“Dopo la Tunisia a chi toccherà?”. Un interrogativo, questo, che fino a qualche giorno fa ricorreva sovente nelle pagine delle testate, nei telegiornali, nelle parole di analisti di politica internazionale e tra la gente comune. La scintilla tunisina, da cui è scaturito l’incendio che ha costretto il presidente Ben Ali a lasciare il potere e fuggire in Arabia Saudita dopo più di vent’anni di regime, ha varcato i confini, palesando con forza quell’ “effetto domino”, considerato tra le conseguenze più probabili della ribellione popolare iniziata il 17 dicembre, dopo che il ventiseienne Mohamed Bouazizi si è dato fuoco, in un gesto estremo e disperato dinanzi alle ingiustizie sociali del Paese. Anche gli egiziani, così, hanno alzato la testa. Lo hanno fatto pacificamente, per rivendicare la loro dignità di popolo ed i loro diritti calpestati da un monopolio del potere che accumula ricchezza da ormai più di trenta anni e che risponde al nome di Hosni Mubarak, il generale tollerato dall’Occidente. Un regime in cui lo Stato d’emergenza, con pesanti restrizioni per le libertà individuali e collettive, è diventato la regola fin dal 1981, anno dell’assassinio di Sadat e dell’ascesa al potere del rais. Da allora l’Egitto, in continuo stato d’eccezione, non ha conosciuto alternanza e pluralismo, diritti e rappresentanza. Tutti i corpi intermedi, come sindacati ed opposizioni, sono stati annullati.
La ribellione egiziana, entrata ormai nel settimo giorno, con le vittime che, stando agli ultimi aggiornamenti, sono arrivate a centocinquanta, non a caso è di carattere spontaneo e popolare. “I motivi della rivolta – afferma Farida Naqqash, direttrice del settimanale Al Ahaly e membro dell’Ufficio Politico del partito di sinistra “Raggruppamento” – “vanno ricercati nell’estrema povertà della stragrande parte della popolazione, causata dalla corruzione di questo sistema liberista che ha prodotto sempre più disoccupazione. A questo si aggiunge lo stato di emergenza che vige da 30 anni e che ha chiuso gli spazi di libertà”. Il Paese è ad un crocevia. Gli scenari futuri sono ancora indefiniti. L’Egitto, di certo, non è la Tunisia. Con i suoi ottanta milioni di abitanti è il Paese più popoloso del mondo arabo ed anche, storicamente, il suo leader naturale. Ha uno stato di polizia molto più efficiente e la sua elite politico-militare si vede recapitare ogni anno un assegno da due miliardi di dollari con timbro postale statunitense. La prima reazione politica di Mubarak ai rabbiosi slogan che si levano da piazza Tahrir (Liberazione), ormai divenuta il simbolo della rivolta, è stato l’annuncio dello scioglimento del governo e la contestuale nomina, nelle vesti di vice-presidente, del generale Omar Suleiman, direttore dei servizi segreti dal 1986. Un personaggio ben visto dalla Casa Bianca e dallo stesso Stato di Israele, probabilmente l’estremo tentativo di salvare i binari privilegiati tra i tre Paesi. Non sono un mistero le forti preoccupazioni di Tel Aviv che, stando a quanto riportato dal quotidiano Haaretz, ritiene che sia “interesse dell’Occidente e di tutto il Medio Oriente mantenere la stabilità del regime in Egitto” e che occorra “mettere un freno alle critiche pubbliche contro il presidente Mubarak”. D’altronde l’Egitto resta il primo Paese arabo ad aver firmato, nel 1979, un accordo di pace con Israele, nonché diversi e successivi accordi di cooperazione, soprattutto in tema di sicurezza ed intelligence. La caduta di Mubarak rappresenterebbe una potenziale minaccia di isolamento per Tel Aviv.
La piazza, tuttavia, ha fatto capire chiaramente che la mossa di Mubarak non è sufficiente, ed il popolo egiziano non si fermerà finché il regime non avrà fine. Ad abbracciare le istanze della mobilitazione è arrivato, una volta scaduto il suo mandato all’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica, Mohammed El Baradei, che si propone quale volto politico del cambiamento e che, tra le altre cose, ha chiesto agli Stati Uniti di spiegare chiaramente da che parte stanno. Una domanda legittima, visto l’appoggio dell’amministrazione americana al regime. Non è un caso che mentre aerei Falcons F-16 di fabbricazione americana sfrecciavano sopra le teste dei manifestanti, uno degli slogan più ricorrenti era “No, Obama, no Mubarak”. I contorni del futuro del Paese sono ancora tutti da decifrare. C’è da considerare il ruolo dell’esercito, ancora diviso, nonostante molti soldati abbiano solidarizzato con la folla. Poi c’è l’atteggiamento di Mubarak. E’ notizia di queste ultime ore la nomina di un nuovo governo, con alcuni ministri strategici, fatta eccezione per il Ministro dell’Interno, mantenuti al loro posto, con generali e capi dei servizi segreti protagonisti del “rimpasto”. Una discriminante fondamentale sarà sicuramente costituita dalla reazione e dalla condotta della comunità internazionale che, in virtù della passività politica dell’Unione Europea, significa in particolare quella del governo americano. Barack Obama auspica “una transizione ordinata”, in un’ambiguità lessicale che trasuda imbarazzo, storicamente nota nelle esternazioni dell’establishment americano quando in gioco ci sono interessi politici ed economici legati al destino di una “dittatura tollerata”. Il popolo egiziano non ha intenzione di mollare. Proprio in queste ultime ore è stato annunciato uno sciopero nazionale, una grande marcia per chiedere a gran voce le dimissioni di Mubarak, con manifestazioni che stanno coinvolgendo anche Suez, Alessandria e Porto Said. I media egiziani, intanto, trasmettono immagini della massiccia presenza militare nelle strade, il coprifuoco, violato da migliaia di manifestanti, è stato anticipato alle due del pomeriggio e l’esercito erge barricate intorno nel centro della capitale intorno a piazza Tahrir.
La cosa certa è che la Tunisia ha aperto una breccia che sta portando il Maghreb ed il Medio Oriente a percorrere strade nuove ed impensabili fino a qualche tempo fa. Tale quadrante geopolitico, d’altra parte, vanta una longevità dei propri governanti che non trova paragoni in altre aree del mondo. Regimi che molto spesso governano, come in Egitto e in Tunisia, in barba a quei “diritti universali” sbandierati a più riprese dall’Occidente, ma ai quali lo stesso Occidente strizza l’occhio per i suoi interessi strategici ed economici. Quello che accadrà in Egitto nei prossimi giorni sarà fondamentale per il destino e per le dinamiche dell’intera area. Nello Yemen, in una manifestazione indetta per il 3 febbraio si chiederanno, come già accaduto nei giorni precedenti, le dimissioni di Ali Abdullah Saleh, al governo di quello che è uno dei Paesi più poveri del mondo, dal 1978. Poi in Algeria i manifestanti torneranno ancora in piazza, il prossimo 12 febbraio, contro il presidente Bouteflika. Tutto il mondo arabo assiste con partecipazione alla ribellione egiziana. I prossimi giorni saranno decisivi. Se quella tunisina è stata la scintilla, le sorti dell’Egitto potrebbero rappresentare molto di più.
Diego Del Priore è dottore in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali (Università degli studi di Roma “La Sapienza”).
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