Vi sono molti modi per accostarsi alla crisi in corso in Siria.
Il primo è ripetere ciò che vanno raccontando i media, a partire dall’emittente dell’emiro del Qatar, Al-Jazeera, già ampiamente compromessa con le frottole diffuse ad arte sulla crisi libica per fomentare lo scontro settario e preparare il terreno ad un’invasione militare della Jamahiria. È quanto vanno facendo i principali organi di informazione nazionale che sembra passino qualsiasi presunta notizia battuta dalle agenzie, senza preoccuparsi minimamente di controllarne l’attendibilità.
Per giorni siamo stati tenuti con il fiato sospeso per la sorte di Amina, la giovane blogger siriana lesbica e attivista dei diritti umani. I giornali italiani hanno dato ampio risalto alla sua storia. Amina è stata prelevata dai servizi di sicurezza siriani e di lei, non giungono più notizie¹. A dare l’allarme è la cugina, sul suo stesso blog. L’allarme è poi ripreso dalla fidanzata di Amina, una ragazza di Montreal. Qualche giorno dopo aver martellato il pubblico italiano con questa storia cominciano a serpeggiare i primi, incontenibili, dubbi sulla vicenda. Una donna croata residente a Londra si riconosce infatti nelle foto di Amina su Facebook che sono state riprese e diffuse dai media. Ma la mobilitazione per il suo rilascio continua². In effetti la sua stessa fidanzata non l’ha mai vista di persona, la conosce solo tramite la rete. La vicenda si tinge di giallo. Infine emerge la realtà: Amina non esiste, è un personaggio inventato. Come la sua storia del resto. In realtà, come è ormai ampiamente noto, l’autore del blog “A Gay Girl in Damascus” è un americano di nome Tom McMaster (?), e scrive comodamente da casa sua.
La bufala di Amina, bisogna ammetterlo, è piuttosto clamorosa. Ma è solo la punta dell’iceberg della disinformazione diffusa dai media per demonizzare la Siria.
Siamo in effetti sicuri di trovarci davanti solamente a presunte manifestazioni pacifiche represse nel sangue dal governo siriano, così come ci viene raccontato? Esse ricordano troppo da vicino la montante e totalmente artefatta campagna anti-libica cui abbiamo assistito per mesi ed è quindi legittimo nutrire seri dubbi. Serissimi dubbi è poi lecito nutrire circa le fonti primarie delle informazioni cui i media attingono o sulle cifre di morti e feriti che diffondono.
Ciò non significa che in Siria non stia succedendo niente. Si può in effetti sostenere che il paese arabo attraversa la crisi più grave della sua storia recente, più grave ancora dell’insurrezione islamista di Hama del 1982, se non altro perché quella rivolta fu localmente più circoscritta.
Ma vi è un altro modo di guardare alla crisi siriana. Consiste nel tentare, con i pochi e frammentari elementi di cui siamo in sicuro possesso, un analisi storica della Siria e del suo ruolo geopolitico nella regione, della portata di una sua destabilizzazione o di un suo regime-change. L’accanimento mediatico in corso contro il governo siriano lascia infatti presupporre che gli Usa ritengano giunto il momento di chiudere i conti con un loro storico antagonista.
Il braccio di ferro con gli Usa
La Siria ha sempre rappresentato la cittadella contro le cui mura si sono infranti i progetti egemonici degli Usa sul Medio oriente³. Dagli anni Cinquanta i vari governi patriottici che si sono succeduti hanno sempre condotto una politica estera antimperialista ed i tentativi americani di fagocitare Damasco nella loro orbita si sono tradotti nel loro contrario: nell’avvento al potere del Baath alla guida di un Fronte nazionale progressista nel quale figura anche il Partito comunista siriano e nella scelta antimperialista (e fino a che è stato possibile filo-sovietica) in campo internazionale.
Con la guerra dei Sei Giorni Israele cercò di rovesciare il regime militare baathista nato dalla rivoluzione del 1963 per spezzare il fronte arabo. Ma nonostante la secca sconfitta patita con l’occupazione del Golan la Siria restò in piedi. E con il “movimento correttivo” che seguì la presa del potere da parte del presidente Hafez al-Assad il paese si preparò alla rivincita del 1973, con la guerra del Kippur scatenata d‘intesa con l’Egitto di Sadat. Ma l’epilogo del Kippur fu la pace separata tra l’Egitto e Israele. Sostanzialmente si tradusse nell’isolamento della Siria nella regione. Fu in questo contesto che esplose la guerra civile libanese e il pesante coinvolgimento israeliano in essa. L’imposizione di una pax israeliana al Libano avrebbe significato una sconfitta totale per la Siria, che sarebbe stata costretta a capitolare. Così Damasco entrò pesantemente in gioco nella crisi libanese ed Assad iniziò una complessa partita a scacchi con Israele e gli Stati Uniti (ma anche con la miriade di milizie e fazioni in cui si era frammentato il paese dei cedri).
Fu proprio in una delle fasi più delicate della partita libanese, nel 1982, quando Israele lanciò le sue forze corazzate oltre il fiume Litani in direzione di Beirut, che scoppiò la rivolta degli integralisti islamici ad Hama. Anche allora una rivolta estremamente violenta. Anche allora fomentata dall’esterno. Il pericolo per il governo siriano fu grande ed Assad reagì con la massima fermezza facendo circondare la città dall’esercito. Il bilancio della repressione fu pesantissimo ma lasciò il regime in piedi e la Siria in grado di difendersi. Alla fine (1991) la Siria vinse il confronto in Libano. Tutti i tentativi successivi di estrometterla dal Libano per farla capitolare attuati dal 2005 in poi sono sostanzialmente falliti. Se, a seguito dell’affaire Hariri, l’esercito siriano si è dovuto ritirare entro i suoi confini, i tentativi di utilizzare il Libano per assediare la Siria tramite l’aggressione esterna (guerra di Israele dell’estate 2006) o tramite la destabilizzazione interna (insurrezione degli islamisti a Nahr el-Bared prima e scontri da guerra civile dopo) non hanno prodotto alcun risultato. Anzi, le posizioni delle forze filo-occidentali a Beirut sono crollate, tanto che ora il miliardario di origine saudita Saad Hariri, già fiduciario di Washington, non è più alla guida del paese e che il governo è composto unicamente dai partiti dello schieramento patriottico vicino a Hezbollah. Ed Hezbollah (come Hamas del resto) è notoriamente una forza politica sostenuta dall’alleanza tra Damasco e Teheran.
Le cose stavano dunque andando bene per Damasco. L’alleanza con l’Iran, il cauto ritorno dei vecchi partner russi sulla scena della politica mediorientale, la crescente autonomia manifestata dalla Turchia in ambito internazionale e di fronte al dossier palestinese, la vittoria politica dei propri alleati in Libano erano tutti elementi che premiavano la fermezza mostrata dalla Siria nel difficile dopo-guerra fredda. A questi dati si potevano sommare le eventuali evoluzioni della situazione in Egitto, paese perno della regione, dove una rivolta popolare aveva costretto Mubarak alle dimissioni e dove si apriva una partita tutta da giocare per valutare il futuro allineamento egiziano. Nonostante per il momento le aspettative di una rivoluzione paiano completamente frustrate ed il futuro si presenti fosco, tuttavia Il Cairo ha ristabilito le relazioni diplomatiche con l’Iran.
Come una bomba
Poi è scoppiata la crisi che abbiamo sotto gli occhi.
Il collasso della Siria rappresenterebbe per gli Usa e per Israele la sconfitta dell’ultimo paese arabo che può giocare un ruolo strategico nel frenarne le ambizioni nel Vicino Oriente. A quel punto l’Iran sarebbe completamente tagliato fuori dalla regione e circondato da paesi ostili.
Visto il quadro è obbligatorio chiedersi se sia un caso lo scoppio (con ben determinate modalità) di questa crisi siriana proprio ora. Cioè dopo il fallimento della strategia del salto della pulce, che consisteva nel conquistare il Libano per piegare la resistenza della Siria e nel piegare la Siria per strozzare l’Iran, e dopo le rivolte arabe che hanno fatto tremare la satellizzazione filo-statunitense di un paese dell’importanza dell’Egitto.
Quali sono le modalità con cui si è manifestata la crisi in corso in Siria?
“E’ possibile spiegare quanto sta accadendo in Siria considerandolo alla stregua di un esempio di rivoluzione popolare araba allo stato puro, come un’insurrezione caratterizzata da una protesta non violenta e liberale contro la tirannia che ha finito per imbattersi in una pura e semplice operazione repressiva? A mio parere si tratta di un’ottica completamente errata e deliberatamente messa in piedi per servire ambizioni di tutt’altro genere”⁴. E’ il parere dell’ex consigliere di Xavier Solana (non certo un invasato antimperialista dunque), Alistair Crooke.
Più tranciante è il giudizio di padre Razouk Hannoush, diocesano cristiano: “I disordini sono opera di gruppi armati, e non sono manifestazioni pacifiche. Se fossero pacifiche avrebbero utilizzato altri mezzi, senza destabilizzare il paese con la distruzione e la violenza. Siamo schierati con Assad e con il governo siriano perché non ci ha fatto mai un torto. Sono certo che la Siria supererà questa crisi, e si rialzerà contro la volontà di tutti quelli che le vogliono male”⁵.
E un prete salesiano racconta: “Quello che sta accadendo ora non sono manifestazioni pacifiche: la maggior parte sono gruppi armati con pistole e mitragliatrici che compiono atti terroristici. Due giorni fa, mentre tornavamo da un villaggio vicino Hama, siamo stati fermati da alcuni giovani armati (15/25 anni), che ci hanno controllato le carte d’identità e ci hanno perquisito, ed essendo cristiani ci hanno lasciati, dopo aver costretto uno dei nostri amici a bestemmiare contro il Presidente. Di quale rivoluzione e democrazia parliamo? Sono ancora scosso da questo incidente, soprattutto pensando che se fossimo stati alawiti saremmo stati di certo uccisi. Sì, ci sono un sacco di ribelli armati nelle città in Siria, distruggono, seminano terrore e uccidono i civili. Quale paese che si trova di fronte ad una rivolta armata resta immobile? L’esercito interviene per fermare queste bande armate e per riportare la sicurezza e la stabilità al paese”⁶.
Di fatto anche in Siria, come prima in Libia, non siamo di fronte a pacifiche dimostrazioni di un popolo inerme stanco di una dittatura quanto a una rivolta armata nella quale sono ben riconoscibili gruppi estremisti islamici filiazione della Fratellanza musulmana foraggiati dalle retrograde petro-monarchie assolute del Golfo. In questa partita gioca un ruolo di primo piano presumibilmente l’Arabia Saudita, supporto degli Usa nella regione dall’incontro del Quincy e da sempre baluardo della reazione nel mondo arabo, ricettacolo delle bande legate al network del terrorismo di matrice islamico-wahhabita da noi note con il nome riassuntivo e un po’ impreciso di al-Qaida.
Indubbiamente vi sono delle tensioni endogene nella società siriana che, in relazione alla presente crisi economica mondiale, si sono acuite. Né si vogliono qui negare i lati oscuri del regime siriano. Ma non è questo il punto. Il punto è che non pare minimamente attendibile la favola edificante presentata dai media. La forza pervasiva di questa tesi consiste nell’essere ossessivamente ripresa e data in pasto ad una opinione pubblica disinformata e disorientata.
Nel racconto della situazione siriana che viene offerto sono opportunamente passati sotto silenzio gli elementi che poterebbero indurre una riflessione critica al riguardo della tesi ufficiale e dei secondi fini dei suoi alfieri.
La Siria…e il suo contrario
La Siria ha una solida coscienza nazionale. La Repubblica gode di un certo prestigio. Il punto debole del paese potrebbe essere rappresentato dalla molteplicità delle confessioni religiose che finora hanno sempre convissuto benissimo. La gran parte del popolo siriano è di fatto dalla parte del governo e del suo presidente. Forse perché è cosciente della diversità della Siria rispetto agli altri paesi della regione, dal punto di vista economico e sociale (nonostante tutto) e dal punto di vista della garanzie offerte dalla laicità del regime. Forse perché è orgogliosa dell’indipendenza del paese sul piano internazionale e di fronte a Israele e all’Occidente. Forse anche perché è timorosa del salto nel vuoto. Anche in questo caso l’alternativa all’attuale regime sarebbe costituita da una guerra settaria tra confessioni e gruppi (essendo la Siria un paese pluri-confessionale) che porterebbe ad una disintegrazione dello stato sul modello irakeno. E i siriani, che ospitano una numerosa comunità di esuli irakeni, sanno bene quale inferno esista oltre il confine dell’Iraq occupato. Comprensibile che non vogliano fare la stessa fine. Ecco il semplice motivo delle oceaniche manifestazioni che si sono tenute in questi mesi in sostegno di Bashar al-Assad. Ma ai media occidentali è bastato non dare alcuno spazio a questa notizia. Come del resto non ha trovato alcun eco la notizia che alcuni giornalisti ed editorialisti delle catene mediatiche arabe in primo piano nell’opera di disinformazione sulla crisi siriana abbiano dato le dimissioni in segno di protesta per la manipolazione della verità attuata.
In Siria è in corso un’opera di destabilizzazione che mira scientemente a precipitare il paese nel caos. Le iniziative di gruppi, bande e veri e propri commandos che seminano il terrore nei paesi e in alcuni quartieri di città Hama e Latakia e che si sono già macchiati di orribili delitti e nefandezze a spese della popolazione e delle forze di sicurezza (che hanno contato dall’inizio di questa serpeggiante rivolta numerose perdite) smentisce in modo eloquente le favole raccontateci da tv e giornali. E’ noto che gli islamisti radicali cerchino la loro rivincita ed è assai probabile che ricevano supporto dall’esterno sfruttando i porosi confini del paese arabo. Di fatto, stando a testimoni e a numerose testimonianze disponibili in rete, girano armati di mitragliatrici pesanti e dispongono di esplosivi. Non è esattamente il corredo di dimostranti pacifici. Ma per certi lacchè dell’imperialismo anche i peggiori tagliagole possono essere venduti così all’opinione pubblica. Come i “pacifici pastori” di cui sproloquiava Bettizza nei suoi servizi sull’Afghanistan negli anni ’80: erano i mujaheddin di Bin Laden!
Il ruolo degli islamisti influenzati dall’Arabia saudita è ormai abbastanza scoperto. E le relazioni diplomatiche tra la Siria ed il Qatar sono arrivate sulla soglia della rottura. Secondo il giornalista francese Thierry Meyssan della partita sarebbe anche un’organizzazione attiva in Asia centrale con base a Londra che è stata accusata di avere organizzato attentati nella valle di Ferghana (Hizb ut-Tahrir). Ma nonostante le questioni poste anche in sede di Camera dei Comuni non è mai stata aperta nessuna inchiesta sul gruppo, molti dei cui membri lavorano per multinazionali anglo-americane⁷.
La paura della comunità cristiana siriana di essere annientata ha fatto filtrare la notizia della presenza massiccia di gruppi integralisti. Del resto era difficile nascondere i sanguinari appelli dell’ulema saudita Saleh El-Haidan che ha invitato ad uccidere un terzo dei siriani affinché i due terzi possano vivere⁸. La scomessa sullo scontro settario è il vero scenario su cui si gioca la crisi siriana. Lo sforzo di delegittimare il Presidente Assad perché appartenente alla minoranza alawita e perché in politica estera avrebbe favorito l’ascesa degli sciiti nella regione (dall’Iran ad Hezbollah) è di per sé eloquente. Un messaggio che traccia la linea sottile della divisione tra le confessioni religiose in cui si articola la nazione e soffia sul fuoco dell’odio additando a male assoluto un improbabile nemico interno. Quanto possa essere efficace e dolorosa una strategia simile nel momento in cui un paese deve già affrontare crisi economiche è ben noto. Nella storia contemporanea si possono citare numerosi esempi. E’ un messaggio che porta la firma dell’Arabia saudita in lotta contro la rivoluzione nel mondo arabo-islamico, sia essa laica nasseriana, baathista, comunista oppure islamica come fu quella di Khomeini. Riyad si erge a baluardo della reazione islamica. Ecco perché gli ayatollah hanno espresso la loro preoccupazione per queste sommosse dicendo che esse mirano a invertire la tendenza aperta con la rivoluzione islamica iraniana del 1979 e alimentata dalle rivolte della primavera passata.
E’ in corso un tentativo di stabilire tramite il caos un riassetto del Medio Oriente funzionale agli interessi dell’imperialismo e dei suoi alleati locali. Gli Usa sfruttano la loro ampia esperienza nella strategia di frantumazione delle nazioni puntando su forze endogene disgregatrici. Bisogna avere coscienza che queste forze possono esistere e manifestarsi in qualsiasi paese. Qualsiasi Stato-nazione è composto da elementi più o meno eterogenei e basta un momento di crisi e del volgare mercenariato politico per accendere la miccia. Ancora una volta gli Usa, paladini dell’Occidente, cantori dell’esportazione della democrazia o profeti dello scontro di civiltà a seconda delle convenienze propagandistiche, si alleano con i terroristi islamici contro un paese laico che è sempre stato un baluardo contro queste bande. Il coinvolgimento occidentale non è nemmeno troppo nascosto, l’ambasciatore americano e quello francese avrebbero partecipato ad un’iniziativa degli oppositori ad Hama e per questo sarebbero stati cacciati da una chiesa da Mons. Khoury, vicario patriarcale della Chiesa Ortodossa⁹.
Ma come reagiranno le altre Potenze?
Uno scenario aperto
Dopo l’aggressione alla Libia Russia e Cina lasceranno avanzare nuovamente gli Usa in Medio oriente? Dopo ciò che è successo alla risoluzione dell’Onu riguardo all’imposizione del non sorvolo sui cieli libici potrebbe essere lecito dubitarne. In fondo gli occidentali hanno abusato spudoratamente di una minima concessione per fare tutto ciò che volevano. Ma per la Cina la Libia non rappresentava un terreno su cui si giocava la sua sicurezza nazionale. Ancor meno la Siria. Pechino si troverebbe in prima fila solamente nel caso di un progettato attacco alla Corea del Nord, al Pakistan o, molto probabilmente, all’Iran.
Per la Russia è diverso. La Siria è lo storico alleato in Medio oriente e Mosca non dovrebbe correre il rischio di perderlo. E di perdere l’unica base che le resta nel Mediterraneo. Inoltre la caduta di Damasco lascerebbe esposto l’Iran e a questo punto la sfida diverrebbe vitale. La strategia russa di vanificare le mire statunitensi, volte al monopolio delle fonti energetiche, funziona solo se tiene l’intesa con Teheran e se l’Asia centrale resta chiusa alla penetrazione Usa. Ma senza una stretta concertazione tra Russia, Cina e Iran è impossibile. Ecco perché un’eventuale aggressione occidentale alla Siria (già minacciata) avvicinerebbe comunque il rischio di un confronto tra le Potenze. Per il momento pare che Mosca stia arginando l’aggressività statunitense in sede ONU. Ma la situazione permane fluida, anche per i giochi di potere in corso a Mosca in vista delle prossime presidenziali.
Gli attori regionali più prevedibili sono la Repubblica islamica iraniana (storico alleato della Siria a dispetto della differenza del regime politico al potere nei due paesi), che difficilmente potrebbe assistere impotente ad un’aggressione Usa contro Damasco, e Israele, il nemico di vecchia data. Voci insistenti parlano di una prossima guerra israeliana. Con la Siria assorbita a gestire una delicatissima crisi interna la tentazione di attaccare nuovamente il Libano per riprendersi la rivincita dopo la sconfitta del 2006 potrebbe essere forte per Tel Aviv. Esattamente come nel 1982. Ma che probabilità ha Israele di vincere politicamente la partita libanese e stabilizzare a Beirut un regime satellite? Ammesso e non concesso che riesca a sbaragliare sul campo Hezbollah ed i suoi sempre più numerosi alleati. Per questo è contemporaneamente possibile ma difficile credere all’eventualità di un’altra guerra a breve.
L’incognita vera è la Turchia. E qui le domande superano di gran lunga i punti fermi. Ankara si era riavvicinata a Damasco ed era in progetto la realizzazione di uno spazio doganale comune. I turchi hanno tutto da perdere da un collasso siriano. Eppure si parla di un loro coinvolgimento nel sostegno alla rivolta. Se ciò venisse confermato dovremmo interpretarlo come un nuovo capitolo dello scontro che oppone il vertice civile e politico della Turchia (l’Akp) alle forze armate tradizionalmente filo-atlantiche? O vi è dell’altro? Quanto pesano le relazioni tra AKP e Fratellanza musulmana? Nella prima ipotesi andrebbero valutati attentamente gli incontri che i politici turchi hanno avuto con oppositori del regime siriano. Cioè come un modo per stabilire un percorso di composizione del braccio di ferro prima che la situazione sfugga di mano a tutti. La Turchia cercherebbe cioè di limitare i danni. E’ un’ipotesi. Ma per il momento il rapporto tra Erdogan e Assad si è raffreddato. Più probabile, ma non in totale alternativa all’ipotesi di cui sopra, è che la Turchia annaspi, aspetti il futuro svilupparsi degli eventi per non perdere il treno della sua scommessa politica sul ritorno ad un ruolo di punta nel mondo islamico. Non a caso mentre la Siria fronteggia le forze della sedizione, Erdogan si reca al Cairo per imbastire una relazione proficua con il nuovo Egitto. O vi è anche, in questa visita, un po’ di diplomazia parallela, di partito per così dire? E la rottura delle relazioni con Israele e la sospensione della collaborazione in campo militare tra i due pesi sono fatti da circoscrivere solamente al caso della Freedom Flotilla? La crisi siriana non c’entra proprio nulla? O si tratta di un messaggio esplicito a non fare il passo più lungo della gamba scatenando una nuova guerra nella regione approfittando del fatto che la Siria è posta sulla difensiva?
Sono domande destinate a restare, per ora, senza risposta. Nodi che solo lo svilupparsi degli eventi potrà sciogliere.
* Spartaco Alfredo Puttini, dottore in Storia, è frequente contributore a Eurasia dove ha pubblicato: L’immagine della Sfinge: l’Egitto nasseriano e l’opinione pubblica italiana (nr. 3/2005, pp. 115-124), Il Patto di Shanghai (nr. 3/2006, pp. 77-82), USA e Siria: storia di un antagonismo (nr. 2/2007, pp. 189-200), La zuffa per l’Africa (nr. 3/2009, pp. 169-178), La rivoluzione islamica dell’Iran (nr. 1/2010, pp. 249-262).
Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’Autore e potrebbero non coincidere con quelle di “Eurasia”
2. Si veda “La Stampa”, 8 giugno 2011 (versione online) www3.lastampa.it/esteri/sezioni/articolo/lstp/406219/
3. Per un trattazione più esaustiva di questa storia mi permetto di rinviare a: S. Puttini, USA e Siria, storia di un antagonismo; in: “Eurasia”, n.2, 2007 pp.189-200
4. A. Crooke, Una spiegazione del paradosso siriano; in: www.megachip.it
5. N. Tarcha, I cristiani nella Siria in tempesta, tra ribelli armati, Assad e l’Occidente; in: www.megachip.it
6. Ibidem
7. T. Meyssan, La contre-rèvolution au Proche-orient; www.voltairenet.org
8. Ibidem
9. N. Tarcha, op. cit.
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