Melkulangara Bhadrakumar, Strategic Culture Foundation, 28.06.2012
A prima vista, sembrerebbe che una grande figura unificante sia finalmente apparsa sulle rive del Nilo, la cui ombra si proietta sull’intero panorama politico del Medio Oriente. Questo, almeno, è l’impressione generata dalla serie di encomi da parte della comunità internazionale, a seguito dell’elezione di Mohammed Morsi alle presidenziali in Egitto. Da Israele all’Iran, i paesi del Medio Oriente hanno salutato l’esito delle elezioni egiziane con la conseguente vittoria del candidato dei Fratelli Musulmani. Tutte le grandi potenze all’unisono hanno unito le loro voci al coro e salutato l’avvento della democrazia in Egitto.
Tuttavia, a ben guardare, c’è anche una notevole “irregolarità” nel tono e nella sostanza delle dichiarazioni delle cancellerie mondiali. C’è emozione manifesta, di sicuro, nelle voci di Iran e Turchia, come se un nuovo mondo sia dietro l’angolo, nel loro vicinato, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna hanno parlato con la voce dolce, seducente e suggestiva del corteggiamento determinato; la maggior parte dei paesi, tra cui la Russia, parla correttamente e con prudenza in questa occasione; mentre la voce di alcuni paesi regionali come Israele, Giordania o Arabia Saudita tradisce anche un alto grado di nervosismo, per le incertezze che attendono.
Come si spiega questa affascinante gamma di emozioni? In primo luogo, naturalmente, Morsi è un “islamista incorreggibile” e la splendida realtà politica è che si tratta di uno spettacolo nuovo, nella politica regionale, vedere l’islamismo arrivare al potere attraverso le urne. Si tratta di una emozionante e inquietante visione. In secondo luogo, c’è sempre l’ansia per l’”ignoto” – come l’ex segretario alla difesa Donald Rumsfeld avrebbe detto – nell’ambiente altamente volatile del Medio Oriente. Il cuore della questione è che la Fratellanza Musulmana [MB] a cui Morsi appartiene, è una variabile sconosciuta nella dinamica delle forze nel sistema regionale.
Inoltre, la MB ha già mostrato nel periodo recente una rara capacità di pragmatismo e flessibilità (anche se fermamente sposata all’ideologia dell’islamismo) e ha fatto le capriole, sul tappeto erboso della politica, così tanto e così spesso in passato che ci si comincia a chiedersi dove finisce la tattica e inizia la strategia dei Fratelli. In terzo luogo, ci si sofferma su un dubbio inevitabile, che ciò che si è dispiegato in Egitto non sia ancora del tutto l’atto finale, conclusivo, del dramma rivoluzionario senza copione che ha cominciato a svolgersi sulla piazza Tahrir, più di un anno fa, nel dicembre 2010, e il sospetto che l’epilogo sia possibile da qualche parte più avanti, ancora.
A dire il vero, l’elezione di Morsi colpisce profondamente la geopolitica del Medio Oriente. Principalmente, ci sono quattro vettori che meritano attenzione. In primo luogo, l’Egitto è stato un ancoraggio della strategia degli Stati Uniti in Medio Oriente, in che misura le cose cambieranno con l’avvento dei Fratelli? In secondo luogo, relativo a quanto sopra, dove starà l’Egitto nella nuova situazione di fronte al nucleo della questione del Medio Oriente – il problema palestinese e le relazioni arabo-israeliane? In terzo luogo, quale sarà l’impatto, se del caso, che l’ascesa dei Fratelli Musulmani in Egitto avrebbe sulla traiettoria futura della primavera araba? Infine, quali politiche regionali ci si può aspettare dall’Egitto, quale democrazia guidata da un governo islamista, verso i suoi vicini arabi?
Arbitro, mediatore e impostore
Morsi ha vissuto ed ha studiato in parte negli Stati Uniti, ha lavorato per la NASA, ed è stato professore per qualche tempo. Evidentemente, è una mente erudita, ha familiarità con il sistema politico statunitense. Ha giocato un ruolo chiave nella creazione dei contatti tra gli Stati Uniti e la Fratellanza Musulmana, che rapidamente si sono sviluppati nello scorso anno, portando alla visita di una delegazione dei Fratelli a Washington, dove sono stati ricevuti da alti funzionari della Casa Bianca, del Dipartimento di Stato e del Congresso degli Stati Uniti, e sono stati festeggiati dai think tank connessi con le istituzioni degli Stati Uniti.
Evidentemente, Morsi è ben lungi dall’essere uno sconosciuto a Washington, e la sua vittoria elettorale avrebbe potuto essere prevista dagli Stati Uniti.
D’altra parte, il rapporto degli Stati Uniti con l’esercito egiziano è stato, e rimane, la parte più significativa e durevole dei loro legami bilaterali con l’Egitto, anche se l’alchimia del rapporto ha cominciato a cambiare da quando il regime di Hosni Mubarak è stato rovesciato. Allo stesso modo, i Fratelli Musulmani hanno anche dimostrato la volontà di collaborare con l’esercito egiziano – spesso con grande esasperazione dei rivoluzionari di Tahrir Square – e nel prossimo periodo, il tipo di equilibrio che si svilupperebbe nelle equazioni reciproche tra MB e militari, potrebbe avere un grande impatto sul corso della rivoluzione democratica in Egitto. Basti dire che agli Stati Uniti non mi dispiacerebbe un ruolo di arbitro tra i Fratelli e le forze armate, in caso di necessità, davvero un ruolo familiare per la diplomazia statunitense, nel perseguimento della massimizzazione o espansione dell’influenza globale degli Stati Uniti nei paesi stranieri.
Chiaramente, gli Stati Uniti non possono permettersi si essere del tutto o apertamente dalla parte dei militari egiziani, né vogliono proiettarsi in quel modo, poiché sarebbero completamente inconsistenti nella loro professione di paladini delle aspirazioni democratiche delle nazioni arabe, e subirebbero il risentimento dal popolo egiziano. Pur essendo i “finanziatori” dell’esercito egiziano – gli Stati Uniti hanno dato circa 1,5 miliardi di dollari di aiuti ai militari, ogni anno – ci sono prove per ritenere che gli Stati Uniti hanno anche avuto delle brutte sorprese, recentemente, dall’esercito egiziano. Le indicazioni sono che in più occasioni l’esercito egiziano avrebbe anche detto agli interlocutori statunitensi certe cose, per poi continuare a servire al meglio i propri interessi corporativi, come entità dell’economia politica dell’Egitto. Tuttavia, deve essere dato credito agli Stati Uniti per avere colto velocemente l’occasione e di aver compreso che sarebbe pura follia stare solo dalla parte dei generali egiziani, nel loro gioco con i fratelli.
Gli Stati Uniti hanno immediatamente cercato di provare ed esplorare per sé il ruolo di mediatore nel gioco di potere a Cairo, offrendo il loro “aiuto” a Morsi e all’esercito per trovare un mutuo equilibrio, con la scusa che la situazione altamente volatile in Egitto non raggiunga un punto di infiammabilità che destabilizzi il paese e la regione. Cosa implica questo? Da un lato, implica che gli Stati Uniti dovrebbero astenersi dal dare unilateralmente sostegno ai militari, mentre, dall’altro, si darà la possibilità agli Stati Uniti di spingere i Fratelli a muoversi nella direzione della moderazione e del compromesso. A dire il vero, ci sono zone d’ombra di cui non si può mai venire a conoscenza, per esempio, quanto sapevano in anticipo (o accettavano) gli Stati Uniti delle ultime mosse dei militari per usurpare i poteri del presidente e del parlamento democraticamente eletti.
Buche sulla strada da percorrere
Parlando chiaro, tuttavia, la diplomazia degli Stati Uniti naviga in acque inesplorate. Lungi da una situazione in cui gli Stati Uniti influenzano il corso degli eventi, sembra che gli Stati Uniti credano a un modo per aggirare (e attraversare) le situazioni in via di sviluppo e che l’umore che può essere percepito, sia un “aspetta e vedi” e un adeguamento alla situazione. Questo non vuol dire che l’elezione di Morsi abbia sorpreso gli Stati Uniti, ma piuttosto che Washington si sia preparata a una serie di eventualità possibili e che la vittoria di Morsi era probabilmente (o sicuramente) una di esse. Almeno, questo è ciò che la breve dichiarazione dell’addetto stampa della Casa Bianca e la telefonata del presidente Barack Obama a Morsi, suggerirebbero. Il livello di agilità a Washington sarebbe stato di gran lunga superiore, se uno dei gruppi liberali che originariamente erano l’avanguardia della rivoluzione, avesse avuto successo come auriga alla guida del governo nel prossimo periodo, ma poiché ciò è solo d’interesse accademico, oggi, gli Stati Uniti devono accontentarsi di quello che passa il convento. Dal punto di vista degli Stati Uniti, venire a patti con la MB in Egitto diventa di fondamentale importanza, in quanto avrebbe implicazioni nel sostegno degli Stati Uniti al “cambio di regime” in Siria, dove anche la Confraternita è schierata contro il regime di Bashar al-Assad.
I fratelli egiziani, da parte loro, si sono finora astenuti dal sfidare frontalmente i militari e hanno dimostrato la volontà di consentire ai militari di mantenere i propri poteri e preservare la loro unicità nella società e nell’economia dell’Egitto. Quanto ciò continuerà ad essere così, è una grande domanda. Il fatto è che Morsi ha ottenuto una vittoria di stretta misura (grazie al supporto di salafiti e islamisti puri e duri e dei giovani del paese), mentre la popolarità della MB è crollata in modo significativo nei passati 6 mesi successivi all’elezione parlamentare, e ciò è successo a causa del crescente disincanto sui rapporti sottobanco tra fratellanza ed esercito. Così, a parte la pressione dei militari, Morsi deve anche interpretare in termini politici il significato del mandato che ha ricevuto dagli elettori egiziani, e cioè che ha il sostegno solo della metà della nazione egiziana.
Un altro aspetto che ha un peso fondamentale sulle relazioni Egitto-Stati Uniti è lo stato dell’economia egiziana, che è in cattive acque ed ha un disperato bisogno di grandi aiuti e sostegno da Fondo Monetario Internazionale e Unione europea. Le riserve valutarie dell’Egitto sono pari a circa 16 miliardi di dollari, allo stato attuale, qualcosa come il 40% della popolazione è disperatamente povera, sopravvive con un reddito giornaliero non superiore a un dollaro, il debito corrente è vicino ai 90 miliardi di dollari, il deficit di bilancio tocca il 10% del PIL. Il FMI stima che un’infusione immediata di 12 miliardi, o giù di lì, sia necessaria. È interessante notare che la piattaforma elettorale di Morsi sostiene le politiche neoliberiste e un’economia di libero mercato, con l’accento sulla capacità di attrarre investimenti esteri e sulla privatizzazione dell’economia egiziana, misure che balzano fuori dal libro mastro del FMI. Inoltre, il potente che sta dietro Morsi, Khairat al-Shater (il candidato originale dei Fratelli Musulmani alle elezioni presidenziali) è egli stesso un miliardario che rappresenta gli interessi economici del movimento. I liberali egiziani sono giustamente amareggiati dal fatto che i Fratelli sono stati a Tahrir Square solo il tempo per lustrare la propria immagine “rivoluzionaria”, mentre mettevano sotto protezione i loro interessi.
Gli Stati Uniti hanno una carta vincente nel controllo del flusso del denaro del FMI, necessario per rilanciare l’economia egiziana. E ciò è collegato alla richiesta, ad un certo punto, che Morsi e i Fratelli debbano agire all’unisono con la loro agenda geopolitica in Medio Oriente, anche se non così brutalmente come è stato finora. In sintesi, è giusto dire che gli Stati Uniti potrebbero essere spettatori degli eventi catastrofici in Egitto, ma detengono anche i cordoni della borsa dei militari e l’economia.
Ma ci sono altre buche sulla strada. A parte la saggezza politica di realizzare politiche economiche neo-liberiste, che sono sicuro renderanno la vita più difficile per i poveri e alimenteranno le tensioni sociali, Morsi deve anche fare i conti con la possibilità che ci possa essere uno scontro con gli Stati Uniti su Israele. Ogni sondaggio di opinione dell’anno passato ha sempre dimostrato che il popolo egiziano si oppone al trattato di pace con Israele, emanato dagli accordi di Camp David. Poi, come l’ondata massiccia di aspettative a Gaza (che è sfociata in festeggiamenti selvaggi per la vittoria di Morsi) testimonia, ci sono grandi aspettative dalla MB. D’altra parte, l’adesione dell’Egitto al trattato di pace con Israele è una “linea rossa” per Washington, che non permetterà a Morsi di attraversare. Se Morsi non coopera, è assolutamente concepibile che gli Stati Uniti non esiteranno a destabilizzare la sua presidenza e il governo con metodi occulti, come incoraggiare l’esercito a creare una situazione di tensione intollerabile.
Ma poi, il punto è anche che, come dice il proverbio, la strada per Gerusalemme passa per Cairo e anche se Morsi non straccia il trattato di pace con Israele, non ci si può aspettare che sia un collaboratore di Israele come lo era stato Hosni Mubarak, e non farà parte di un altro assedio di Gaza degli israeliani. Oltre a ciò, come potrebbe la MB ammettere i legami economici dell’Egitto con Israele? Infine, Hamas, che è una organizzazione sorella della Fratellanza musulmana, si aspetta con tutto il cuore che l’Egitto sostenga la resistenza palestinese. Capita anche che Morsi stesso abbia un retroterra “anti-israeliano”. La sua iniziazione al culto dei Fratelli, tre decenni fa, avvenne attraverso l’appartenenza a un comitato “anti-sionista” nella provincia di Sharkiya, sul Delta del Nilo, alla fine degli anni ’80, che ha respinto con le unghie e con i denti la ragion d’essere della normalizzazione dell’Egitto con lo stato ebraico. Così, anche se Morsi non annulla il trattato di pace con Israele, non sarà mai in agio con esso. I portavoce dei Fratelli Musulmani sono stati citati, dai media occidentali, dire che Morsi non si incontrerà con gli israeliani, ma non può impedire che altri funzionari lo facciano.
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha detto che non vede l’ora di lavorare “con la nuova amministrazione [dell’Egitto] sulla base degli accordi di pace”, che ha descritto come “una pietra miliare della stabilità nella regione e d’interesse vitale per entrambi paesi”. Ma non è così semplice. Che sarà la più grande preoccupazione di Israele, anche prendendo per oro colato le pubbliche assicurazioni di Morsi nel suo primo discorso dopo la vittoria alle elezioni: “Ci rivolgiamo al mondo con un messaggio di pace. Rispetteremo le carte e le convenzioni internazionali, e gli impegni e gli accordi che l’Egitto ha firmato con il mondo”, anche allora, per quanto l’establishment della sicurezza egiziana continuerà a cooperare nello scambio d’intelligence o nell’intraprendere azioni comuni? Senza una vera cooperazione a livello operativo, presente col regime di Mubarak su base giornaliera e in tempo reale, le sfide alla sicurezza saranno tali che Israele dovrà allocare un budget enorme per garantire la sicurezza delle sue frontiere con l’Egitto. Ancora una volta, senza annullare il trattato di pace in quanto tale, l’Egitto può richiedere cambiamenti nei termini dell’accordo, in particolare per quanto riguarda lo schieramento in Sinai, che il trattato di pace pone sotto una zona demilitarizzata. Morsi, infatti, ha accennato a una simile richiesta di revisione del trattato di pace con Israele.
Pertanto, delle lancinanti preoccupazioni hanno iniziato ad apparire nella mente d’Israele, sul se la MB consentirà all’esercito egiziano di collaborare totalmente con Israele, mentre il tempo passa, e i Fratelli sceglieranno come mantenere il loro rapporto con Hamas. Israele conta fortemente sugli Stati Uniti per modulare le politiche egiziane e garantirsi che i militari trattengano Morsi quando si tratta di Israele. I primi segni sono che Morsi preferisce formare un governo di unità nazionale e negoziare i poteri del presidente con i militari. Israele li considera degli utili segnali. Ma è una speranza un po’ esigua, dati i limiti dell’influenza degli Stati Uniti nella politica egiziana, e anche tenendo conto del fatto che il Consiglio Supremo delle Forze Armate [SCAF] di Cairo, dopo tutto, aveva cominciato a violare tutti gli accordi esistenti con Israele, compreso l’accordo sul gas. Fu sotto lo sguardo del SCAF che l’ambasciata israeliana di Cairo è stata attaccata, l’Egitto aveva sospeso il rilascio dei visti agli israeliani e diminuito il numero dei voli tra i due paesi, a parte il fatto che aveva permesso, per la prima volta della storia, a delle navi da guerra iraniane di attraversare il canale di Suez due volte, lo scorso anno, ignorando le virulenti proteste israeliane (e statunitensi). Il quotidiano israelianoYediot Ahronot ha ben riassunto il paradigma della sicurezza con cui Netanyahu deve fare i conti: “l’Egitto non si trasformerà in una notte in uno stato nemico che minaccia i confini di Israele, ma l’intelligence e le istituzioni militari israeliane dovrebbero occuparsi di quel paese come un vecchio amico che ha bisogno di essere rivalutato, e devono prepararsi di conseguenza.”
Non più uno status ‘sub-culturale’
La questione di fondo qui – come anche nella relazione dell’Egitto con gli Stati Uniti e l’Occidente in generale – è quanto o se l’Egitto accetterà uno “status subculturale”, per citare un’espressione di un editoriale del quotidiano del Partito comunista cinese Global Times. Il quotidiano ha analizzato la rivoluzione in Egitto, mettendo in evidenza e amplificando “i fattori culturali e politici fondamentali”, e puntando sulla controversia se Morsi “diventerà più laico”.
Infatti, ciò che preoccupa perennemente Israele è se Morsi rispecchia la strategia della MB, adagiandosi a una dottrina estrema con un pragmatismo a breve termine. La Fratellanza ha più di 85 anni ed è un movimento pan-arabo che ha costantemente sposato la creazione di uno stato islamico che comprenda l’intero Medio Oriente, e non ha mai rinunciato a questo obiettivo, nonostante la sua attuale volontà pragmatica, forse, nell’accettare l’esistenza di Israele.
Naturalmente, l’Egitto come paese avrebbe molto da perdere se annullasse il trattato di pace con Israele, compresi miliardi di dollari di investimenti occidentali e, ultimo ma non meno importante, l’esercito egiziano ha ancora il potere assoluto in Egitto e la sua adozione di questa posizione, richiederebbe molto tempo e sforzi da parte della MB. Per tutti, come il quotidiano cinese ha sottolineato, qualcosa è cambiato radicalmente nel più vasto contesto regionale e di civiltà. Il Global Times aggiunge:
“Il processo di democratizzazione sta rilassando il carattere culturale e politico del mondo arabo. Quando gli arabi hanno una scelta, sembra che la prima cosa sia trovare la propria identità. In precedenza, la Palestina ha prodotto il regime di Hamas. Le elezioni egiziane senza dubbio incoraggeranno la Fratellanza in altri paesi, con impatti sugli alleati degli Stati Uniti, come l’Arabia Saudita e la Giordania”.
L’osservazione di sopra, fatta in precedenza durante la settimana della vittoria di Morsi, era così preveggente quanto difficile sull’indomani; la Fratellanza musulmana della Giordania ha tratto ispirazione dalle vicende di Cairo e ha minacciato di boicottare le prossime elezioni locali, se Amman non realizza la promessa delle riforme democratiche. Il portavoce della MB ha detto che re Abdullah di Giordania deve svolgere bene il suo compito, che i ministri del governo saranno eletti dal parlamento e non saranno più i suoi incaricati. “Vogliamo anche che maggiori poteri siano conferiti al Parlamento”, ha detto all’agenzia Associated Press il portavoce della MB. Ha detto: “Tutti i passi che abbiamo visto finora [in Giordania] sono cosmesi. Vogliamo vedere atti reali e intenzioni serie per delle riforme vere, o noi sospendiamo la nostra partecipazione alle elezioni comunali”.
Rilanciare l’identità dell’Egitto
La MB della Giordania ha anche chiesto che re Abdullah rimuova Marouf al-Bakhit, un duro ex-generale dell’esercito, dal suo incarico di primo ministro, poiché credono non sia l’uomo adatto a guidare il programma di riforma della Giordania. Ovviamente, le cose stanno arrivando a una svolta in Giordania, dato che le elezioni parlamentari sono in programma per l’inizio del prossimo anno e, anche se re Abdullah ha detto che potrebbe richiedere “almeno due o tre anni” mettere in atto un governo eletto, l’impulso politico tratto dagli sviluppi nel confinante Egitto può dettare il contrario. I giordani hanno organizzato decine di manifestazioni in tutto il paese quest’anno, per premere per la libertà democratica e le riforme.
Anche in questo caso, dei manifestanti, stimati in 4000, hanno inscenato una protesta in Kuwait contro una sentenza del tribunale del 20 giugno, che demoliva i risultati delle elezioni parlamentari di febbraio (in cui l’opposizione aveva ottenuto 34 seggi nel parlamento di 50 membri). Lunedì, il governo del Kuwait aveva presentato le dimissioni in seguito alla situazione di stallo con l’opposizione.
A dire il vero, l’elezione di Morsi avrà risonanza in tutta la regione del Medio Oriente e ha il potenziale di ridisegnare il rapporto tra l’Egitto e il resto del mondo arabo, Arabia Saudita e Qatar in particolare. Gli ultimi due paesi sono saliti alla ribalta nella politica regionale, affiancando l’Egitto negli ultimi anni, ma l’Egitto è destinato a reclamare la sua posizione di leadership. Morsi aveva detto ai media iraniani, in un’intervista esclusiva poche ore prima che la sua vittoria elettorale fosse formalmente annunciata:
“[Il mio piano] è stabilire relazioni con tutti i paesi della regione per rilanciare l’identità dell’Egitto nella regione, attraverso la cooperazione economica fra i paesi arabi e attuare alcune riforme della Lega Araba, attivare il suo ruolo sulla scena internazionale e, oltre a ciò, sostenere il popolo palestinese nella sua legittima campagna per la realizzare dei suoi diritti”.
Significativamente, Morsi ha anche sottolineato il suo entusiasmo per l’espansione dei legami dell’Egitto con l’Iran, e ha detto che i rapporti tra i due paesi “creano un equilibrio strategico nella regione. Ciò è parte della mia agenda”.
La reazione dell’Iran all’elezione del Morsi è stata più effusiva. Poche ore dopo l’annuncio del risultato delle elezioni al Cairo, il ministero degli esteri iraniano ha trasmesso le sue felicitazioni al popolo e al governo egiziani. Questo è stato seguito da un messaggio del Presidente Mahmoud Ahmadinejad. È interessante notare che un messaggio del capo di stato maggiore generale delle forze armate iraniane si felicitasse con la “nazione egiziana” e “invitava” le forze armate dell’Egitto ad accettare i risultati delle elezioni. In una dichiarazione separata, il capo di stato maggiore delle forze armate iraniane ha criticato il Consiglio Supremo l’esercito egiziano per le sue “azioni illegali”, e l’ha definito un corpo “illegale”. I commenti iraniani hanno consigliato la Fratellanza Musulmana ad affrontare l’esercito con l’appoggio degli agitatori di Tahrir Square, e ha avvertito che qualsiasi ritardo ingiustificato nel risolvere le equazioni fra la leadership eletta e l’esercito, può andare a scapito delle forze democratiche, in quanto il trinceramento militare sarebbe solo incline ad aumentare.
Teheran aveva fatto ripetute aperture a Cairo, nel periodo dal rovesciamento del regime di Mubarak, per riprendere le relazioni diplomatiche, ma ha dovuto accettare che la controparte egiziana avesse bisogno di più tempo. In che misura l’entusiasmo di Teheran per la MB sia genuina è difficile da dire, e ci potrebbe essere una spinta forzata verso ciò. Ma l’Iran sta adottando una visione a lungo termine, secondo cui l’ascesa dell’islamismo in Egitto, alla fine, opera in suo favore. (Questa è la sua presa di posizione pubblica nei confronti anche della Libia e della Tunisia.) Per il momento, Teheran trae soddisfazione dal fatto che Morsi non sarà parte di alcuna strategia statunitense di contenimento nei confronti dell’Iran.
Teheran sostiene con insistenza una certa affinità islamica con la MB e ritiene probabile che il sentimento sia ricambiato. La MB è dominata da fazioni e non è escluso che l’Iran abbia influenza su alcune delle sue fazioni. I collegamenti della MB con Hamas, il suo sostegno nel problema palestinese e la sua ostilità nei confronti di Israele, sono tendenze in armonia con la strategia generale regionale iraniana. Ma la cosa più importante di tutte, è che l’Iran osserva acutamente come il rapporto ambivalente tra la MB e gli stati petroliferi del Golfo Persico – Arabia Saudita e Qatar, in particolare, – si evolverà nel prossimo periodo. Il peggiore scenario per l’Iran sarebbe che la prodezza finanziaria saudita e qatariota possa incantare i fratelli d’Egitto. La sua più grande speranza è che la MB senta ed adotti una generale affinità islamica con l’Iran sciita, e non rientri nell’agenda saudita di mobilitazione dei sentimenti settari sunniti in Medio Oriente.
Rivoluzione nella rivoluzione
I rapporti della MB con l’Arabia Saudita promettono di essere un modello affascinante di politica regionale, nel prossimo periodo, e avranno significative ramificazioni nelle situazioni in Siria, Yemen, Bahrain, Libano, ecc. Da un lato, l’Egitto ha bisogno di aiuto finanziario e si sa che i paesi del Golfo Persico hanno tasche profonde. Ma d’altra parte, le monarchie dei petrodollari hanno mostrato riluttanza nel dare una qualsiasi assistenza di larga scala all’Egitto, a meno che non vi siano commisurate garanzie politiche che i loro interessi vitali non stiano per essere messi in pericolo. I regimi autocratici nel Golfo Persico sono estremamente cauti su una rivoluzione vittoriosa in Egitto, che potrebbe diventare un modello per i popoli arabi, e il fervore rivoluzionario potrebbe diffondersi nella regione, minacciando le monarchie. Morsi ha cercato di dissipare i timori dei regimi del Golfo Persico, assicurando che l’Egitto non esporterà la sua rivoluzione. Ma nel suo discorso della vittoria ha anche posto una condizione, dall’approccio sfumato: “Non permetteremo a noi stessi di interferire negli affari interni di un paese, allo stesso modo non permetteremo alcuna interferenza nei nostri affari”. Apparentemente questo può sembrare un atteggiamento logico ed equilibrato, in cui la buona volontà deve essere ricambiata, ma il guaio sta nel fatto che la MB ha avuto un rapporto travagliato con Arabia Saudita e Qatar.
La MB risente del finanziamento clandestino e della promozione dei salafiti egiziani da parte di Arabia Saudita e Qatar, che mirano a contestare la statura della MB come sorgente dell’islamismo in Egitto e nella regione. Allo stesso modo, la MB è ben consapevole che i sauditi e i qatarioti avevano stretti legami con Mubarak e che hanno cercato, per moltissimo tempo, di fermare il rafforzamento degli islamisti in Egitto, temendo che potessero cambiare la mappa politica della regione, finendo con l’attrarre l’attenzione sulla mancanza di legittimità dei loro regimi autocratici.
I sauditi sono molto nervosi per l’avvento al potere in Egitto della MB, perché lottano con la Fratellanza nel loro cortile di casa. C’è anche un retroterra storico di violenze tra l’establishment saudita e la Fratellanza (con cui l’ultimo Principe Nayef si è violentemente confrontato), che le due controparti hanno bisogno di porre a termine. I fermenti su sospetti e antipatie reciproci sono scoppiati di recente, quando l’Arabia Saudita ha minacciato di espellere tutti gli espatriati egiziani; l’ambasciata saudita a Cairo è stata attaccata, costringendo Riyadh a richiamare il suo ambasciatore. (È interessante notare che Morsi si è sentito chiamato a sconfessare pubblicamente i resoconti dei media, secondo cui la sua prima visita come presidente potrebbe essere l’Arabia Saudita).
Detto questo, la vittoria elettorale Morsi è stata possibile, almeno in parte, solo a causa dei blocchi salafiti che hanno votato per lui. Data la natura del verdetto della “scissione”, Morsi si è affrettato a promettere che si sforzerà di agire come presidente di “tutti gli egiziani”. Insieme a ciò, la sua priorità per il prossimo futuro sarà per le questioni interne e non per la politica estera. Ma anche senza che la MB passi a una politica proattiva regionale, la sua ascesa in Egitto, in quanto tale, promette la ristrutturazione della politica del Medio Oriente. Non sarà più possibile ristabilire l’influenza esclusiva degli Stati Uniti in Egitto (e nel mondo arabo). Altri giocatori sono pronti a entrare nell’arena, in particolare la Cina, che è ben disposta ad impegnare risorse e che non è ossessionata da un passato coinvolgimento con l’era Mubarak. Il significato storico dell’ascesa in Egitto dei Fratelli Musulmani, risiede nel fatto che d’ora in poi nessuna singola potenza esterna può mettere la regione completamente sotto le sue ali e trasformarla in un’area “sub-culturale”.
É gradita la ripubblicazione in riferimento alla rivista on-line della Strategic Culture Foundation.
Traduzione di Alessandro Lattanzio
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