Le guerre degli  ultimi anni nel Vicino Oriente presentano oggi a Obama un conto piuttosto salato da pagare. La guerra civile in Libia, infatti, sta sollevando negli Stati Uniti un confuso dibattito sul ruolo che il Paese dovrebbe ricoprire nella missione della NATO. Le recenti proposte di legge sull’impegno militare statunitense  e sui finanziamenti alla missione libica testimoniano le decisioni (indecisioni) del Congresso statunitense. La confusione e il senso di smarrimento che ne derivano acuiscono la crisi istituzionale tra potere esecutivo e potere legislativo. Una crisi che, oggi, non può che andarsi a collocare  all’interno di un dibattito più ampio,  tutt’altro che archiviato, riguardo al probabile declino della supremazia nordamericana.

 

Lo scorso 3 giugno la Camera dei Rappresentanti esprimeva un giudizio  negativo riguardo all’immediato ritiro di tutte le forze statunitensi dalla Libia. Poche settimane dopo, più precisamente lo scorso 24 giugno, la Camera votava contro l’autorizzazione delle operazioni militari in Libia ma, allo stesso tempo, rigettava una misura volta alla limitazione dei finanziamenti della missione. Confusione pressoché analoga emerge anche all’interno del Senato.

 

Le (sup)posizioni del Congresso

 

Diversi e numerosi sono i fattori che contribuiscono alla confusione in seno al Congresso. Il precedente impegno nei conflitti in Afghanistan e in Iraq  potrebbe essere, in parte, la causa di questa riluttanza verso una politica estera più attiva e assertiva in Libia. Sono conflitti che, con il passare del tempo, raccolgono sempre meno consensi sia a livello internazionale che a livello interno. Alle ormai consolidate esigenze di sicurezza interna, infatti, oggi gli USA aggiungono nuove preoccupazioni legate alle difficoltà che una delle più aspre crisi economiche degli ultimi tempi sta comportando. La crisi economica e i problemi derivanti dal forte indebitamento statunitense hanno permesso di affiancare al consueto approccio internazionalista-ottimista una buona dose di pragmatismo, che ha portato inevitabilmente il Paese a interrogarsi sui suoi limiti e i rischi di un imperial overstretch.

 

Il Congresso sembra quindi farsi portavoce di queste criticità. Le continue divisioni tra un atteggiamento più attivo, interventista e multilaterale (sebbene solo di fatto), come aspirerebbe d’altronde ad essere la politica estera di Obama e una posizione più isolazionista che non ha ancora ben chiaro come gestire le nuove dinamiche internazionali, animano il dibattito interno. Intanto nel Partito Repubblicano, qualcosa sembra cambiare. Vi è una sorta di transazione dalle passate posizioni neoconservatrici della dottrina di Bush a un isolazionismo che sembra aspirare ad una strategia di offshore balancing. Questa strategia, nonché un sempre maggiore impegno selettivo nei conflitti del Vicino Oriente, portano inevitabilmente a chiedersi quali siano gli interessi strategici statunitensi in Libia, quale minaccia possa rappresentare per gli Stati Uniti il regime dei Gheddafi e soprattutto con quali risorse, dopo l’Iraq e l’Afghanistan, si intenda procedere. Domande che, alla luce dei recenti avvenimenti, anche lo stesso partito democratico inizia a porsi, mettendo inevitabilmente in discussione la politica estera di Obama. In particolare per il repubblicano Tom McClintock votare a favore del disegno di legge che prevede un maggior finanziamento alla missione significherebbe semplicemente entrare ugualmente nel conflitto libico, solo che questa volta l’entrata avverrebbe dalla «porta sul retro». Un piccolo gruppo di Liberal democratici e Repubblicani conservatori ha affermato la necessità di opporsi alle posizioni assunte da Obama il più aspramente possibile, per evitare un ‘accentramento di potere nelle mani del Presidente’ e impedire che il Congresso venga messo da parte riguardo alle decisioni cruciali per il Paese.

 

Le posizioni di Obama

 

Obama ha dichiarato di non aver bisogno dell’autorizzazione del Congresso per l’intervento, sostenendo che il War Power Act del 1973 non si applica a ciò che sta avvenendo in Libia. La risoluzione prevede infatti che il Presidente possa inviare forze armate in azione all’estero solo previa autorizzazione del Congresso o in caso di emergenza nazionale. In quest’ultimo caso, le forze dispiegate su autorizzazione del Presidente non potrebbero, comunque, restare più di 60 giorni. Il termine quindi sarebbe ormai scaduto per le forze statunitensi in supporto alla crisi libica. Tralasciando il dibattito sulla  costituzionalità o meno del War Power Act, Obama non sembra tuttavia essere un caso sui generis, dato che in passato altri presidenti hanno volontariamente ignorato la War Power Resolution. Si riapre così un vecchio dibattito che indigna  il Congresso e anima lo scontro tra poteri istituzionali.

Hilary Clinton ha recentemente affermato che gli Stati Uniti devono stare con i Paesi amici e i suoi alleati, tutti uniti contro Gheddafi, evidenziando la volontà di Obama di affrontare la crisi libica con un approccio multilaterale. Il segretario generale della NATO Rasmussen dichiara che la guerra avrebbe già fatto 15 mila morti e oltre 30 mila prigionieri, ragion per cui l’intervento della NATO in Libia risulta cruciale per una risoluzione favorevole, almeno dal punto di vista Occidentale, del conflitto. Resta tuttavia da chiedersi quanta armonia ci sia oggi all’interno della NATO stessa, che sta portando avanti una missione in Libia senza veder coinvolti molti dei suoi membri. Ma soprattutto resta da chiedersi in che misura l’Organizzazione atlantista abbia contribuito al benessere reale della popolazione libica.

 

 

 

Il dibattito

 

La crisi libica di questi giorni rappresenta solo la punta di un iceberg. L’iceberg in questo caso simboleggia la tanto decantata crisi del primato statunitense. E’ un dibattito che nel corso del tempo torna in modo ciclico e puntuale ogni volta che gli Stati Uniti si trovano in un punto cruciale della loro storia. Tuttavia Obama non sembra aver avuto alcuna esitazione su quale approccio adottare a livello di politica estera. I dubbi e le incertezze però non hanno risparmiato il Congresso che è tornato a dividersi tra una concezione del  ruolo del proprio Paese come messianico e salvifico, e una visione di Realpolitik caratterizzata da una strategia di offshore balancing. Il dibattito tra declinisti e anti-declinisti è in corso, le motivazioni a supporto sembrano essere piuttosto plausibili da entrambe le parti, quale sarà allora il futuro di quella che, per quasi un ventennio, è stata spesso  definito come ‘iperpotenza solitaria’? La sfida per Obama è aperta, il successivo banco di prova saranno le prossime elezioni presidenziali. Non resta quindi che aspettare e vedere se, anche in questo caso, gli Stati Uniti saranno in grado di confrontarsi con le nuove dinamiche internazionali e soprattutto se saranno in grado di pagare i salati conti che la Libia presenta oggi.

 

 

 

 

 

*Fabrizia Di Lorenzo (laureanda in Scienze internazionali e diplomatiche – Università di Bologna)

 


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