Si narra che alla morte di Giuliano, avvenuta alla confluenza dei fiumi Tigri e Gyndes, gli astanti videro uscire dal suo corpo due anime: prima quella di Giuliano, poi quella di Alessandro Magno. “Simili a due fiaccole, diventarono due palle di fuoco, quindi due stelle filanti che si confusero con gli astri innumerevoli del firmamento”[1].

L’assimilazione della figura di Alessandro a quella dell’Imperatore Giuliano non è casuale. Alla madre di quest’ultimo era stato infatti predetto che dal suo ventre sarebbe nato un nuovo Alessandro. E Giuliano stesso credé alle parole di Massimo d’Efeso (che lo istruì al neoplatonismo e lo iniziò ai misteri mithraici ed alla teurgia di Giamblico) quando questi lo assicurò che era destinato a riunire l’Oriente e l’Occidente ed a superare le gesta di quello che nel mondo islamico sarebbe stato conosciuto come Iskander Dhu’l-Qarnayn (Alessandro il Bicorne): “un epiteto che viene interpretato in riferimento ai due secoli, alle due età, ai due cicli di Alessandro”[2].

Alla pari del Macedone, che fu dichiarato figlio di Ammone, Giuliano si dichiarò ufficialmente figlio di Helios, nonché un secondo Eracle-Mithra, “destinato dagli dei a restaurare l’ordine religioso e politico, nel mondo romano”. In questo senso l’Imperatore, in virtù della sua imitatio heroum che assurge al rango di vera e propria imitatio dei, diventa una sorta di salvatore del mondo abitato, mentre la sua spedizione contro la Persia, lungi dall’essere un’operazione volta ad una mera conquista territoriale, “appare assimilata, attraverso la figura di Giuliano stesso, alla missione di purificare tutta la terra e il mare che Dio affidò ad Eracle e Dioniso”[3].

L’avanzata verso Oriente di Giuliano, restauratore del monoteismo solare, è dunque da interpretare come un’avanzata incontro al Sole. Così come nel caso di Alessandro, questa avanzata deve necessariamente compiersi lungo le direttrici dell’ampiezza e dell’esaltazione.

Il rigetto del cristianesimo da parte di Giuliano si caratterizza in primo luogo come rifiuto dell’idea del Paradiso perduto che colloca il Soggetto non nel Centro, nel Polo celeste, ma al di fuori di esso[4]. Tale Soggetto, concepito come Soggetto-esule, soffre della colpa del peccato originale. L’idea imperiale di Giuliano afferma invece il carattere divino del Soggetto che ha sede nel Centro del cosmo. Questo Soggetto è assolutamente inseparabile da Dio (esaltazione) ed attraverso l’estensione orizzontale del suo potere (ampiezza) purifica lo spazio trasformandolo nuovamente in Paradiso.

Alessandro si inoltrò nella Terra delle Tenebre alla ricerca della Fonte di Vita che lo avrebbe reso immortale. Tuttavia, la sua missione non ebbe successo e solo il suo compagno Andreas (al-Khidr nella versione islamica della leggenda) riuscì a bere dalla Fonte raggiungendo l’immortalità. Questa “Fonte” non può che trovarsi nel Polo paradisiaco (il Paradiso Terrestre) che rappresenta il centro stesso del mondo. “Questo Polo è ancora effettivamente una parte del cosmo, ma la sua posizione è comunque virtualmente sopra-cosmica: così si spiega il fatto che di qui si possa raggiungere il frutto dell’Albero della Vita, il che equivale a dire che l’Essere pervenuto al centro del nostro mondo ha già conquistato l’immortalità”[5]. Ed è questo il Polo verso il quale tendeva Giuliano per ricongiungere l’uomo alla sua primordiale essenza spirituale, perduta a causa dell’allontanamento dal Centro del Bene.

Helios, nella teologia imperiale di Giuliano, è l’ipostasi intelligibile del Bene e la luce del Sole è l’energia intellettuale che illumina gli spiriti. In molte tradizioni eurasiatiche il Sole è rappresentato come il frutto dell’Albero del Mondo. Esso lascia il suo albero all’inizio di ogni ciclo per posarvisi nuovamente alla fine. In questa prospettiva l’albero, oltre al suo naturale simbolismo assiale, assume il significato di “stazione del Sole”. Questo simbolismo assume ancora maggior valore se si considera che l’Axis Mundi è sempre considerato più o meno esplicitamente come “luminoso”. Esso, come affermava Platone, è un asse luminoso di diamante. E sempre secondo Platone, alla pari dell’Albero della Vita che si estende dall’alto verso il basso, l’uomo è una pianta celeste le cui radici tendono verso il cielo ed i rami verso il basso[6]. Di conseguenza la sua esistenza non può essere in alcun modo disgiunta dall’ordine metafisico. La tendenza al monoteismo ed all’universalismo della religiosità solare giulianea si fondava proprio sul fatto che l’unicità del Divino doveva necessariamente riflettersi nell’unità dell’Impero e nel suo “Capo angelizzato”, capace di mantenere inalterato il rapporto diretto tra l’ordine fisico e quello metafisico.

Va da sé che una simile concezione dell’idea imperiale non si discosta in modo eccessivo da quella ghibellina e federiciana che fiorì nel Medioevo europeo. Seppur influenzata dalla dottrina agostiniana del peccato originale, l’idea imperiale di Federico II considerava l’Impero come il rimedio alla corruzione prodotta dal peccato, in quanto attraverso l’Impero il diritto divino diveniva realtà[7]. L’Impero, come potere che frena (katechon)[8], ha il compito di tenere a freno le volontà delittuose e restaurare l’ordine distrutto dal peccato. Il compito dell’Imperatore, subordinato solo a Dio, è quello di superare la condizione di Soggetto-esule riconducendo l’uomo al suo Centro. In questo senso non vi è più distinzione tra città divina e città terrena, in quanto essa è sanata dalla provvidenzialità dell’Impero. Di fatto, tanto nella prospettiva giulianea quanto in quella federiciana il principio ideale sul quale si fonda l’Impero nella sua sacralità è di natura teocratica. E tanto Giuliano quanto Federico rappresentano la perfetta incarnazione di quel Re filosofo e teologo di cui parla il pensatore tradizionalista russo Aleksandr Dugin nel suo testo dal carattere profondamente metaforico Orizzonte dell’Impero ideale[9].

Ora, come riportato da Claudio Mutti nella sua raccolta di saggi sulle epifanie dell’idea imperiale, il tentativo di Giuliano di rifondare la civiltà pagana è stato paragonato sia al tentativo (riuscito) dell’Imam Khomeini di riorganizzare su basi teocratiche uno Stato come l’Iran, sia al tentativo del Papa Giovanni Paolo II di mantenere in vita una religione ormai destinata al tramonto[10]. Tuttavia, un paragone che sembrerebbe meglio calzare con la figura ieratica dell’Imperatore romano potrebbe essere quello col Faraone egizio Akhenaton: colui che elevò al rango di unica e suprema divinità il disco solare Aton, cosmocrate e creatore universale, fonte universale di vita nonché epifania eterna della divinità. Tramite la cosiddetta “Rivoluzione di Amarna”, Amenhotep IV assunse il nome di Akh-en-Aton (colui che serve Aton) e, liberandosi del dominio sacerdotale per ciò che concerne le questioni religiose, ristabilì un legame univoco e diretto tra il Divino ed il potere regale. La sua morte e la fine della XVIII dinastia col suo successore Tut-Ankh-Amon, che ristabilì i rapporti con la classe sacerdotale, segnarono, secondo l’opinione diffusa tra gli studiosi, la fine della creatività del genio egizio[11].

La scrittrice Maximiani Portas (alias Savitri Devi Mukherji) nella sua opera The Lighting and the Sun individuò nella figura del Faraone Akhenaton un esempio di “uomo sopra il tempo”: ovvero, un uomo che persiste nelle sue profonde convinzioni a prescindere dal mondo circostante, ignorandolo, e quasi in aperto contrasto con esso. Giuliano, alla pari di Akhenaton che instaurò il monoteismo solare in un’epoca in cui il mondo egizio viveva una fase di aperta decadenza, può essere considerato un “uomo sopra il tempo”. Anche Giuliano visse in un’epoca in cui l’Impero romano conosceva un’irreversibile fase di decadenza. Una decadenza che Giuliano, profondamente influenzato dal neoplatonismo, attribuiva alla diffusione di una religione, il cristianesimo, percepita come estranea alle basi fondanti ed all’essenza stessa dell’Impero. Ed alla pari di Akhenaton, il tentativo di Giuliano, anche a causa della sua prematura scomparsa, fu condannato al fallimento.

Il monoteismo o enoteismo solare, introdotto da Giuliano, può essere a buon ragione considerato come una “sintesi di tutte le religioni e le teologie pagane”[12]. Helios è l’unico vero Dio e le altre divinità romane non sono altro che sue ipostasi. Giuliano non inventò una religione e non inserì elementi estranei alla tradizione religiosa romana. “Roma non venne meno alle sue più strette tradizioni per accogliere ed adottare culti e costumi stranieri. Al contrario dopo essere stato depurato dai suoi tratti più spuri ed equivoci il culto di origine beduina e stabilitosi in Siria divenne un culto romano di Stato e il Dio Sole si confonde col Dio più caratteristico della pura tradizione romana, Giove capitolino. Questo fatto, che René Guénon avrebbe potuto definire nei termini di un provvidenziale intervento dall’Oriente a favore di Roma, poté verificarsi per la ragione che il culto solare della tarda antichità romana rappresentava la riemergenza di una comune eredità primordiale”[13].

I Persiani veneravano Helios sotto il nome di Mithra. E Giuliano, che mirava ad una forma di universalizzazione del mithracismo, nel suo Inno al Sole identificava Mithra proprio con il Sol Invictus, divinità romana suprema a partire dalla riforma di Aureliano del 274 d. C. e festeggiata nel giorno del solstizio invernale con Apollo e con Prometeo. Di fatto Mithra riveste nella cosmogonia iranica un ruolo complesso. Celebrato nell’Inno Mihr Yasht e creato da Ahura Mazda, Mithra è un Dio solare onnisciente e onniveggente che provvede a tutto il creato, alla fertilità dei campi e del bestiame ed è al contempo un Dio guerriero[14]. Mithra, tuttavia, non condivide il tragico destino di altre divinità misteriche e lo scenario dell’iniziazione mithraica non comporta prove evocanti la morte e la resurrezione. Giuliano venne iniziato a questi misteri e l’Inno a Helios Re risente tanto della sua esperienza iniziatica quanto degli influssi neoplatonici. Tutte le divinità dipendono dalla Luce di Helios e sono l’emanazione della sua potenza. “Helios è il Sole non come astro fisico divinificato ma come simbolo di luce metafisica e di potenza in un senso trascendente […] Helios viene identificato con Apollo, il quale, date le sue qualità fondamentali di immutabilità, perfezione, eternità, eccellenza intellettuale, è la personificazione dell’unità divina esprimentesi come intelligenza pura ed assoluta”[15]. Al Sole è anche associata la figura di Attis, il compagno di Cibele (origine degli dèi intellettuali e Divina Provvidenza), che nell’Inno alla Madre degli Dei di Giuliano incarna il Logos: causa demiurgica di ogni essere[16]

Si tratta di una prospettiva non dissimile da quella dell’ermetismo, secondo la quale “la Luce è l’intelletto supremo (Dio) che esiste prima della natura umida emersa dall’oscurità, mentre il Logos luminoso che è scaturito dall’intelletto è il figlio di Dio”[17]. Il Logos è qui un’ipostasi divina. Esso ha un valore mistico che avvolge il cosmo in ogni suo punto. “Poiché il demiurgo ha creato il mondo nel suo insieme, non con le mani, ma con il Logos, consideralo come presente, sempre esistente, il creatore di tutto, l’uno e il solo”[18]. E ancora: “l’intelletto è della stessa essenza di Dio […], non è ricavato dall’essenzialità di Dio, ma si dispiega da esso come la luce del sole. Poiché negli uomini questo intelletto è Dio”[19].

Dunque, secondo Giuliano, tra il mondo soprasensibile del Divino e delle sue intelligenze angeliche e il mondo delle forme materiali e corporee esiste un terzo mondo “intellettuale” in cui Helios, figlio dell’Uno ed ipostasi del Principio supremo, “svolge una funzione mediatrice, coordinatrice e unificatrice in rapporto alle cause intellettuali e demiurgiche, partecipando sia dell’unità del Principio trascendente, sia della molteplicità contingente della manifestazione fenomenica”[20]. È, questa, un’idea neoplatonica fatta propria anche dalla teosofia islamica dello Shaikh al-Ishraq Sohrawardi (1155-1191) e di Mahmud Qotboddin Shirazi (1237-1311). Infatti, proprio Sohrawardi era convinto che presso gli antichi Persiani esistesse una comunità guidata direttamente da Dio. Platone ed Ermete Trismegisto sarebbero stati testimoni della loro sublime dottrina della luce, la quale si fonda sulla visione estatica degli esseri di luce. E questa luce altro non è che la “luce di gloria” dello zoroastrismo (xvarnah: termine che indica la fiammata primordiale che è la fonte degli splendori aurorali, quelle ipostasi di luce che generandosi a vicenda dalle loro stesse irradiazioni raggiungono l’innumerevole)[21]. La luce si oppone alla pura tenebra del mondo occidentale (la landa dell’occaso) in cui regna il male a causa dell’assenza di Dio.

Oltre mille anni dopo Giuliano, un altro filosofo che vissuto in un’epoca di decadenza imperiale, il bizantino Giorgio Gemisto Pletone (1355-1452), parlò espressamente delle ricerca del Paradiso come del percorso interiore dello Spirito verso il centro dell’anima circonfuso di luce. Pletone, che enunciando il suo ideale di riunificazione delle religioni sulla base della loro unità primordiale sconvolse i partecipanti del Concilio unionista di Firenze nel 1439[22], riteneva che attraverso la filosofica platonica, erede di quella zoroastriana, si sarebbe potuto dare vita ad una società teocentrica e teocratica ispirata al culto solare. Egli si riteneva altresì prosecutore di una linea sapienziale coerentemente eurasiatica che aveva le sue origini nell’antichità ed attraverso Zoroastro, Pitagora, Platone ed i brahmani era arrivata fino a lui. Per questo motivo Pletone, alla pari di Giuliano, venne accusato di voler restaurare il paganesimo. Tuttavia, il suo era semplicemente un tentativo di riconciliare l’uomo dei primordi attraverso il platonismo ed il monoteismo solare, unica via per superare le controversie religiose, sia tra cristiani che tra cristiani e musulmani, e instaurare la pace universale.

Appare dunque evidente, come già affermato in precedenza, che Giuliano non inserì nessun elemento straniero o di particolare novità nel complesso della religiosità romana. Il suo potrebbe anzi essere meglio compreso come un ritorno alla religiosità primordiale; a ciò che lo studioso danese, naturalizzato tedesco, Herman Wirth chiamava Urmonotheismus. “L’elemento essenziale di questa religiosità primordiale, che si esprimeva essenzialmente su una base monoteistica, sarebbe stato costituito da una sorta di rivelazione naturale nella quale il ruolo primario veniva ad essere ricoperto dall’esperienza immediata della luce cosmica, dai significati spirituali coperti dal sole e dai diversi momenti che ritmano il suo percorso celeste, l’anno-Dio raffigurato come soffio/vita del sole […] Da un originario padre cosmico sarebbe derivato un figlio, il portatore di quella che Wirth definiva la luce della terra; il sole, il veicolo corporeo della luce spirituale”[23].

La progettualità politica e religiosa di Giuliano fallì a causa della sua prematura morte nel corso della spedizione contro la Persia. Al pari dei successori che distrussero l’operato di Akhenaton, i successori di Giuliano non misero più freni alla cristianizzazione dell’Impero; e questo riuscì a sopravvivere nella sua parte orientale proprio grazie alla profonda influenza che su essa esercitò la Felix Asia.


NOTE

[1]    C. Mutti, Imperium. Epifanie dell’idea di Impero, Effepi, Genova 2005, p. 37.

[2]    Ibidem.

[3]    Ibidem, p. 35.

[4]    Giuliano, alla pari del neoplatonico Porfirio, riteneva che i cristiani (da lui definiti “galilei”) fossero una minoranza di ebrei distaccatasi dall’ortodossia giudaica, cosicché rimproverava loro di non essere rimasti fedeli alla Legge mosaica. Porfirio era convinto che i giudei accogliessero Dio meglio dei cristiani. Ed anche Giuliano nutriva simpatia per le figure di Abramo, Isacco e Giacobbe, che considerava comunque non giudei bensì caldei. Tuttavia, al contrario di Porfirio che reputava Gesù Cristo un uomo profondamente devoto, Giuliano non vide in lui nessuna particolare qualità profetica. Il divieto di proselitismo fatto ai cristiani ed il provvedimento che impediva loro di svolgere attività pedagogiche (De magistris) sulla base dell’idea che non potessero insegnare una cultura che disprezzavano profondamente, non impedì comunque all’Imperatore di mostrare una relativa tolleranza nei loro confronti, tanto che spesso si preoccupò che non venisse fatta loro alcuna violenza.

[5]    R. Guènon, Simboli della scienza sacra, Edizioni Adelphi, Milano 1973, p. 282.

[6]    Ibidem, p. 279.

[7]    A. De Stefano, L’idea imperiale di Federico II, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1978, p. 42.

[8]    Si veda a tal proposito C. Mutti, L’Impero come “potere che frena”, su www.geopolitica.ru.

[9]    Scrive Dugin: “Così, alla testa vi è il Re filosofo che rappresenta un essere in cui non vi è individualità. Il Re filosofo, uno zar filosofico, non differisce sostanzialmente dall’incarnazione dell’Angelo […] Il Re è l’Angelo, l’intero popolo. Egli è una persona vera, superiore sia all’individuo, sia al collettivo o alla società”. 

[10]  Imperium. Epifanie dell’idea di Impero, ivi cit., p. 13.

[11]  M. Eliade, Storia delle idee e delle credenze religiose (Vol. I), BUR, Milano 1996, p. 124.

[12]  Imperium. Epifanie dell’idea di Impero, ivi cit., p. 14.

[13]  C. Mutti, La prospettiva eurasiatica di Franz Altheim, su www.eurasia-rivista.com.

[14]  Storia delle idee e delle credenze religiose, ivi cit., p. 323.

[15]  Imperium. Epifanie dell’idea di Impero, ivi cit., pp. 19-21.

[16]  Giuliano, come è noto, non introdusse niente di nuovo nella religiosità tradizionale romana. Il mito di Cibele ed Attis venne introdotto sin dai tempi delle guerre puniche. Di origine frigia, il mito narra la vicenda di Cibele, madre degli dei, che, trovato Attis addormentato sulle rive del fiume Sangarios, si innamora di lui e lo tiene con sé. Tuttavia, egli si innamora di una ninfa scatenando la collera di Cibele che lo fa impazzire. Attis, autoeviratosi, lascia la ninfa e torna a vivere da Cibele. Le festività legate al culto di Cibele ed Attis si svolgevano nei giorni dell’equinozio di primavera tra il 15 ed il 24 marzo e ad esse, dopo una certa data, erano intrinsecamente connessi dei riti misterici che promettevano all’iniziato l’immortalità.

[17]  Corpus Hermeticum (I, I).

[18]  Ibidem (IV, I).

[19]  Ibidem (XII, I).

[20]  Imperium. Epifanie dell’idea di Impero, ivi cit., p. 20.

[21]  H. Corbin, Storia della filosofia islamica, Edizioni Adelphi, Milano 1991, pp. 218-219.

[22]  G. Ostrogorsky, Storia dell’Impero bizantino, Einaudi, Torino 1993, p. 502.

[23]  A. Branwen, Ultima Thule. Julius Evola e Herman Wirth, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2007, p. 57.


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Daniele Perra a partire dal 2017 collabora attivamente con “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e con il relativo sito informatico. Le sue analisi sono incentrate principalmente sul rapporto che intercorre tra geopolitica, filosofia e storia delle religioni. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha conseguito nel 2015 il Diploma di Master in Middle Eastern Studies presso ASERI – Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Nel 2018 il suo saggio Sulla necessità dell’impero come entità geopolitica unitaria per l’Eurasia è stato inserito nel vol. VI dei “Quaderni della Sapienza” pubblicati da Irfan Edizioni. Collabora assiduamente con numerosi siti informatici italiani ed esteri ed ha rilasciato diverse interviste all’emittente iraniana Radio Irib. È autore del libro Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione, Prefazione di C. Mutti (NovaEuropa 2019).