Mentre l’Egitto si prepara alle elezioni presidenziali del prossimo mese e i candidati sono impegnati a presentare le loro liste, la discussione sul futuro economico del paese sembra aver ricevuto una battuta d’arresto. Il paese è in bilico sull’orlo di una crisi economica: l’aumento del deficit di bilancio e il rapido calo delle riserve di valuta estera stanno minacciando una situazione già molto fragile.
A poco più di un anno dallo scoppio delle rivolte causate in larga misura da rivendicazioni economiche, i piani fiscali e di bilancio presentati dal governo al fine di garantire l’assistenza finanziaria esterna sono più orientati verso la continuazione delle politiche dell’era di Mubarak che alla promozione della giustizia sociale. Secondo i dati a disposizione, il deficit di bilancio per l’anno fiscale corrente, che terminerà il prossimo giugno, dovrebbe ammontare a 140 miliardi di sterline egiziane e le riserve di valuta estera sarebbero sufficienti solo per coprire altri tre mesi di importazioni. Inoltre, nell’ultimo anno il governo ha utilizzato più di 20 miliardi dio dollari per sostenere la valuta locale sulla quale ora incombe la prospettiva della svalutazione. L’Egitto, come molti “paesi in via di sviluppo”, è fortemente dipendente dalle importazioni soprattutto di prodotti alimentari di base come il grano. La svalutazione della moneta comporterebbe quindi un aumento dei prezzi sulle importazioni aggravando la recessione e prolungando qualsiasi ripresa economica.
Dopo aver inizialmente rifiutato la proposta di prestito da parte del Fmi, il governo di transizione ha richiesto lo scorso gennaio un prestito di 3.2 miliardi di dollari per evitare una crisi della bilancia dei pagamenti. A questo proposito il Fmi ha invitato il governo egiziano a preparare un piano di riforme economiche che sia ampiamente supportato dai partiti politici come condizione necessaria alla concessione del prestito. Il ministro delle Finanze, il ministro della Cooperazione Internazionale e la Banca Centrale hanno lavorato congiuntamente e preparato un piano di riforme che è stato presentato alla delegazione del Fmi arrivata al Cairo nel mese di marzo. Le politiche di riforma proposte dal piano sono estremamente vaghe: il documento include la classica definizione associata ai prestiti del Fmi – «aggiustamenti strutturali» – assieme a molti controversi emendamenti economici. Allo scopo di ridurre il deficit di bilancio, il piano propone una riforma delle tasse per aumentare le entrate statali. Tale riforma però non solo manca di dettagli concreti, ma propone un cambiamento delle imposte sul reddito attraverso l’aumento del pool di imposte, riproponendo le stesse politiche dei governi di Mubarak e del ministro delle Finanze Yousef Boutros Ghali, invece di promuovere una tassazione progressiva in linea con le richieste di giustizia sociale provenienti dalla popolazione. Le riforme delle imposte sulle vendite e la possibilità d’introdurre l’Imposta sul Valore Aggiunto, fanno parte di questo programma. Le imposte sulle vendite, se da un punto di vista amministrativo sono sicuramente più facili da implementare, sono per natura indirette e regressive dal momento che colpiscono nello stesso modo i diversi settori della società indipendentemente dal loro livello di reddito. In Egitto, dove cui il 40% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà e spende la maggior parte del suo reddito in beni di base, le imposte sulle vendite rappresenterebbero un onere maggiore per la maggioranza dei cittadini.
Il documento contiene anche alcune riforme sulle sovvenzioni energetiche, un tema lungo e controverso all’interno del bilancio del governo egiziano. Le sovvenzioni per l’energia assorbono circa 95 miliardi di sterline egiziane, il 20% delle spese di bilancio. I beneficiari di queste sovvenzioni sono sia i cittadini egiziani ma anche le grandi multinazionali, in particolare le industrie ad alto consumo energetico come quelle del cemento e dell’acciaio. Tuttavia la riforma del governo sulle sovvenzioni rimane mal definita e non indica quale sovvenzione energetica sarà tagliata. Anche se questi tagli fossero indirizzati ai sussidi per le industrie – come in molti hanno richiesto – non sono descritte misure per contrastare eventuali tentativi da parte delle società di aumentare i prezzi dei prodotti finali. “In altre parole, il piano di riforma proposto dal governo è un fiasco!”, ha affermato Samir Atallah, professore di economia all’American University in Cairo, che ha poi aggiunto: “Si tratta fondamentalmente di politica economica neoliberista che non sembra fornire una nuova realtà all’Egitto”.
I negoziati sul prestito del Fmi si sono svolti in un periodo di crescente instabilità politica in cui la firma di qualsiasi intesa è in bilico. La delegazione del Fmi arrivata al Cairo il mese scorso ha lasciato il Paese senza aver siglato nessun accordo. Nonostante il Fmi avesse affermato all’inizio di marzo che la missione in Egitto avrebbe discusso le modalità di accordo e concluso i negoziati, il portavoce dell’istituzione David Hawley ha dichiarato che non c’era nessuna intenzione di giungere ad un accordo finale durante questa visita e ha aggiunto che il team tecnico tornerà al Cairo, ma ha rifiutato di dare maggiori informazioni al riguardo. Massud Ahmad, a capo del dipartimento del Fmi per il Medio Oriente e l’Asia Centrale, ha incontrato sia i ministri dell’attuale governo scelto dalla giunta militare sia i membri del nuovo parlamento. A suo parere la causa principale del mancato accordo sul prestito è la competizione per il potere politico tra i nuovi partiti protagonisti del parlamento e il governo. Tuttavia il Fmi ha messo in chiaro che l’accordo è subordinato al vasto sostegno politico sul piano di riforme, che in pratica significa l’appoggio dei Fratelli Musulmani che controllano quasi la metà dei seggi in parlamento. Molti hanno visto in questa richiesta un cambiamento del modus operandi del Fmi, che non ha imposto alla concessione del prestito condizioni dirette bensì indirette, chiedendo al governo di progettare un programma che deve godere di un ampio sostegno politico e allo stesso tempo essere approvato dall’istituzione finanziaria stessa.
Ciononostante, i dubbi sul prestito e, in particolare, sul programma di riforme sono molti e diffusi non solo tra le varie forze politiche ma anche nella società. L’Assemblea del popolo sembra infatti essere per la prima volta tutta d’accordo sul fatto che l’accettazione del prestito provocherebbe un maggiore indebitamento del Paese, mentre il governo continua ad insistere che il prestito rappresenta la sola via d’uscita alla crisi economica. Il primo stop all’accordo è arrivato dalla maggiore forza politica del paese, i Fratelli Musulmani, i quali hanno respinto la richiesta di prestito, chiedendo al governo maggiore trasparenza, in particolare sul programma di riforme. Il portavoce del partito Libertà e Giustizia, Mohammed Mursi, ha dichiarato dopo aver incontrato la delegazione del Fmi che il prestito rappresenterà un ulteriore peso sulle spalle degli egiziani, i quali sono i primi ad avere il diritto di sapere come questi soldi verranno spesi e come saranno restituiti. La Fratellanza non si è dichiarata ideologicamente né contraria né a favore al prestito o ad altri tipi di assistenza esterna, ma ha ammonito che dovranno in primo luogo essere al servizio dell’interesse pubblico. Prima di giungere ad una decisione e di contrarre un ulteriore debito, il Partito Libertà e Giustizia ha chiesto, in primo luogo, al governo di ricevere rassicurazioni e di dimostrare che non esistano soluzioni alternative in grado di non aggravare ulteriormente il deficit di bilancio e, in secondo luogo, di rivedere il programma economico inserendo i dettagli sulle condizioni e le destinazioni del prestito e i metodi di restituzione che sono fino a questo momento sconosciuti. In assenza di queste informazioni basilari ed essenziali per esprimere un giudizio, il Partito Libertà e Giustizia si rifiuta di continuare i negoziati.
Della stessa opinione sono molti gruppi della «società civile», i quali hanno chiesto che sia il popolo egiziano a decidere se approvare o meno ulteriori prestiti dalle istituzioni finanziarie internazionali, dal momento che l’attuale governo non è stato eletto dai cittadini ma scelto dal Consiglio Supremo delle Forze Armate. In particolare la Popular Campaign to Drop Egypt’s Debts (PCDED), che ha attratto l’attenzione mondiale lo scorso ottobre quando organizzò eventi paralleli a Londra e al Cairo per chiedere la cancellazione del debito estero egiziano, ha definito il prestito “odioso e illegittimo”, e ha chiesto al governo di transizione di fornire dati completi sulla condizione economica dell’Egitto, tra cui la quantità precisa di riserve estere, del deficit di bilancio e le basi economiche sulle quali poter chiedere nuovi prestiti esteri. La PCEDE, che ha monitorato durante lo scorso anno gli impegni internazionali assunti dal governo di transizione, ha confermato che circa 8 miliardi di dollari di assistenza finanziaria sono entrati nel paese attraverso varie fonti, sebbene nessuno sappia dove sono finiti questi soldi, in cosa sono stati spesi e quali erano le condizioni annesse. Alcuni dei suoi membri si sono incontrati nelle scorse settimane con Saad Al-Hossaini, a capo del Comitato Parlamentare sul Bilancio, per discutere la questione del debito estero dell’Egitto alla luce dei negoziati sul nuovo prestito del Fmi. Durante la riunione si è discusso anche sul modo di monitorare e controllare tutti i debiti contratti durante l’era di Mubarak e sul cosiddetto programma di riforme economiche avanzato dal gabinetto. Sulla base di questo incontro, la PCDED ha presentato una dichiarazione in cui ha espresso il rifiuto di tale programma, in particolare perché esso ha come principale obiettivo la riduzione del deficit di bilancio e non risponde alle richieste di giustizia sociale, continuando perciò la politica economica dello scorso regime.
Infine, la PCDED ha criticato fortemente il governo per aver tenuto segreto il piano fino all’inizio dei negoziati, confermando la volontà di limitare ai cittadini l’accesso alle informazioni politiche e il loro contributo alla formazione delle politiche economiche. Questo velo di segretezza non copre solo gli affari economici del Paese, ma anche quelli dell’Esercito, che controlla un impero economico che rappresenta tra il 15% e il 40 % del PIL nazionale e il cui bilancio è segreto e al di fuori del controllo del governo. Dopo la caduta del presidente Mubarak e la presa di potere dei militari, l’esercito ha fornito al governo circa 12 miliardi di sterline egiziane, tra cui un prestito di 1 miliardo di dollari al Ministero delle Finanze per sostenere le riserve di valuta estera. Questi prestiti sono stati presentati all’opinione pubblica come un atto di estrema generosità, mentre le colpe per le difficoltà economiche del Paese sono state fatte ricadere sul movimento rivoluzionario e sugli scioperi dei lavoratori.
Mentre le preteste politiche si sono ridotte in numero e frequenza, gli scioperi hanno continuato senza sosta. Le questioni urgenti che l’economia si trova ad affrontare oggi sono soprattutto le conseguenze di una cattiva gestione politica ed economica della transizione. I governi e la Banca Centrale non hanno promosso misure per attenuare il problema dell’esaurimento delle riserve ufficiali, mentre il permanente clima di instabilità politica ha scoraggiato gli investitori e il turismo. Sicuramente l’economia egiziana avrà bisogno a breve di qualche tipo di aiuto finanziario, ma non è ancora chiaro se l’accordo con il Fmi sarà firmato e se il governo arriverà ad un compromesso con il parlamento sul piano di riforme. A questo proposito l’Arab NGO Network for Development, in un comunicato presentato alla stampa, ha dichiarato che la continuazione di politiche inadeguate e il disinteresse nei confronti della popolazione hanno sollevato questioni fondamentali sul ruolo del Fmi, il quale sta tentando di stabilire nuovi meccanismi che potrebbero limitare le possibilità di un ripensamento democratico delle politiche economiche e sociali e di una visione di sviluppo a livello nazionale, continuando ad opprimere i diritti sociali ed economici delle persone.
* Eliana Favari è dottoressa magistrale in Scienze Internazionali – Global Studies (Università degli Studi di Torino).
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