«A partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale – evidenzia Nino Galloni –, i Paesi promotori dei Trattati europei (che in seguito avrebbero portato all’euro, circa mezzo secolo dopo), compresa la stessa Germania, erano consapevoli di una “questione tedesca”: un Paese che tende ad espandersi – dalla sua posizione al centro dell’Europa – verso Est, ma anche verso Ovest e Sud. Tale tendenza espansionistica – che doveva risultare contenuta dalla esperienza dell’euro, ma anche placata dall’esito della riunificazione tedesca – presenta una profonda radice culturale connessa a un modello economico capitalistico del tutto diverso da quello British-American […]. Il modello renano, con i suoi bassi tassi di interesse, tende ad allargare la base produttiva, riducendo la centralità del profitto e preferendo una logica di controllo delle risorse reali (umane, tecnologiche) che provoca una maggiore espansione, anche territoriale, delle attività produttive» (1).

Se a questo modello produttivo che associa i lavoratori alla gestione (mitbestimmung) dell’impresa – permettendo ai lavoratori tedeschi di accettare i sacrifici degli anni ’90 in vista dei vantaggi che sarebbero ricaduti in futuro, a differenza di gran parte degli altri Paesi in cui i sindacati hanno dapprima opposto le barricate a qualsiasi proposta salvo poi rinunciare incondizionatamente a tutte le conquiste sociali ottenute a caro prezzo dai lavoratori dal dopoguerra in poi – si aggiunge un sistema politico, come il Cancellierato, che è in grado di assicurare la governabilità, risultano piuttosto evidenti le ragioni che stanno alla base del successo tedesco, nonché la strategia di ampio respiro attraverso cui la Germania si è spinta verso Oriente, giungendo ad avvicinarsi a nazioni come Cina, Russia ed India. Berlino ha visto con fastidio il dissolvimento effettivo dell’asse franco-tedesco, che per decenni aveva guidato l’Europa, dovuto al cambio di paradigma avviato dalla Francia sotto la presidenza di Nicola Sarkozy, culminato nel 2010 quando Parigi aprì all’Inghilterra allo scopo di originare un “superdirettorio NATO anglo-franco-americano” (2) che relegasse la Germania al ruolo di gigante economico privo di potenzialità politiche. Nonostante la Francia abbia dimostrato ampiamente di non disporre dei requisiti fondamentali per orientare politicamente l’Europa, la Germania non ha avuto la forza necessaria per dirigere il “vecchio continente”, privandolo della possibilità di trasformarsi in vero soggetto politico indipendente.

Per questa ragione, la Germania non ha esitato a tessere trame diplomatiche alternative. Dal 2006 al 2009, gli investimenti industriali tedeschi sono aumentati in Giappone, crescendo addirittura del 132% in Russia, mentre sono diminuiti del 33% in Gran Bretagna, del 17% in Italia e del 10% in Francia. La visita di Angela Merkel a Nuova Delhi del maggio 2011 ha inoltre coronato la collaborazione con l’India, soprattutto per quanto concerne il campo dell’alta tecnologia. L’interscambio tra Germania e Cina – ove gli investimenti manifatturieri tedeschi sono cresciuti del 51% dal 2006 al 2009 – nel 2011 ha toccato i 144 miliardi di dollari ed è destinato a raddoppiare nel giro di pochi anni. Queste cifre permetteranno ai tedeschi di porsi in cima alla classifica dei Paesi esportatori verso la Cina, surclassando gli Stati Uniti, e a Berlino di stringere ulteriormente il rapporto strategico con Pechino. Nell’aprile 2012, il primo ministro cinese Wen Jibao si è recato a Wolfsburg, dove ha siglato un accordo con le autorità tedesche che ha posto le condizione per l’installazione di una nuova fabbrica della Volkswagen nella turbolenta regione dello Xinjiang. Questa intensificazione dei rapporti con la Cina costituisce la parte integrante e maggioritaria di un processo che prevede il riposizionamento dell’economia tedesca in direzione dei mercati emergenti. Secondo un rapporto redatto dall’European Council on Foreign Relations, «La Germania è portata a considerare se stessa come una forza credibile in un mondo multipolare, il che alimenta a sua volta l’ambizione di divenire “globale” con le sue forze» (3).

Ciò spiega chiaramente la solidissima alleanza strategica instaurata con la Russia. Nel novembre 2011 è stato inaugurato il gasdotto Nord Stream, il cui costo complessiva ha lambito i 9 miliardi di euro. Si tratta di un condotto lungo oltre 1.200 km costruito allo scopo di trasportare circa 55 miliardi di m3 di gas all’anno dalla città russa di Vyborg fino ai terminali tedeschi di Greifswald-Lubmin, solcando i fondali del Baltico ed attraversando le acque territoriali di Russia, Finlandia, Svezia, Danimarca e Germania.

Figura 1 (1)

Per favorire la realizzazione di questo progetto, Vladimir Putin aveva affidato (sollevando un enorme polverone) all’ex Cancelliere tedesco Gerhard Schröder la presidenza della società North Stream AG (il cui azionariato è composto dalla russa Gazprom, dalle tedesche Wintershall Holding e E. ON Ruhrgas, dalla francese GDF Suez e dall’olandese Gasunie) incaricata di occuparsi della costruzione di questo gasdotto concepito con il preciso scopo di aggirare le turbolenze politiche che minano la stabilità di Polonia e Ucraina. Vista l’instabilità politica che ha portato alla “rivoluzione arancione” del 2004 e al suo fallimento, alla caduta del presidente Viktor Yanukovich e la parallela ascesa dei movimenti russofobi radicati nelle regioni occidentali del Paese, tale gasdotto ha assunto un accresciuto valore strategico che potrebbe risultare cruciale nell’ambito dello scontro geostrategico che vede la Russia contrapporsi in maniera sempre più aspra agli Stati Uniti proprio sul “caldissimo” terreno energetico. Grazie allo sviluppo di specifiche tecnologie estrattive d’avanguardia (fracking), la compagnia statunitense Chevron ha infatti avviato i lavori di esplorazione e sfruttamento in regioni geografiche appartenenti proprio all’Ucraina occidentale, ma anche alla Romania e alla Polonia. Sempre Chevron, di concerto con ExxonMobil, ha inoltre implementato le fasi preliminari allo sfruttamento dei giacimenti “shale” off-shore del Mar Baltico. Lo sviluppo di simili giacimenti, appoggiato apertamente dall’Unione Europea dietro il pungolo statunitense, minaccia la posizione semi-monopolistica di cui gode Gazprom, grazie alla quale Mosca è in grado di esercitare una forte pressione sui centri decisionali europei. Per di più, la diversificazione delle forniture produrrebbe un calo dei prezzi, ripercuotendosi sull’economia nazionale russa basata su prezzi energetici alti e stabili tali da garantire al Cremlino la possibilità di finanziare la spesa pubblica senza adottare gli “aggiustamenti strutturali” raccomandati dal Fondo Monetario Internazionale (FMI), istituzione che in seguito alla sostituzione ai vertici di Dominique Strauss-Kahn con Christine Lagarde è divenuta ancor più incline ad assecondare gli obiettivi strategici statunitensi (gli Stati Uniti ne detengono le quote maggiori, sette volte superiori a quelle della Russia). «L’amministrazione Obama – osserva Manlio Dinucci – persegue una “strategia aggressiva” che mira a ridurre le forniture russe di gas all’Europa, i cui maggiori importatori sono la Germania e l’Ucraina (l’Italia è al quinto posto). Il piano prevede che la ExxonMobil e altre compagnie statunitensi forniscano crescenti quantità di gas all’Europa, sfruttando i giacimenti mediorientali, africani e altri, compresi quelli statunitensi la cui produzione è aumentata. Già le grandi compagnie hanno presentato al Dipartimento dell’Energia 21 richieste di costruzione di impianti portuali per l’esportazione di gas liquefatto. Il piano prevede anche una forte pressione sulla Gazprom, la maggiore compagnia russa di cui lo stato ha riassunto il pacchetto di maggioranza, ma che è aperta agli investimenti stranieri: è quotata alle borse di Londra, Berlino e Parigi e, secondo la JP Morgan, oltre la metà dei suoi azionisti esteri è costituita da statunitensi» (4).

Ad ogni modo, oltre alla realizzazione del gasdotto Nord Stream e alle 6.000 imprese tedesche operanti in territorio russo (+132% dal 2006 al 2009), va evidenziato l’allestimento di una moderna linea ferroviaria capace di trasportare 400.000 tonnellate di merci dalla Cina alla Germania, grazie a un accordo raggiunto tra le ferrovie tedesche (Deutsche Bahn) e quelle russe (Rossiyskie Zheleznye Dorogi). Si tratta di un successo fondamentale, capace di garantire cruciali prospettive strategiche. Il fine ultimo dell’accordo è rappresentato dalla nascita dalla società mista Eurasia Rail Logistics, attraverso cui le ferrovie tedesche sono state chiamate ad occuparsi dell’ammodernamento delle linee russe, fornendo servizi tecnici sussidiati ad aziende come la Siemens (azienda che rappresenta il principale cavallo di battaglia della politica estera-economica tedesca) allo scopo di sostituire migliaia di km di binari vecchi ed obsoleti con nuovi percorsi ad alta velocità.

Ciò ha riguardato principalmente la Transiberiana, la cui costruzione, avviata nel 1890 ed ultimata 1916, è dovuta alla volontà del grande primo ministro russo Segej Witte, che intendeva capitalizzare l’arduo obiettivo di agevolare l’interconnessione totale dello sterminato spazio territoriale coperto dall’impero russo, nonché favorire lo sviluppo economico delle più inospitali località siberiane. Allacciando il porto russo di Vladivostok a Mosca (e successivamente a Rotterdam), la Transiberiana, con oltre 12.000 km di tragitto, è la più lunga linea ferroviaria al mondo. I problemi di manutenzione e la ridotta velocità massima avevano limitato le potenzialità di questo colossale corridoio eurasiatico, ma l’intervento della Deutsche Bahn ha rovesciato la situazione, restituendogli prestigio e funzionalità. L’ammodernamento delle strutture della Transiberiana da parte delle ferrovie tedesche ha inoltre funto da volano per la messa a punto di nuove, importantissime vie di comunicazione. La più rilevante di esse è rappresentata dal servizio di trasporto ferroviario merci Pechino-Amburgo Container Express, che nel gennaio 2008 è giunto a destinazione nell’arco di appena 15 giorni (il trasporto via mare richiede il doppio del tempo come minimo), dopo aver percorso oltre 10.000 km transitando per Mongolia, Russia, Bielorussia e Polonia. Tale percorso (transitante anche per una sezione della Transiberiana), di cui è stato inaugurato il servizio commerciale nel 2010, rappresenta un migliore collegamento ferroviario, in grado di offrire uno scartamento più ampio di quello dei treni cinesi o europei al confine tra Cina e Mongolia e lungo le frontiere che separano la Bielorussia dalla Polonia.

Figura 2 (1)

In tal modo, la Russia è riuscita ad ammodernare le proprie vie di comunicazione strategiche, ad apprendere dai tedeschi come costruire ferrovie ad alta velocità con traffico gestito da computer e di rivendere la tecnologia tedesca ai Paesi asiatici, come Iran ed India. La Germania ha invece ottenuto l’accesso diretto, attraverso l’immenso territorio russo, alla Cina. La Deutsche Bahn, attraverso questa portentosa espansione ad est, si è posta nelle condizioni di diffondere all’intera Eurasia gli standard stabiliti dall’Unione Europea contenuti nel Trans-European Transport Network (TEN), il progetto volto a favorire i traffici europei verso l’Estremo Oriente ed agevolare, sulla rotta di ritorno, il trasporto di materie prime alle industrie europee. Il TEN – che prevede stanziamenti per 400 miliardi di euro – non contempla solo la costruzione di ferrovie, ma intende agevolare la realizzazione di strade e altri “corridoi transcontinentali”.

Figura 3

La nazione tedesca persegue obiettivi di questo genere fin dalla fine del XIX Secolo, quando gli strateghi berlinesi e viennesi misero a punto il progetto relativo alla costruzione della BaghdadBahn, la grandiosa linea ferroviaria Berlino-Costantinopoli-Bagdad concepita allo scopo di facilitare la penetrazione economica e politica tedesca in Asia Minore, cuore dell’Impero Ottomano. La progettazione di questa arteria ferroviaria, che la Deutsche Bank si sarebbe sobbarcata l’onere di finanziare, esercitò una forte influenza sui precari equilibri geopolitici dell’epoca, innescando una reazione a catena di eventi che portò allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, conclusasi con la sconfitta dell’Impero Tedesco e il fallimento di quell’ambiziosissimo piano. Stringendo i propri legami con l’Oriente, la Germania si è quindi adoperata per ritagliare il proprio lebensraum (“spazio vitale”), concetto elaborato dal geopolitico Karl Ernst Haushofer prima che se ne impossessassero indebitamente i nazisti – ripristinando il drang nach osten (“spinta verso est”) attraverso questa serie di corridoi strategici che solcano la rotta ovest-est. È sufficiente un’occhiata alla mappa geografica per constatare che la “spinta verso est” rappresenta la naturale inclinazione tedesca. Essa è capace di far ricadere enormi benefici, sia politici che economici, su tutti gli Stati coinvolti poiché accelera l’ineluttabile integrazione fra la Russia ricca di materie prime e la Germania, che dispone di un poderoso comparto industriale e di un invidiabile know-how tecnologico. Questi aspetti particolari che caratterizzano Russia e Germania potrebbero portare all’apertura di un canale strategico privilegiato qualora dovesse verificarsi la temuta implosione dell’euro che, costringendo la Germania a ripristinare un marco “pesante” – a fine 2011, un studio condotto da diversi economisti della UBS aveva stimato che la Germania godrebbe, viste e considerate le condizioni economiche tedesche, di una sottovalutazione dell’euro pari al 40% – renderebbe assai arduo, per la Germania, il compito di esportare le merci nel resto dell’Europa e degli Stati Uniti (come osservato in precedenza). Oltre all’apertura definitiva di un enorme mercato di sbocco e alla penetrazione nei consigli di amministrazione delle grandi imprese minerarie russe, Berlino instaurerebbe in tal modo un rapporto privilegiato con Mosca tale da consentire alla Germania di rifornirsi di grandi quantità di materie prime (petrolio, gas, oro, ecc.) a bassissimo costo. Henry Kissinger, ben consapevole dei rischi connessi a questo genere di integrazione, affermò che «Se entrambe le potenze [Germania e Russia] si integrassero economicamente intrecciando rapporti più stretti, sorgerebbe il pericolo della loro egemonia» (5).

Un’egemonia capace di agevolare il processo di intensificazione delle connessioni trans-continentali a tal punto da provocare un vero e proprio boom per l’economia eurasiatica. Per questa ragione, gli Stati Uniti non hanno potuto esimersi dall’ostacolare questo riavvicinamento, adottando una strategia fondata sulle direttive di Zbigniew Brzezinski, secondo il quale «I tre grandi imperativi della geostrategia imperiale sono impedire la collusione, mantenere la dipendenza della sicurezza tra i vassalli, mantenere i tributari docili e protetti, e impedire ai barbari di coalizzarsi» (6). Proprio per impedire definitivamente la nascita di questo formidabile blocco economico integrato, che assicurerebbe l’egemonia russo-tedesca sull’intera Eurasia, gli Stati Uniti – approfittando della debolezza della Russia – sferrarono l’attacco alla Serbia di Slobodan Milosevic. E non è assolutamente un caso che nel 1999 i primi bersagli distrutti dai bombardieri NATO siano stati i ponti sul Danubio e sulla Sava, colpiti al fine di sbarrare la strada al traffico fluviale tedesco che, attraverso l’arteria danubiana, raggiungeva l’est europeo, l’Asia centrale e il Medio Oriente, come non è un caso che a Versailles, una volta terminata la Prima Guerra Mondiale, la Gran Bretagna e la Francia concordarono la frammentazione dell’area danubiana in piccoli Stati, la marginalizzazione della Serbia e l’allargamento della Romania (sotto influenza francese) allo scopo di porre sotto controllo il delta del grande fiume europeo. Intensificando la propria “spinta verso est”, la Germania ha dimostrato di aver riconsiderato il proprio posizionamento strategico, avvicinandosi ai nuovi fulcri economici del pianeta – Russia, Cina ed India – che hanno progressivamente trasferito l’asse della crescita mondiale dall’Atlantico all’Oceano Indiano e al Pacifico. Il che conferisce notevole credibilità al più pericoloso scenario raffigurato da Halford Mackinder, ovvero una convergenza cooperativa tra i maggiori stati eurasiatici fondata sul reciproco interesse e dettata dalla necessità di materie prime per la crescita economica.

Paradossalmente, è proprio l’aggressiva linea politica predatoria propugnata dagli Stati Uniti attraverso lo scatenamento della cosiddetta “guerra infinita” (Iraq, Jugoslavia, Afghanistan, Iraq II, Libia, minacce a Siria ed Iran) il principale catalizzatore di una rinnovata collaborazione tra Germania e Russia, che si è progressivamente estesa, e inducendo anche l’ondivaga Europa occidentale a prendere, seppur molto timidamente, coscienza del fatto che le opzioni a disposizione stanno cominciando a restringersi. Il fatto che gli Stati Uniti intendano fornire un ombrello strategico a operazioni di controllo geopolitico regionale da affidare ai propri alleati europei, presuppone naturalmente la fedeltà di questi alleati al vincolo atlantista. La Germania, che aderisce alla NATO ma costituisce allo stesso tempo la punta di lancia dell’Europa, propugna una linea fortemente anti-inflazionistica spingendo per il ripristino di un sistema monetario internazionale ancorato all’oro e ha monopolizzato la politica estera continentale assecondando il suddetto drang nach osten verso Mosca in chiave energetica e verso Pechino in chiave commerciale (e non solo, visto che di fronte all’esplodere di un’ipotetica, ulteriore crisi la Germania potrebbe trainare gli europei in una marcia congiunta con la Cina), ha quindi spinto gli strateghi di Washington, consapevoli che la supremazia USA è strettamente legata alla subordinazione europea, ad alzare il livello d’allerta. Per questa ragione la Germania rappresenta il principale punto critico del precario equilibrio internazionale vigente, in virtù dell’ambivalenza risultante dalle sue naturali oscillazioni geostrategiche e dalla sua predilezioni monetaristiche (favorevoli al ripristino di una forma rivisitata e corretta del vecchio Gold Standard) da un lato e dalla sua mancanza di indipendenza reale che la costringe a permanere all’interno dello schieramento occidentale imposto dagli USA (in cui i tedeschi hanno ritagliato il proprio esclusivo “recinto”, rappresentato dal resto della zona-euro), dall’altro. «La politica estera tedesca – scrive William Engdahl – esita tra i legami intrecciati con il vecchio occupante statunitense del XX Secolo da una parte e, dall’altra, i suoi interessi economici comuni con il suo partner storico, la Russia. Gerhard Schröder incarna questo dilemma. Vecchio cancelliere atlantista, è oggi padrone di un consorzio russo. Sul piano geopolitico, questa contraddizione si concentra a Lubmin (vicino a Rostock), terminale del gasdotto russo-tedesco.

Nella storia della Repubblica Federale Tedesca del dopoguerra, i cancellieri tendono a sparire quando si legano ad obiettivi politici che si discostano troppo dall’ordine del giorno, su scala mondiale, di Washington. Gerhard Schröder, dal canto suo, ha commesso due “peccati” imperdonabili. Il primo è stato la sua aperta opposizione all’invasione anglo-britannica dell’Iraq nel 2003. Il secondo, strategicamente ben più grave, il suo negoziato con la Russia di Putin teso a portare in Germania il gas naturale russo» (7).
L’avvicinamento verso poli geopolitici avversari degli Stati Uniti (verso la Cina ha cominciato ad aprire anche la disastrata Grecia) e la pericolosa inclinazione monetaristica assunta da Berlino (che non entra direttamente e apertamente in conflitto con gli USA, ma che nel lungo periodo è destinata a comportarne il crollo) sono quindi entrati in rotta di collisione con la linea politica tedesca favorevole al campo occidentale tenuta sia rispetto alla vicenda centrafricana (in cui Berlino ha inviato le proprie truppe a supporto di quelle francesi) sia, soprattutto, nei confronti della crisi ucraina (8), facendo emergere la disomogenea e incostante strategia teutonica. Proprio riguardo alla crisi ucraina, Manlio Dinucci nota che: «La strategia di Washington persegue dunque un duplice obiettivo: da un lato, mettere l’Ucraina nella mani del FMI, dominato dagli USA, e annetterla alla NATO sotto leadership statunitense; dall’altro, sfruttare la crisi ucraina, che Washington ha contribuito a provocare, per rafforzare l’influenza statunitense sugli alleati europei. A tale scopo Washington si sta accordando con Berlino per una spartizione di aree di influenza» (9). E non è certo un segreto che la pressione esercitata dalla Germania affinché Kiev si associasse all’Unione Europea (che, in barba alla profonda crisi che devasta buona parte della zona-euro, ha promesso ben 11 miliardi di euro di aiuti al nuovo esecutivo ucraino) sia essenzialmente dovuta all’esigenza di permettere alle merci tedesche di penetrare nel mercato e ucraino, e ai capitali tedeschi di orientarsi verso i distretti industriali nazionali. Gli investimenti esteri provenienti dalla Germania compenserebbero l’obsolescenza delle strutture industriali ucraine e assicurerebbero a Berlino l’accesso costante a una manodopera qualificata scarsamente retribuita, inglobando di fatto l’Ucraina nel blocco economico integrato, che rifornisce la potenza economica tedesca della componentistica dallo scarso valore aggiunto, inclusivo di tutte le aree industriali circostanti dotate di bassi salari e cambi depressi (Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria) che la Germania ha costruito nel cuore dell’Europa in seguito al crollo dell’Unione Sovietica e grazie al quale Berlino ha di fatto recuperato l’influenza sull’Europa centrale e orientale a livelli risalenti al 1914.

Osteggiando la “spinta verso Est” imperniata sull’alleanza russo-tedesca (che ha portato alla costruzione del Nord Stream e alla intensificazione dei rapporti bilaterali) ed appoggiando invece l’allargamento della sfera di influenza tedesca in chiave anti-russa, già manifestatosi con l’appoggio tedesco alle rivendicazioni secessioniste croate durante la crisi jugoslava di inizio anni ’90, gli USA mirano a ricreare lo scenario geostrategico concretizzatosi negli anni ’40 con la contrapposizione tra Germania e Unione Sovietica, nel tentativo di evitare la costituzione (divide et impera) di una solida e incontrastata formazione indipendente a guida tedesca suscettibile di imporsi alla testa del “vecchio continente” e consolidare i rapporti con Russia e Cina. Ciò spiega le ravvivate attenzioni statunitensi per l’Italia e l’ostracismo anti-tedesco condotto dalla Gran Bretagna, che da più di un secolo si prodiga per costituire contrappesi sufficienti a compromettere la concretizzazione del cosiddetto “sogno bismarckiano”, il quale prevede l’instaurazione di un’asse “sovranista” franco-tedesco che vegli sull’Europa. L’appoggio statunitense all’Italia e alla Gran Bretagna in chiave anti-tedesca e il sostegno alle mire egemoniche di Berlino sull’Ucraina si inquadrano quindi nella strategia attraverso cui Washington mira a mantenere la Germania in un’Europa che innanzitutto salvaguardi l’alleanza occidentale, e che successivamente si trasformi in un solido argine di contenimento all’ascesa russa (secondo i progetti USA, il Giappone dovrebbe svolgere la medesima funzione, ma in chiave anti-cinese). Assecondando la megalomania (con le operazioni militari in Libia, Costa D’Avorio, Mali) degli inquilini che si sono succeduti all’Eliseo, gli Stati Uniti sono inoltre riusciti a cooptare anche la Francia, che rappresenta una pedina fondamentale per quanto riguarda il controbilanciamento della potenza tedesca in ambito europeo. Il crescente ricorso agli alleati da parte di Washington, lungi dal rappresentare un omaggio al multilateralismo, testimonia invece in maniera alquanto chiara le crescenti difficoltà che la potenza centrale dominante sta incontrando nel realizzare l’obiettivo cruciale di «Tenere sotto controllo l’ascesa di altre potenze regionali (predominanti e antagoniste) – sostiene Brzezinski – in modo che non minaccino la supremazia mondiale degli Stati Uniti» (11).

Dal momento che la Germania rappresenta indubbiamente la più potente e controversa di tali potenze regionali, ne consegue che il futuro dell’Europa e dello stesso schieramento occidentale dipende soprattutto dalle decisioni che Berlino assumerà negli anni a venire.

Note

1) Nino Galloni, Chi ha tradito l’economia italiana? Euro, salvarsi senza svendersi, Editori Riuniti, Roma 2012.

2) Aldo Giannuli, Uscire dalla crisi è possibile, Ponte alle Grazie, Milano 2012.

3) “Corriere della Sera”, 24 aprile 2012.

4) “Il Manifesto”, 11 marzo 2014.

5) “Welt am Sontag”, 1 marzo 1992.

6) Zbigniew Brzezinski, La grande scacchiera. Il mondo e la politica nell’era della supremazia americana, Longanesi, Milano 1998.

7) William Engdahl, The geopolitical important of Lubmin, “Réseau Voltaire”, 10 luglio 2010.

8) Anche in questo caso, l’ambiguità della Germania è stata alquanto evidente. Da un lato, la Cancelleria ha disertato la cerimonia di apertura delle Olimpiadi invernali di Sochi, partecipato al coro occidentale di rimostranze nei confronti della Russia riguardo ai cosiddetti “diritti gay” e apertamente sposato la causa degli oppositori (erroneamente qualificati come eurofili, in quanto la loro eurofilia non è altro che un riflesso della russofobia cattolica radicata nelle regioni occidentali del Paese) in perfetta intesa con gli USA, mentre il ministro degli Esteri Walter Frank Steinmeier e il suo braccio destro Gernot Erler, entrambi socialdemocratici, hanno espresso critiche sull’avventatezza nel voler inglobare l’Ucraina nell’Unione Eurpea senza consultare preliminarmente la Russia, nonché lanciato forti esortazioni nel tenere in maggior considerazione la portata delle possibili reazioni del Cremlino, poi puntualmente manifestatesi con l’intervento russo in Crimea.

9) “Il Manifesto”, 11 marzo 2014.

10) Come ha osservato Antonio De Martini: «Quando lo Stato Maggiore tedesco diede il via all’“Operazione Barbarossa” nel primo giorno d’estate del 1941, per  quasi trenta giorni avanzò distruggendo in media due divisioni di fanteria e una brigata corazzata al giorno, si aprì la via di Mosca e quella del Caucaso: aveva conquistato l’Ucraina. Mosca dista 460 km dal confine ucraino, territorio della pianura sarmatica, priva di ostacoli naturali cui  poter appoggiare una difesa efficace. L’occupazione dell’ Ucraina da parte di una potenza straniera come la NATO o gli USA, lascerebbe il fianco scoperto ai difensori del  bastione montagnoso  caucasico che è il solo ostacolo naturale di cui disponga la Russia per difendere i suoi campi petroliferi e i giacimenti Kazaki. Un assalitore che si impossessi dell’Ucraina  ed avesse la superiorità aerea, avrebbe alla sua mercé l’impero russo, potendo accerchiare l’esercito del sud,  minacciando direttamente la capitale e interrompendo le comunicazioni con San Pietroburgo e l’esercito del Nord. Questi a un dipresso sono stati i ragionamenti utilizzati dagli americani per spingere i tedeschi – eternamente innamorati dei loro errori strategici –  a molestare la Russia incoraggiando gli ucraini a dimostrazioni progressivamente violente» (Ucraina: la crisi come conseguenza di strategie superate e due pregiudizi obsoleti. La Germania fa correre un rischio di guerra all’Unione Europea, “Corriere della Collera”, 28 gennaio 2014).

11) Zbigniew Brzezinski, La grande scacchiera. Il mondo e la politica nell’era della supremazia americana, Longanesi, Milano 1998.


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