propria religione. Perciò, dimenticare che gli hausa sono per la maggior parte di religione islamica e che gli indigeni sono per lo più cattolici, significa affrontare le cose in modo miope. Altresì, dimenticare che negli anni precedenti moschee e chiese sono state distrutte (in nome di un presunto conflitto politico?), significa tranciare di netto il legame che intercorre tra politica e religione in una regione che è da sempre disputata tra i membri delle due grandi confessioni. Con questo non si pretende di avvalorare l’uno o l’altro carattere, bensì aprire una strada per una più profonda comprensione dei fatti. Per farlo ci si deve affidare ad una digressione necessaria sull’ambiente sociale, politico e religioso in cui sono avvenuti.
A nord della confluenza Niger-Benué si estende l’altipiano di Jos (o di Bauchi), che con i suoi 1781 metri è la seconda vetta del paese. Isolate colline e vaste pianure danno forma ad un paesaggio affascinante, percorso da numerosi corsi d’acqua e popolate di villaggi e fattorie caratteristiche, separate non di rado da siepi di cactus. In quest’area povera di vegetazione (ma un tempo, probabilmente, molto più alberata) sorge l’omonima città di Jos, una delle più popolate ed economicamente rilevanti della Nigeria. Qui fiorì la celebre “cultura di Nok”(dal sito in cui vennero rinvenuti i primi reperti), il più importante e studiato caso di “civiltà del ferro” dell’Africa subsahariana occidentale. L’archeologo Bernard Fagg nel 1943 ne portò alla luce l’abbondante e sorprendente produzione di terrecotte databili all’incirca a partire dal IX secolo a.c. Tra le tante ipotesi sulla paternità etnica della cultura di Nok, una ne segnala la possibile strutturazione socio-politica (forse religiosa, ammesso che di religione possa parlarsi) delle differenti etnie che hanno popolato la regione. Un’eredità culturale importante, dunque, per una città che fece, sin dal 1915, anno della sua fondazione come campo per il trasporto della latta, dell’attività di estrazione mineraria la sua più importante fonte di sostentamento. Fu a partire dalla fine degli anni sessanta che Jos, vista la sua accresciuta rilevanza geografia ed economica, divenne prima capitale dell’ex Stato di Benue-Plateau e poi, nel 1975, capitale dell’odierno Stato di Plateau. Il sito ufficiale del governo la presenta come una delle città più sicure della Nigeria, nonché “home of peace” (casa della pace) luogo d’incontro pacifico tra differenti etnie e religioni. Come abbiamo avuto modo di capire, le cose non stanno esattamente così. Ma vale la pena spendere qualche parola sulle origini storico-politiche della regione e, più in generale, dell’intera Nigeria. Quando si parla d’Africa spesso la si pensa come un continente senza storia. O meglio, fuori dalla storia. E’ grazie all’etnologia e agli studi storici (ancora troppo pochi, per la verità) condotti lungo tutto il Novecento che oggi possiamo parlare di una storia del continente africano (purtuttavia indissolubilmente legata al mondo arabo e a quello occidentale) in modo – almeno parzialmente – autonomo rispetto alla storia europea. A dimostrazione della tendenza alla colonizzazione storiografica e della difficoltà del mondo africano a raccontare se stesso, ad acquisire, cioè, una coscienza storica indipendente, si può portare l’esempio etimologico. La leggenda vuole che fu un re arabo, Ifriqos, a dare il nome (Ifriqiya) alla terra in cui si stabilì da Oriente. Un orientale sarebbe stato quindi il primo africano, e le avrebbe assegnato il nome, colonizzandola de facto ancor prima idealmente che fisicamente. Sin dalle primissime interazioni col mondo greco e dalla colonizzazione romana l’Africa fu considerata come una terra lontana e sconosciuta. A fare del continente africano una enorme periferia hanno concorso, negli ultimi due secoli, due fattori considerevoli, i quali sono da ricercare nel rapporto instauratosi nei secoli tra l’Europa e il continente africano: la nascita delle curiosità culturali europee nei suoi confronti (a partire dalla seconda metà dell’Ottocento) e la colonizzazione. Tanto rilevanti sono questi fattori, che la prospettiva analitica in riferimento agli aspetti culturali, sociali, religiosi ha peccato quasi sempre (sarà ancora una volta l’etnologia a segnare una svolta in questo senso) di quell’eurocentrismo contagioso, che ha trascurato le – successivamente evidenti – qualità politiche delle popolazioni africane. E’ curioso constatare, a titolo di esempio, che gli ibo della Nigeria, in concomitanza con una forte monarchia e con la strutturata fisionomia sociale e politica dei vicini yoruba, si siano costituiti in società segreta (istituzione tipicamente europea), mantenendo fino al diciannovesimo secolo una forte influenza sotto il profilo politico, economico-commerciale e culturale.
Fissando lo sguardo verso la realtà nigeriana, ci troviamo di fronte ad una moltitudine di etnicità che difficilmente potremmo esporre in poche righe. Ma un tentativo è necessario, almeno ai fini di una comprensione superficiale, la quale ci sarà senz’altro utile per indagare la situazione attuale, e meglio comprendere quello che già è stato esposto. I tre grandi gruppi etnici presenti in Nigeria sono, in ordine sparso, gli ibo, gli yoruba e gli hausa-fulani. Abbiamo appena parlato dei primi (detti anche igbo), presentandoli come un gruppo di una certa importanza, e infatti rappresentano una parte rilevante (il 17% della popolazione) della società nigeriana. Sono presenti soprattutto nel sud-est del paese, e alla fine degli anni sessanta si resero protagonisti del tentativo di secessione della piccola Repubblica del Biafra, avvenuto in seguito alla crisi provocata dal colpo di stato del 1966, che fu represso nel sangue e che diventò un dramma d’interesse planetario. Gli yoruba, invece, sono meno omogenei, essendo sparsi nell’Africa occidentale. Si possono trovare in Togo, Benin e Sierra Leone, ma la parte più cospicua popola da centinaia di anni il sud-ovest della Nigeria. Più della metà degli yoruba è di religione cattolica, mentre la restante parte è di religione islamica. Questa differenziazione è dovuta principalmente alle incursioni dei missionari cattolici tra il XIX e i primi decenni del XX secolo, e alle conquiste degli hausa-fulani (di religione mussulmana) del Califfato di Sokoto ai danni delle città-stato yoruba. Proprio gli hausa-fulani rappresentano il terzo grande gruppo etnico nigeriano. I loro insediamenti si trovano nel nord del paese, che è a maggioranza islamica grazie ad un lungo processo storico di avanzamento avvenuto tra il XVII e il XIX secolo, quando un’ondata di jihad attraversò l’Africa occidentale, dal Senegambia al nord della Nigeria, per l’appunto, radicando la cultura e la lingua araba specialmente tra le popolazioni nomadi, tra cui anche i fulani (gli hausa furono protagonisti dell’ibrido califfato di Sokoto, un misto tra monarchia hausa e Stato islamico). A completare il quadro etnico ci sono le minoranze del Delta Niger, ovvero Ijaw, Ilaje, Urhobo e Ogoni. Le quali rivendicano la propria autonomia (la maggior parte degli Ogoni in modo nonviolento, gli altri meno) e il rispetto dell’ecosistema del Delta, il cui equilibrio è messo a repentaglio dalle grosse perdite di petrolio degli stabilimenti presenti nell’area.
Alla luce di questo, si possono fare un paio di considerazioni. Per prima cosa, l’indissolubilità del legame tra l’aspetto politico e quello religioso si manifesta storicamente, e si impone nella società nigeriana, stabilendo ritmi e tempi della vita politica. Basti pensare a come il paese giunse all’indipendenza, avvenuta nel 1960, diviso in tre grandi regioni, corrispondenti approssimativamente all’habitat dei tre grandi gruppi etnico-linguistici (ibo a est, yoruba a ovest, hausa-fulani a nord), oppure a come il primo governo nigeriano fu costruito sulla base di un compromesso tra nord mussulmano e sud cristiano. (Al partito hausa-fulani toccò l’esecutivo, mentre il rappresentante del partito degli ibo, Nnamdu Azikiwe, ottenne la carica – poco più che onorifica – di presidente). L’aumento degli stati federati da tre a quattro già nel 1963, per poi arrivare ai 36 attuali, indica chiaramente l’intenzione (o forse la necessità) di conciliare il pluralismo politico e religioso con una pseudo-democrazia, in cui ogni regione era governata da un unico partito di matrice etnico-religiosa. La seconda considerazione riguarda l’importanza dello Stato di Plateau e della città di Jos. Fino al 2006, anno in cui una grave epidemia di influenza aviaria stroncò la maggioranza dei volatili, l’economia di quest’area si fondava sull’avicoltura e sulla relativa produzione di uova. La crisi che ne scaturì fu aspra, e investì la quasi totalità della popolazione. E’ ipotizzabile, dunque, che alla base degli scontri avvenuti nel 2001 e nel 2003, che lasciarono sul terreno migliaia di vittime, ci fossero ragioni, sì di carattere religioso e politico, ma anche di carattere economico. La caduta in disgrazia della – per quanto possa esserlo quella di un paese africano – florida economia locale riduce, almeno in parte, lo spazio d’analisi a quelle motivazioni più di natura religiosa e politica, e ci fa accantonare, sempre parzialmente, quelle più spiccatamente economiche. Appare quindi chiaro che una realtà nazionale spaccata in due (se non in tre) dal punto di vista religioso e politico non possa che manifestarsi anche nelle vicende di un importante stato centrale (qual è lo Stato di Plateau), che dovrebbe essere indagato come un riflesso dello status generale. La città di Jos non è la “casa della pace”, è piuttosto un campo di battaglia in cui si combattono e sono destinati a combattersi due schieramenti politico-religiosi: i beroms cristiani e gli hausa-fulani mussulmani.
* Roberto Sassi si occupa di Africa subsahariana per il sito di “Eurasia”
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