Il governo egiziano ha recentemente reso noto di aver iniziato la costruzione di un muro di metallo tra il proprio confine, lungo la penisola del Sinai, e quello della Striscia di Gaza. La costruzione è stata avviata in gran segreto e raggiungerà l’estensione in lunghezza di circa 10 kilometri e la profondità di 20 o 30 metri. La progettazione di una barriera a livello sotterraneo è la soluzione proposta dal governo di Mubarak per contrastare efficacemente l’impiego di cunicoli e gallerie, attraverso le quali passerebbe il commercio illegale di Hamas. La barriera dovrà essere interamente di acciaio e quindi impossibile da infrangere, nemmeno con l’esplosivo. L’idea è nata dalle esperienze pregresse che hanno mostrato come gli artificieri di Hamas sono stati in grado di distruggere il muro in superficie, in tutta risposta alla chiusura della Striscia ordinata da Israele. Il fatto, occorso nel gennaio del 2008, è stato gestito con saggezza dal Presidente egiziano. Allorché i guastatori del movimento islamico hanno fatto breccia in diverse parti del muro meridionale, Mubarak ha acconsentito ai profughi palestinesi di entrare nel Sinai, purché risultassero ai controlli sprovvisti di armi. Questo nuovo progetto si gioverebbe anche della collaborazione statunitense e tedesca, gli uni con finanziamenti e gli altri con tecnologie necessarie.
Ma cosa il muro intende arginare? Da quando Gaza è diventata “Hamas-Land”, ovverosia il campo base del partito/movimento di resistenza islamico guidato da Khaled Meshaal è iniziata una progressiva tendenza all’isolamento della Striscia. Il blocco economico è cominciato proprio nel 2006, in occasione della vittoria elettorale e l’ascesa al governo di Isma’il Haniye, costretto dopo poco alle dimissioni e rimpiazzato da Salam Fayyad del partito centrista Third Way, compreso nell’ANP del Presidente Abu Mazen. Gaza è stata chiusa ermeticamente, dato che è stato bloccato qualsiasi traffico tanto sul versante meridionale che su quello settentrionale. Soltanto i medicinali di base possono tutt’ora transitare dal passo di Rafah, unico valico di confine internazionale controllato dall’ANP.
Com’è noto tutto il territorio della Striscia è percorso da un doppio muro di cemento (fence & buffer zones), sui lati settentrionale, orientale e meridionale, mentre il versante occidentale affaccia sul mare. La barriera fu iniziata da Israele già nel 1994, a seguito degli Accordi di Oslo, e completata due anni dopo nelle zone di sua competenza, per un totale di 41 kilometri. Nel 1995 gli Accordi di Taba non stabilirono la demolizione del recinto parziale ma al contrario le Clausole Finali decretarono che questo spazio sarebbe stato legittimo ma solo ai fini dell’implementazione degli stessi accordi. Tra il 2000 ed il 2001 l’opera fu ristrutturata a causa dei frequenti attacchi balistici e venne aggiunta anche una buffer zone di un kilometro. Inoltre la difesa veniva rafforzata aumentando le torrette di guardia ed il numero dei soldati di vedetta, le cui regole di ingaggio comprenderebbero la possibilità di sparare a vista su chiunque si avvicini durante la notte. Il muro è stato poi ultimato dall’Egitto dopo il 2004, nelle aree meridionali al confine con la penisola del Sinai.
La barriera ha previsto un numero esiguo di gates di ingresso, appositamente per rendere i controlli più efficaci e capillari. A nord il solo attraversamento possibile è costituito dal valico di Eretz che sbocca nello Stato di Israele ed è gestito e monitorato direttamente dall’Israel Defence Forces (IDF). Questo canale rappresenta il tramite d’accesso esclusivo per circa 5000 lavoratori palestinesi muniti di passaporto e di permessi speciali e per tutti i nazionali egiziani ma è anche attraversato frequentemente dagli operatori umanitari.
Le altre zone maggiormente permeabili si trovano a nord nei pressi di Umm al-Nasr e Bayt Hanun e a nord-est lungo il check point di Nahal Oz e di Karni. Il primo è un kibbutz di circa 100 famiglie ed è costantemente presidiato da carri armati M109 Howitzer che si aggirano nelle vicinanze al di là del muro. Il secondo è un terminal di scarico adibito al commercio e aperto nel 1993. Qui è presumibile un’alta concentrazione di truppe israeliane da ricognizione, dal momento che sono stati rinvenuti dei tunnel sotterranei sfocianti nello Stato ebraico. Si ritiene che i guerriglieri di Hamas smerciassero cinture esplosive e razzi rudimentali, motivo per cui il valico è stato chiuso per 100 giorni nel 2006 e tutt’ora viene aperto di rado. È fortemente probabile che l’attacco suicida condotto a Port Ashud nel marzo del 2004, sia stato realizzato proprio tramite armamenti e uomini introdotti sfruttando il valico di Karni.
Sempre sul fianco orientale ma quasi a metà della Striscia, il passaggio è possibile al valico di al-Qarara che più internamente conduce alla città di Han Yunis. Infine, a ridosso dell’Aeroporto Internazionale di Gaza, è sita una base militare israeliana logistica ed operativa, in corrispondenza del passaggio minore di Sufa e di quello di Kerem Shalom. Quest’ultimo è il piccolo kibbutz (letteralmente dall’ebraico “Vigneti della Pace”) in cui si verificò il rapimento del caporale Gilad Shalit nel giugno del 2006. Il passaggio omonimo è rimasto nella gestione dell’Autorità Aeroportuale Israeliana, motivo per cui Rafah è l’unico transito effettivamente gestito dal governo palestinese.
Come si vede da questa breve descrizione, la Striscia di Gaza è completamente cinta d’assedio sui due lati confinanti con Israele e dunque il fronte meridionale egiziano ha assunto un’importanza strategica enorme per la guerriglia di Hamas. Da qui passano uomini e mezzi: combattenti che si uniscono alla resistenza e materiali che alimentano l’arsenale. Oltre alle armi leggere vengono smerciate anche le componenti necessarie per la costruzione di ordigni esplosivi rudimentali come i ben noti razzi al-Qassam o i missili a lungo raggio Grad.
In realtà il check-point di Rafah venne costruito congiuntamente dai governi di Egitto e Israele a seguito del trattato di pace nel 1979. Come parte del trattato, veniva stabilita una buffer zone di 100 metri tra Gaza ed il Sinai, nota con il nome di Philadelphi Corridor. In un primo tempo e fino al settembre del 2005 venne gestito dall’Autorità Aeroportuale Israeliana, come tutte le frontiere. In seguito, il disimpegno unilaterale messo a punto da Tel Aviv (Disengagement Plan Implementation Law proposto da Ariel Sharon) ha decretato la fuoriuscita di tutti gli israeliani da Gaza e da quattro insediamenti del West Bank e quindi ha demandato l’amministrazione del valico al governo egiziano ed all’ANP. La giurisdizione, sebbene spetti ad entrambi i governi, concretamente è esercitata soltanto dal Cairo, che ha così potere di impedire qualsiasi accesso al territorio palestinese. Nel 2005 l’Egitto ha anche firmato un accordo militare con Israele, basato sul precedente Trattato di Pace: 750 soldati egiziani hanno avuto il compito di sorvegliare la barriera e i due paesi si impegnavano congiuntamente a contrastare i traffici illeciti e gli attacchi della resistenza di Hamas.
A monitorare i transiti però esiste anche una missione permanente dell’Unione Europea, European Union Border Assistance Mission Rafah ed una missione d’osservazione israeliana. Infine la frammentazione delle forze politiche dei Territori, a seguito della Battaglia di Gaza del 2007, ha offerto il destro affinché il valico cadesse sotto il controllo del grosso clan degli Abu Ris, legato ad Hamas.
Ad ogni modo, ben prima d questi eventi, Rafah è stata la centrale operativa della resistenza, se non altro per questo fitto tessuto di cunicoli che si estendono ad est e ad ovest della città. In almeno due grosse occasioni, l’esercito israeliano è riuscito a danneggiare gravemente questo complesso sotterraneo: nel 2004 nel corso dell’Operazione Rainbow e più di recente nel gennaio 2009, durante l’Operazione Cast Lead, nota in italiano con il nome di Operazione Piombo Fuso.
La pretesa israeliana di chiudere fisicamente i suoi confini con i Territori, attraverso l’uso delle barricate impenetrabili deriva certamente da una sensazione di precarietà. Rispetto alla situazione del 1967, quando lo Stato ebraico aveva guadagnato una certa profondità strategica, conquistando il Sinai, il Golan e di fatto i Territori, e con Hamas che non costituiva ancora una spina nel fianco, adesso che gli equilibri sono cambiati la separazione fisica è sembrata necessaria. A livello regionale, Israele deve fare i conti con un continuo stato di belligeranza con la Siria, con il problema libanese che al momento sembra essere sedato ma che è una vera pentola a pressione e le minacce iraniane anch’esse per ora scemate ma non per questo da sottovalutare. D’altro canto però due paesi arabi, cosiddetti moderati, sono alleati: Egitto e Giordania.
Internamente le forze politiche palestinesi sono frantumate: l’ANP coincide con Abu Mazen (e quindi con Fatah) ed è disposta alle trattative ma rischia di diventare un’entità ostile se il Presidente attuale dovesse uscire di scena con la fine del mandato. A fare da contraltare c’è Hamas che ha mostrato di avere un indice di gradimento molto alto nelle passate elezioni amministrative e legislative, ricevendo consensi anche nel West Bank, tanto da essere necessaria una guerra intra-palestinese prima e una tra la fazione islamica e Israele per spezzare questa superiorità.
Alla luce di tutto ciò è chiaro che trincerarsi entro i confini attuali è sembrata ad Israele l’unica alternativa plausibile, in attesa che il processo di pace trovi una soluzione condivisa. Così facendo però, Tel Aviv ha offerto ad Hamas la grossa possibilità di cambiare tattica di guerra: una volta che il territorio ebraico è inaccessibile e che le due genti sono state divise entro territori definiti, gli attacchi kamikaze sono scemati e sono aumentati ovviamente quelli missilistici. Nel triennio compreso dal 2005 al 2008, si calcola che la resistenza islamica ha esploso circa 6.300 razzi da Gaza, uccidendo 10 persone e ferendone 780. A sua volta questo cambiamento richiede materiali ed esplosivi in misura sempre maggiore. Da qui la necessità di sfruttare cunicoli sotterranei e la relativa “Guerra dei Tunnel” in corso o l’idea del bunkeraggio egiziana.
La notizia del progetto del muro sotterraneo è arrivata poco prima di un’altra vicenda che potrebbe essere anch’essa un segnale di cambiamento nella politica regionale egiziana, specie nei confronti di Hamas. In coincidenza con l’anniversario dell’Operazione Piombo Fuso dell’anno scorso, il 31 dicembre 2009 era stata organizzata una manifestazione pacifista internazionale. Gli attivisti, tra cui anche alcuni italiani, si sono radunati a Midhan Tahrir, una delle piazze più centrali del Cairo, e durante il corteo la polizia in assetto antisommossa ha cercato di trattenere la folla, caricando. Sono state coinvolte anche tutte le ambasciate straniere, dal momento che i manifestanti sono accorsi alle rispettive missioni diplomatiche per chiedere spiegazioni in merito. L’episodio si è poi concluso con un compromesso: un centinaio di attivisti sono stati autorizzati a raggiungere Gaza, mentre il resto è stato fermato al Cairo.
Questo il fatto. Ma il suo significato nascosto potrebbe rivelare come l’Egitto in questo momento stia avendo non pochi problemi nel gestire le relazioni con Israele e gli Stati Uniti, al punto da doversi mostrare molto accondiscendente. Fonti giornalistiche rivelano che la notizia della barriera metallica è stata smentita da voci egiziane ufficiali. Il Cairo ha sempre respinto l’idea di dispiegare l’esercito al confine con Gaza. Al tempo stesso non ammette il transito da Rafah e si indigna davanti alle accuse di voler imprigionare i palestinesi. È più probabile allora che Mubarak abbia ricevuto delle pressioni esterne che lo hanno spinto a ostacolare Hamas. Oltre che da Israele (e dietro di esso gli Stati Uniti), la linea dura potrebbe essere stata richiesta anche dallo stesso Abu Mazen. Chiudere completamente la Striscia, isolarla e combattere con vigore lo smercio di armi e materiali bellici significa obbligare il movimento islamico a firmare finalmente la riconciliazione con l’ANP.
All’inizio di gennaio, il leader Khaled Meshaal si è recato a Riyad per affrontare proprio il problema del difficile rapporto con l’ANP, sotto la mediazione saudita. In precedenza, l’Egitto aveva proposto un piano per fare rientrare la crisi fra le due opposte fazioni politiche palestinesi, suggerendo di indire elezioni presidenziali e legislative per il prossimo giugno, nel West Bank ed anche a Gaza. Il dirigente di Hamas è convenuto sul fatto che l’accordo possa essere siglato al Cairo, ma ha lasciato intendere che sono ancora molte le questioni irrisolte e per queste ragioni è stata cercata la collaborazione del Ministro degli Esteri saudita, il principe Sa’ud al-Faysal.
Contemporaneamente Abu Mazen si è recato a Sharm al-Shaykh, per un incontro con Mubarak circa il riavvio del Processo di Pace, dal quale sostanzialmente dipendono le sorti dei rapporti con Hamas. Il Presidente egiziano aveva pure ricevuto una settimana prima il Primo Ministro Benjamin Netanyahu, recatosi in visita per le medesime ragioni.
In conclusione si può affermare che l’Egitto sia, al momento, quasi il perno attorno al quale ruotano le relazioni, e forse le sorti, delle forze politiche palestinesi. Il Cairo se da un lato è naturale alleato di Israele e dell’ANP, non vuole rompere bruscamente con Hamas. È vero però che al momento l’idea della barriera sotterranea lascerebbe supporre il contrario. È del tutto probabile che questo sia uno stratagemma ideato per obbligare Hamas a deporre le armi e a raggiungere un accordo pacifico su un governo collaborazionista. Ciò richiederebbe a Meshaal l’abbandono di una posizione radicale, il riconoscimento dell’attuale Stato di Israele (e non quello pre-1967) ed infine l’abbandono del diritto al ritorno dei profughi e l’idea di Gerusalemme, capitale dello Stato Palestinese. A sua volta questa situazione potrà tornare utile al Presidente uscente Abu Mazen, ma solo nel caso in cui l’effettivo peso politico del movimento islamico dovesse davvero aver perso consensi, rispetto all’ultima tornata elettorale.
* Pietro Longo si occupa di paesi arabofoni per il sito di “Eurasia”
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