(…) Albin Persae
Rhenumque bibunt (…)
(Seneca, Medea, 373-374)
“Sorelle di sangue, di una medesima stirpe”
Si dice che Ciro sia nato da Cambise, re dei Persiani; questo Cambise era della stirpe dei Perseidi e i Perseidi derivano questo nome da Perseo.
(Senofonte, Kyrou paideia, II, 1)
Nei Persiani di Eschilo, la regina madre Atossa racconta ai Fedeli della corte reale di aver visto in sogno suo figlio Serse che stava aggiogando ad un carro due donne in contesa tra loro, una delle quali era avvolta in panni persiani, mentre l’altra indossava l’abito dorico.
Mi parve che due donne ben vestite,
l’una abbigliata in pepli persiani
e l’altra in pepli dorici, si offrissero alla vista,
per statura assai più insigni delle donne attuali,
per bellezza irreprensibili e sorelle di sangue, di una medesima
stirpe; come patria, abitavano una l’ellenica
terra, avendola ottenuta in sorte, e l’altra quella dei barbari (vv. 181-187) (1).
La donna abbigliata in pepli dorici, che contende con quella in pepli persiani e rifiuta l’imposizione del giogo facendo cadere a terra il Gran Re, può simboleggiare Atene, vittoriosa a Salamina sulla flotta persiana. Come testimoniato da Erodoto (V, 88), il chitone dorico era diventato un abito femminile panellenico; al tempo in cui furono rappresentati I Persiani, infatti, oltre al chitone ionico (lungo fino ai piedi e fornito di maniche) le donne ateniesi indossavano anche il chitone dorico (corto e privo di maniche). Eschilo avrebbe menzionato l’abito dorico “perché le donne greche d’Asia, ma anche le persiane (…) indossavano il chitone ionico, che era pertanto inadatto a differenziare l’abito delle donne greche da quello delle donne persiane” (2). Ma la donna abbigliata in pepli dorici potrebbe benissimo indicare profeticamente “i Dori peloponnesiaci, che un anno dopo Salamina sconfiggeranno l’esercito terrestre dei Persiani” (3). In ogni caso, la visione notturna della regina allude al vano tentativo di Serse di pacificare un conflitto insorto fra due “sorelle di sangue, di una medesima stirpe” (kasignéta ghénous tautoû), entrambe stanziate sulla “terra dei padri” (pátra): l’una in Grecia e l’altra in “terra barbara” (gaîa bárbaros). Questo sintagma non implica alcun giudizio negativo, ma indica semplicemente un paese in cui non si parla greco: “come fosse un poeta arcaico – come Omero – Eschilo mostra qui di non conoscere il ‘barbaro’ della propaganda nazionalista, dell’oratoria e della storiografia” (4). D’altronde, “ritenere che i normali rapporti quotidiani fra greci e persiani fossero segnati e condizionati dai luoghi comuni sui barbari che ritroviamo nella tradizione ellenica darebbe un’immagine completamente errata di quei rapporti” (5); ed anche nel 472, mentre la tragedia eschilea dei Persiani trionfava ad Atene, “i confini tra la lega navale attica e i territori persiani nell’Asia minore occidentale erano molto più permeabili di quanto spesso si è ritenuto” (6). Tuttavia, col “sorprendente riferimento di Eschilo alla Persia e alla Grecia in guerra tra di loro come (…) ‘sorelle di sangue, della medesima progenie’” (7), i Persiani ci appaiono nella prospettiva di una straordinaria familiarità col mondo ellenico; viene infatti riaffermata quella nozione dell’affinità fra Greci e Persiani che nella parodo dei Persiani è stata proposta attraverso l’indiretta evocazione della figura di Perseo, antenato comune dei due popoli:
Irruente sovrano dell’Asia popolosa,
sospinge la mandria divina su ogni regione,
per due vie, confidando in saldi e duri condottieri
di terra e di mare, l’eroe pari agli dèi disceso d’aurea progenie (vv. 73-80).
Il sovrano in argomento è Serse, la stirpe del quale è detta da Eschilo “aurea”, in quanto la famiglia degli Achemenidi indicava il proprio capostipite in Perse, figlio di Perseo e di Andromeda; e Perseo era nato da Danae, che Zeus aveva ingravidata trasformandosi in pioggia d’oro. La discendenza dei Persiani da Perse è attestata anche in Erodoto: “Ma dopo che Perseo, figlio di Danae e di Zeus, giunse presso Cefeo figlio di Belo e sposò la figlia di lui Andromeda, gli nacque un figlio, al quale mise nome Perse; e lo lasciò lì, perché Cefeo si trovava ad esser privo di figliolanza maschile. Da lui dunque [i Persiani] ebbero nome” (Erod. VII, 61, 3). I nomi di Perseo e di Perse richiamano a loro volta quello di una delle ninfe che Teti partorì ad Oceano: Perseide. Esiodo la cita assieme alle sue sorelle, tra le quali troviamo Europa ed Asia (Theog., 337-361). Il vincolo che lega Greci e Persiani viene così ad inquadrarsi nel rapporto di parentela che unisce l’Europa all’Asia.
Quanto agli Achemenidi, probabilmente non è casuale l’omonimia che lega i discendenti del persiano Hakhamanish al greco Achemenide, il compagno di Odisseo che, incontrato da Enea su una spiaggia della Sicilia, prima di essere raccolto dall’eroe troiano gli si presenta con queste parole: “Sum patria ex Ithaca, comes infelicis Ulixi, – nomine Achaemenides” (Aen., III, 613-614). Ai lettori romani dell’Eneide doveva pur dire qualcosa il fatto che il pater Aeneas avesse imbarcato con sé un greco che portava lo stesso nome della dinastia fondata da Ciro il Grande.
Gli Sciti
Campestres melius Scythae,
quorum plaustra vagas rite trahunt domos, vivunt (…)
(Orazio, Carmina, III, 24, 9-11)
Nella geografia europea, uno degli elementi che più visibilmente attestano la parentela tra l’Europa e l’Asia, e in particolare tra l’Europa e il mondo iranico, è l’idronimia della regione a nord del Mar Nero. Origine iranica hanno infatti i nomi del Prut (avest. pæræthu- “ampio” e pærætu- “guado”), del Dnestr (iran. *dânu-nazdyô “fiume vicinissimo, dal di qua”), del Dnepr (iran. *dânu-apara- “fiume posteriore, dal di là” oppure âpra- “acqua profonda”), del Don e del Donec (avest. dânu-, osset. don “acqua, fiume”). Il medesimo elemento iranico dan-/don- compare negli idronimi d’origine non greca che designano il Danubio (Duna, Donau ecc.), mentre l’antico nome della Volga attestato in Tolomeo, Rha, è anch’esso di origine iranica. Ma pure la più antica denominazione greca del Mar Nero, ossia Póntos Axeinos (in cui il malaugurante áxeinos, “inospitale”, fu poi mutato in éuxeinos, “ospitale”) rinvia ad un aggettivo iranico che significa “oscuro, nero” (cfr. avest. akhshaêna-) (8). In quella stessa regione, tracce iraniche si sarebbero conservate anche in alcuni toponimi romeni come Iasi ed altri (9).
Per circa un millennio le steppe del Mar Nero e una parte dell’Europa sudorientale furono abitate da popoli di lingua iranica. Iranici, infatti, affini ai Tocari e ai Massageti, erano quei popoli che, dopo essere usciti dall’Asia centrale e dopo aver cavalcato le steppe a occidente degli Urali, tra l’VIII e il VII secolo si affacciarono sulle rive del Ponto. I Greci li chiamarono Skythai, Sciti, nome che venne usato in modo estensivo: “come quello dei Celti o degli Etiopi, e per le stesse ragioni, nell’antichità il nome Sciti è servito talora a designare una massa umana poco definita: tutto quel che viveva, stanziale o nomade, a Nord-Est dell’esperienza greca” (10). Al tempo di Augusto, la generica menzione dei “popoli della Scizia” accomuna tutte le tribù barbariche stanziate tra il Mar d’Azov e il Danubio: “qua Scythiae gentes Maeotiaque unda, – turbidus et torquens flaventis Hister harenas” (Verg., Georg., III, 349-350). Insomma, il termine “Scizia” in greco e in latino “smise di indicare un particolare ceppo linguistico di nomadi indo-iranici: si allargò fino a comprendere un’intera regione del mondo e una cultura mista irano-ellenica che includeva i Greci del Mar Nero, i Traci, gli Sciti e anche i Sarmati” (11). Nel VI secolo, il basileus bizantino Maurizio annoverava tra i popoli sciti perfino i Turchi e gli Avari (12). La Scizia fu dunque la punta avanzata di un mondo nomade che si estendeva dalla Cina all’Europa lungo le vie carovaniere dell’Eurasia, per cui la civiltà scitica non fu molto diversa da quella dei Saci, che nel I millennio a. C. avevano popolato l’attuale Kazakhstan, finché, “col passare dei secoli, probabilmente, il legame diretto fra le due ali estreme del mondo nomade perse importanza rispetto ad altri rapporti, e mentre gli Sciti d’Europa gravitavano verso la Tracia e le città greche del Ponto, i Saci erano sempre più legati alla Persia achemenide e alla Cina” (13). Sicuramente l’arte dei Traci e dei Geti rivela influenze iraniche che si spiegano col contatto diretto di questi popoli con gli Sciti d’Europa, ma non escludono nemmeno eventuali influenze provenienti dal mondo achemenide.
La regione anticamente abitata dagli Sciti corrisponde a quella vasta zona delle attuali Ucraina e Russia meridionale che nell’ampio excursus del libro IV di Erodoto viene delimitata dal Danubio ad occidente e dal Don ad oriente, dall’arco nord-occidentale del Mar Nero a sud e dalla steppa sconfinata a nord. “Essendo la Scizia un quadrato, di cui due lati si estendono fino al mare, sono perfettamente uguali il lato che porta nell’entroterra e quello lungo il mare” (Erod. IV, 101); centro di quest’ultimo, sulla riva destra del Bug, fu Olbia, la quale, fondata tra il VII e il VI secolo da coloni milesii, fiorì fino a diventare il capoluogo di una vasta e popolosa regione agricola. Nella descrizione erodotea, la Scizia è “una pianura ricca d’erba e di acque e vi scorrono fiumi in numero non inferiore ai canali dell’Egitto (…): l’Istro dalle cinque foci, e poi il Tire e l’Ipani e il Boristene e il Panticape e l’Ipaciri e il Gerro e il Tanai” (Erod. IV, 47). L’Istro (Istros) è il Danubio, il Tire (Týres) è il Dnestr, l’Ipani (Hýpanis) è il Bug (14), il Boristene (Borysthénes) è il Dnepr e il Tanai (Tánaïs) è il Don, mentre difficilmente identificabili rimangono il Panticape (Pantikápes), l’Ipaciri (Hypákyris) e il Gerro (Ghérros).
Al tempo di Erodoto, i popoli che abitano la Scizia sono diversi tra loro. Tra l’Ipani e il Boristene vivono i Callippidi e gli Alizoni, che hanno costumi simili agli Sciti; al di là degli Alizoni, gli Sciti agricoltori, e più oltre i Neuri. Gli Sciti agricoltori “abitano verso oriente per tre giorni di cammino, fino ad un fiume che ha nome Panticape, e verso nord per undici giorni di navigazione sul Boristene; la regione che sta oltre è deserta per lungo tratto. Dopo il deserto abitano gli Androfagi, che sono un popolo a sé e per nulla scitico (…) Per chi attraversa il fiume Panticape, a oriente di questi Sciti agricoltori abitano ormai gli Sciti nomadi, che non seminano né arano” (Erod. IV, 18-19). Questi Sciti nomadi vivono su un territorio che si estende verso est per due settimane di cammino, fino al fiume di incerta identificazione che Erodoto chiama Gerro. “Oltre il Gerro – egli scrive – ci sono le regioni chiamate ‘regie’ e gli Sciti più valorosi e più numerosi, i quali ritengono che gli altri Sciti siano loro servi. (…) Al di là degli Sciti regi, verso nord, abitano i Melancleni, stirpe diversa e non scitica. La regione al di là dei Melancleni è costituita da paludi ed è deserta di uomini, per quanto ne sappiamo. Per chi attraversa il fiume Tanai, non c’è più Scizia, ma il primo tratto di territorio è quello dei Sauromati” (Erod. IV, 20-21), cioè dei Sarmati (15). A est del Tanai, fra tante popolazioni che non hanno a che fare con gli Sciti, ci sono i Geloni, che secondo Erodoto sono una stirpe per metà greca e per metà scitica: “In origine, i Geloni sono Greci che, emigrati dagli empori, si sono stanziati fra i Budini; ed usano una lingua in parte scitica e in parte greca” (Erod. IV, 108). Altre tribù scitiche si trovano presso gli Urali.
Intorno al 500 a.C. cominciano gli attacchi dei cavalieri sciti contro le terre dei Traci e degli Illiri; seguendo il corso del Tibisco e del medio Danubio, arrivano nel sud della Slovacchia, da dove partono all’attacco contro le culture sedentarie della Moravia, della Slesia, del Brandeburgo, della Polonia settentrionale. “Ma si farebbe loro torto a indicare negli Sciti installatisi nell’Europa centrale dei meri distruttori; qui come nell’Europa orientale, furono il mezzo di trasmissione di apporti che avrebbero in seguito improntato le civiltà slave e celtiche (16). Verso la metà del IV sec. a. C., l’arrivo dei Sarmati nelle steppe a nord del Ponto provocò una ritirata degli Sciti: alcune tribù si rifugiarono in Crimea, dove rimasero fino alla fine del II sec. a. C. Un altro gruppo, guidato dal re Ateas (Aertes), giunse al delta del Danubio e cercò di impadronirsi della Dobrugia, ma Filippo II di Macedonia ricacciò gl’invasori con una campagna militare che si concluse nel 334 con la morte del sovrano scita ormai novantenne. A sua volta, anche Alessandro Magno inviò contro di loro una spedizione punitiva. Una nuova ondata di Sciti si abbatté sulla Dobrugia alla fine del III secolo: le numerose monete ritrovate tra Kallatis e Odessos (le attuali Mangalia e Varna) riportano effigi di sovrani dai nomi tipicamente iranici (Ailios, Kanites, Sariakes, Tanusa, Akrosas, Charaspes), i quali “avevano obbligato le città greche della regione a pagar loro, in cambio della protezione militare, un tributo” (17). Di queste dinastie sappiamo poco o nulla; quello che si può dire è che “la persistenza di gruppi scitici sull’area della Dobrugia fino agli inizi della dominazione romana è confermata dalle indicazioni dei geografi” (18) romani, i quali chiamarono Scythia minor e provincia Scythia il territorio compreso tra il Ponto e l’ultimo tratto del Danubio. Per Ovidio, esiliato a Tomis al tempo di Augusto, anche quel territorio era Scythica regio (Epistulae ex Ponto, II, 1, 3), nonostante l’elemento scitico fosse scomparso dalla Dobrugia da circa un secolo. Ancora nel Trecento, Dante chiamerà scitiche le popolazioni dell’Europa settentrionale: “… Scythas, qui extra septimum clima viventes et magnam dierum et noctium inaequalitatem patientes, intolerabili quasi algore frigoris premuntur” (De Monarchia, I, xiv, 9).
Il popolo scitico scomparve dalla storia come realtà etnica autonoma, ma non senza lasciare un’eredità all’Europa. Le tracce più consistenti della sua cultura rimasero a lungo visibili in Russia, dove il retaggio scitico si manifestò negli usi funerari degli Slavi, nell’artigianato contadino, nella decorazione delle chiese tardomedioevali. Influenze scitiche sono rintracciabili anche più ad occidente: nell’Europa centrale e nei Balcani, ma anche in Scandinavia e – attraverso i Sarmati – perfino in Britannia (19).
L’impero di Mithra
Deo Soli Invicto Mithrae fautori imperii sui
(Iscrizione votiva di Diocleziano e dei suoi colleghi a Carnuntum, anno 307)
Tra i numerosi principati e regni sorti dopo la morte di Alessandro Magno, in Europa il più importante fu il regno del Ponto, fondato sulla riva meridionale del Mar Nero da un nobile di stirpe iranica che nel 281 cominciò a regnarvi col nome di Mitridate I Ctiste. Nel 120, alla morte di Mitridate Filopatore, salì al trono Mitridate VI Eupatore, “uomo fortissimo in guerra, di valore eccezionale, grandissimo talvolta per la sua fortuna, ma sempre per il suo coraggio, un vero capo nelle decisioni e un vero soldato nell’agire” (Vell. Paterc., II, 18, 1). “Principe astuto ed ambizioso che riuniva la forza naturale del barbaro asiatico coi grandi gesti del re ellenistico, Mitridate, sulle orme del suo predecessore Farnace I, si sentiva chiamato a creare un vasto impero pontico” (20); impadronitosi ben presto della costa caucasica e della Crimea, nel 107 fu proclamato re del Bosforo Cimmerio; quindi conquistò Paflagonia, Galazia, Cappadocia e Bitinia e stabilì la propria sede a Pergamo. Intanto “uno dei suoi figli teneva sotto controllo il regno avito sul Ponto e sul Bosforo, fino ai deserti al di là della Meotide, senza nessuna opposizione; l’altro, Ariarate, con un grande esercito al suo comando, era entrato in Tracia e in Macedonia, mentre i capi degli eserciti sottomettevano altre regioni (allous topous echeirounto)” (Plutarco, Vita di Silla, xi). Venuto a scontro coi Romani nell’89, conquistò l’Asia Minore, le isole dell’Egeo (tranne Rodi) e la Grecia, ma fu sconfitto da Silla e da Fimbria nell’85. Uscì invece vittorioso dalla seconda fase del conflitto (83-81), mentre la terza fase (74-64) fu vinta da Lucullo e da Pompeo, sicché Mitridate dovette rinunciare anche al Ponto. Rifugiatosi nel regno dei Bosporani, Mitridate meditava di assalire l’Italia da nord, risalendo il Danubio; ma la malattia e la rivolta del figlio Farnace lo indussero a togliersi la vita, nel 63. Farnace regnò sul regno bosporano; ma durante la guerra civile tra Cesare e Pompeo si spinse ad occupare gran parte dell’Asia Minore, finché Cesare nel 47 lo sconfisse a Zela. Sorse comunque una nuova dinastia, anche questa di origini iraniche, che accettò la sovranità romana e regnò a Panticapeo, sulla cima del monte Mitridate, fino all’arrivo degli Unni.
Il nome Mithridates o Mithradates, che ricorre con una certa frequenza nell’onomastica e nella toponomastica del Ponto, della Cappadocia, dell’Armenia e della Commagene, “mostra la devozione che questi re professavano per Mithra” (21) e ci rivela l’origine della diffusione del mithraismo nel mondo romano. Infatti “fu proprio durante le lunghe campagne in Asia Minore, contro od a favore dei vari re ellenistici, alcuni dei quali di stirpe regale iranica, come Mithridate Eupatore o Antioco II di Commagene ai tempi di Silla e Pompeo, che i Romani appresero alcuni elementi ideologici riguardanti la persona sacra del sovrano e delle supreme gerarchie dello Stato ed assaporarono pure il significato mistico e religioso che li circondava, mentre i loro ufficiali venivano iniziati ai riti, essenzialmente iranici ancorché ellenizzati, di Mithra ed Anahita” (22).
Lucio Cornelio Silla (138-68), che “passando per Delo aveva potuto leggere sulle basi di statue ritrovate da noi moderni le iscrizioni che onoravano in Mitridate un’incarnazione di Dioniso” (23), secondo Carcopino avrebbe concepito il progetto di instaurare una regalità teocratica fin dal 92 a. C., quando “un Caldeo, un uomo del seguito di Orobazo, osservato il volto di Silla e studiati attentamente i moti dell’animo e del corpo, esaminatane l’indole naturale (physis) secondo i principi della sua arte, disse essere destino ineluttabile (anankaion) che quell’uomo diventasse grandissimo” (Plutarco, Vita di Silla, v). Carcopino ipotizza che, come “i marocchini dei tempi nostri direbbero che egli possedeva la loro baraka” (24), così “i seguaci di Mitra, che popolavano gli Stati di Mitridate, ci avrebbero rivelato che egli era avvolto nel nembo del loro hvarenô” (25). Pio Filippani Ronconi, da parte sua, ha intravisto nell’episodio narrato da Plutarco la presenza di magi persiani che “dichiararono di riconoscere aleggiare sul capo del generale romano la sacra aura della regalità data da Anahita e come un re iniziato e legittimo lo riconobbero” (26); sempre secondo Filippani, l’epiteto di Felix, solennemente assunto da Silla nell’82, è un “possibile calco semantico del persiano baghô-bakhta” (27), mentre il titolo di Epaphroditos, che figura nei documenti inviati da Roma alle città greche, ricorda il vincolo che univa Silla alla “personificazione guerriera di Afrodite – la iranica Anahita, ‘l’Immacolata’ – emblema della terribile presenza dello khvarenah” (ibidem). Successivamente, Pompeo votò un tempio a Venus Victrix, “indubitabile calco di Anahita, al cui culto era stato probabilmente iniziato dal suo amico Antioco di Commagene, che (come Mithridate) pretendeva discendere dagli Achemenidi” (28), ed un altro santuario venne eretto a Venus Genetrix da Giulio Cesare, il quale rivendicava la propria discendenza dalla Dea attraverso Enea ed Ascanio, nome questo in cui riecheggerebbe il patronimico dei re parti, Ashkan. Parimenti, il titolo che il Senato conferì ad Ottaviano nel 27 a. C., Augustus, “costituisce la traduzione e perfino la trasposizione fonetica dell’avestico aojishta, che in detta lingua indica ‘possessore di energia trabordante’, qualità che si attribuiva alle Fravashi e ai geni delle personalità di rilievo” (29).
I misteri di Mithra, come è noto, si diffusero su tutti i territori dell’Impero romano, dall’Anatolia alla Spagna alla Britannia. Già nel I secolo d. C. sorgono in Italia alcuni mitrei, ma è nel II secolo che il dio iranico “comincia la marcia trionfale che lo porterà fino al Campidoglio e al Palatino” (30), fino a identificarsi, sotto Aureliano (270-275), col divino sovrano dell’Impero, Sol Invictus. Fallito il tentativo di restaurazione religiosa intrapreso da Giuliano (361-363), l’imperatore teologo che si identificò col “buon pastore al quale era imposta la morale di Mithra” (31), il mithraismo scomparve. Ambrogio, vescovo di Milano (374-397), “parla solo una volta di Mitra e pensa che si tratti di una dea” (32).
I Sarmati
At mihi Sauromatae pro Caesaris ore videndi
terraque pacis inops undaque vincta gelu.
(Ovidio, Ex Ponto, II, 93-94)
Il trattato ippocratico Delle arie, delle acque, dei luoghi ci informa sui particolari costumi delle donne dei Sauromati, le quali tirano d’arco e di giavellotto, agevolate dal fatto che sono prive del seno destro: “quando sono bambine ancora in tenera età, le loro madri arroventano un arnese di bronzo appositamente costruito e glielo pongono sulla mammella destra, che viene cauterizzata” (De aeribus, 17). Abbiamo qui un’eco della leggenda, già accolta da Erodoto, secondo la quale i Sauromati – il primo contingente di Sarmati che arrivò sul Mar Nero – avrebbero tratto origine dall’unione dei giovani Sciti con le Amazzoni; perciò usano anch’essi la lingua scitica, ma la inquinano con solecismi, dal momento che le Amazzoni non erano riuscite ad impararla per bene (Erod. IV, 110-117). Alla leggenda che fa discendere i Sarmati dalle Amazzoni corrispondono i dati forniti dall’archeologia: in una tomba del III secolo a. C., venuta alla luce a Zemo-Avchala nei pressi di Tbilisi, era stata inumata con le sue armi una donna guerriera. I Sarmati, come d’altronde anche gli Sciti, dividevano l’autorità politica e militare tra uomini e donne. “Le donne sarmate sepolte vicino al fiume Molocnaja giacciono vestite con corsaletti di armatura a piastre, accanto a lance, spade o frecce. La giovane principessa sarmata sepolta a Kobjakov col suo tesoro di monili religiosi – un intero pantheon iranico di animali e figure umane d’oro – aveva la propria ascia da guerra posata nella tomba vicino ai finimenti dei suoi cavalli” (33).
Quello che Erodoto dice circa l’uso della lingua scitica da parte dei Sauromati si spiega col fatto che i Sarmati – menzionati nell’Avesta col nome di Sairima – avevano uno stretto rapporto con gli Sciti; lo scitico e il sarmatico, due varianti di una lingua iranica più affine al sogdiano o al pashtu che non ai dialetti della Persia achemenide, sono stati continuati dall’osseto ancor oggi parlato nel Caucaso, sicché “i due dialetti dell’osseto, l’iron e il digor, un po’ più arcaico, fanno parte dello scitico allo stesso titolo per cui l’italiano e lo spagnolo fanno parte della latinità” (34). Gli odierni Osseti, presso i quali il Gunther rilevò “la presenza di tratti nordici (…) in ragione della loro altezza, dell’alta percentuale di biondi (30%) e dei loro occhi chiari” (35), sono dunque i discendenti dei Sarmati e più precisamente degli Alani, ma bisogna aggiungere che “nella composizione di questo popolo dovettero entrare anche gruppi etnici locali, genuinamente ‘caucasici’, come rivelano elementi della sua lingua e della sua cultura” (36).
Il popolo sarmatico, che tra il V e il IV secolo cominciò a muovere verso occidente e a partire dal III secolo invase l’Europa orientale, nell’epoca ellenistico-romana appare costituito di diversi raggruppamenti tribali. Sulle rive orientali del Mar d’Azov si insediarono i Siraci, i quali fornirono ventimila cavalieri quando Farnace allestì la spedizione d’Asia minore; a sudest del loro territorio presero stanza i discendenti dei Massageti, gli Alani, che erano partiti dalle steppe del Lago d’Aral; lo spazio compreso tra il basso corso della Volga, le coste nordoccidentali del Caspio e l’estuario del Don venne occupato dagli Aorsi, i quali furono in grado di fornire a Farnace duecentomila cavalieri, “e gli Aorsi dell’interno anche di più” (Strabone, XI, 5, 8); tra il Don e il Dnepr andarono ad abitare i Rossolani, che prima mossero guerra contro Mitridate il Grande, poi si allearono con lui contro i Romani e all’inizio del II secolo d. C. si allearono ai Daci contro Traiano; tra il Dnepr e il Dnestr si stabilirono gli Iazigi, che verso il 20 d. C. ricevettero da Roma il permesso di insediarsi nella pianura del Tibisco, “se non furono addirittura spinti a farlo dai Romani” (37), dei quali divennero alleati contro i Daci. Secondo alcuni autori, gli Iazigi avrebbero assoggettato la tribù autoctona dei Limiganti (38); in ogni caso, alla fine del IV secolo la tempesta unna fece sparire gli Iazigi dalla Dacia. Nella regione del Ponto sorse così una confederazione di tribù sarmatiche, sicché agli inizi del II secolo a. C. la dominazione degli Sciti era definitivamente tramontata.
Insomma, nel II secolo a. C. ebbe inizio “un movimento a vasto raggio, che (…) si estese dai confini settentrionali della Cina fino al Danubio. Il suo carattere unitario è confermato dai reperti archeologici. Specchi cinesi del periodo degli Han e impugnature di spada in giada, tutti oggetti provenienti dalla Cina, sono stati trovati nelle tombe sarmatiche delle regioni del Kuban e del Volga: viceversa, la staffa di origine sarmatica risulta usata nella Cina degli Han, ma anche in India dal II al I secolo” (39).
La straordinaria espansione dei Sarmati fu dovuta alla loro potenza militare: armati di spade, lance, archi e frecce, i cavalieri sarmati indossavano una maglia di ferro oppure un’armatura di cuoio rivestita di scaglie di bronzo e si proteggevano il capo con un elmo parimenti di bronzo. Dai frequenti rinvenimenti di corazze di maglia nelle tombe sarmatiche si può dedurre che i Sarmati “adottarono un sistema di cavalleria pesante, adatto tanto allo scontro ravvicinato quanto al combattimento a distanza” (40). Nei primi due secoli d. C. i Sarmati controllavano l’area compresa tra la Volga e il Danubio. Stabilitisi tra i Carpazi e il Danubio nei primi decenni del I sec. d. C., nel corso delle due guerre daciche combattute da Traiano i Sarmati si schierarono a fianco dei Daci contro i Romani; premuti dagli Alani, si insinuarono tra la Dacia e la Pannonia, finché nel 175 Marco Aurelio ne arruolò 8.000 nell’esercito romano.
In questo periodo cominciò a diffondersi lo stile animalistico sarmatico: se la falera bronzea rinvenuta a Siverskaja Stanica, primo esemplare del tema iconografico dell’uomo trionfatore sugli animali, risale alla cosiddetta “civiltà unno-sarmatica” del III secolo a. C. (41), verso la fine della fase mediosarmatica (I sec. a. C. – II sec. d. C.) lo stile animalistico, tipico di quell’arte delle steppe che si diffuse dalla Cina alla puszta ungherese, si presenta in un contesto molto diverso: “appare nelle sepolture ricche, di uomini e donne, ed è concentrato esclusivamente su oggetti d’ornamento di metallo prezioso, come i collari” (42). E’ questo il periodo più rigoglioso della cultura dei Sarmati: lo stile animalistico sarmatico è contrassegnato dalla policromia, dai lavori a traforo, dai rilievi artisticamente modellati. “La principale caratteristica di questo stile è l’uso di inserire materiali colorati per riprodurre i muscoli delle spalle e delle cosce, gli occhi, le orecchie, gli zoccoli, le zampe e, talvolta, le costole come, per esempio, nella figura di animale sulla placca d’oro proveniente dal tumulo di Verchnee Pogromnoe. Il pelo e il piumaggio delle creature alate sono resi da incisioni a falce, da cilindri con brevi e profondi tagli o con puntini applicati” (43). In seguito i Goti portarono con sé, nelle loro scorrerie attraverso l’Europa, “le gioiellerie policrome e gli oggetti di metallo, disseminandoli, insieme agli elementi scito-sarmatici su cui si basavano, su molte regioni lontane. In questo modo lo stile animalistico risorse dapprima in Romania, poi in Austria, poi in Renania, da cui viaggiò insieme ad altri elementi, fino in Inghilterra” (44).
Nel corso del III secolo, per effetto dell’arrivo dei Goti nei territori a nord del Mar Nero, i Sarmati si divisero in un gruppo orientale e uno occidentale; alcuni nuclei saccheggiarono i territori periferici dell’impero, altri si allearono con Roma. Costantino ne trasferì 300.000 nelle province romane; fu sotto il suo principato, o sotto quello di Costanzo II, che numerosi gruppi di Sarmati Gentiles si insediarono nell’Italia superiore. Alla colonia militare sarmatica stabilitasi nel territorio di Torino risalgono gli stanziamenti di Sarmatorio (presso Fossano), Sarmazia (nel Valenzano), Sarmage (presso la Stura), Sarmaceto (presso il Sangone), Salmorenc (presso Montanaro), Sarmazza (presso Gassino), Salmacetta (presso Caramagna). La toponomastica italiana rivela insediamenti sarmatici anche a Salmour (Vicus Sarmatorum, nel cuneese), a Sarmato (Sarmatae, nel piacentino), a Sermide (nel mantovano), a Sarmede (Sarmatae, nel trevigiano), a Sarmeola di Rubano (Sarmaticula) e a Sermazza di Vigonovo (due località del padovano); toponimi, questi, ai quali corrisponde il francese Sermaize (Sarmaticum). A un insediamento di Alani risale invece, in provincia di Pavia, l’origine di Alagna. Nell’VIII secolo, mentre ricordava come nel 568 Alboino avesse condotto in Italia assieme ai suoi Longobardi anche gruppi di barbari appartenenti a diverse altre popolazioni, Paolo Diacono (Historia Langob., II, 26) scriveva che al suo tempo molti villaggi venivano chiamati coi nomi di quelle popolazioni: Gepidi, Bulgari, Pannoni, Svevi, Norici – e Sarmati.
Spostiamoci nel nord dell’Europa. Quei cavalieri sarmati che agli inizi del III secolo si stabilirono nell’odierna Polonia meridionale erano probabilmente la popolazione sarmatica degli Anti. “Accanto ai propri morti seppellivano ceramiche lavorate al tornio provenienti dalla sponda settentrionale del Mar Nero, spille sarmatiche e lance con la punta di ferro intarsiata d’argento (…) e i resti della loro cultura materiale mostrano che erano stati a lungo e strettamente in contatto con il Regno del Bosforo” (45), sul quale regnava una dinastia di origini iraniche.
Tale contatto è testimoniato dai tamga (marchi simboleggianti particolari famiglie e tribù), che gli Anti (ed altre tribù sarmatiche) mutuarono dagli abitanti del Bosforo Cimmerio durante la loro permanenza in quella regione. Infatti “quasi tutti i tamga che si conoscono sono stati ritrovati nel territorio del Bosforo, e la maggioranza di essi nelle città greche” (46), incisi su oggetti rituali e sulle pareti di tombe risalenti al I secolo d. C. Tamga analoghi “ricorrono anche nelle tombe sarmatiche sparpagliate per la Polonia, incisi sulla pietra o intarsiati in argento su punte di lancia di ferro. La loro area di diffusione va dall’Ucraina, inclusa la regione di Kiev, a ovest fino alla Slesia, e per come le tombe si distribuiscono e per la loro datazione sembra cheripercorrano il tragitto delle migrazioni sarmatico-alane” (47). Data la somiglianza dei tamga sarmatici con le insegne araldiche di antiche famiglie polacche, tra il XVI e il XVII secolo si diffuse in Polonia la convinzione che la szlachta, la nobiltà locale, traesse origine dai Sarmati. Se nel 1517 il Tractatus de duabus Sarmatiis Asiana et Europeana di Maciej Miechowita (1457-1523) identificava i Sarmati con i Russi, Jost Ludwik Decjusz (1485-1549) individuava nei Polacchi l’autentica progenie dei Sarmati, sicché il massimo esponente della poesia rinascimentale polacca, Jan Kochanowski (1530-1584), poteva celebrare gli Slavi quali eredi delle Amazzoni, mentre nel 1555 un trattato di Marcin Kromer (1512-1589) sviluppava la tesi di una simbiosi slavo-iranica.
Se la Polonia cinquecentesca produsse il mito sarmatico, la Russia del Novecento diede nascita allo scitismo (skifstvo). Il poeta simbolista Valerij Brjusov (1873-1924) “in una poesia del 1900 intitolata Gli Sciti (Skify) affermava con veemenza di sentirsi discendente di questi nomadi iranici, antichi dominatori delle steppe russe” (48), mentre in un poemetto omonimo un altro simbolista, Aleksandr Blok (1880-1921), declamava: “Sì, siamo sciti! Sì, siamo asiatici, – con occhi a mandorla e avidi!” Un anno prima, nel fatidico 1917, per iniziativa di Ivanov-Razumnik (1878-1946) era nata la rivista “Skify”, dalla quale la “missione ‘scitica’, barbarica ma creativa, veniva ora attribuita ai Russi, chiamati a salvare con la loro rivoluzione universale l’umanità intera dal dominio dell’elemento filisteo” (49).
Tornando alle vicende storiche degli Anti, alla metà del secolo IV li troviamo stanziati fra le sorgenti del Bug e del medio Dnepr, dove vivevano in un’organizzazione sociale gerarchizzata. Giordane (Getica, v, xxiii) ci informa che la “numerosa nazione dei Vinidi” (Winidarum natio populosa), insediata tra il fianco orien tale dei Carpazi e l’alta Vistola, è costituita di due gruppi principali: gli Sclaveni e gli Anti (Sclavini et Antes). Vinidi, Anti e Sclaveni, per quanto abbiano nomi diversi, sono usciti da un’unica tribù (ab una stirpe exorti, tria nunc nomina reddidere, id est, Veneti [sic], Antes, Sclavi). Gli Anti, che tra i Vinidi sono i più forti (sunt eorum fortissimi), occupano la riva del Mar Nero compresa tra il Dnestr e il Danubio. Procopio di Cesarea, dal quale apprendiamo (La guerra gotica, I, 27; IV, 4) che nel V secolo “Unni, Sclaveni ed Anti erano insediati oltre l’Istro, non lontano dalle sue rive” e che “innumerevoli tribù di Anti” erano stanziate oltre il territorio degli Utiguri, ossia a nord delle steppe del Mar d’Azov, dedica un breve excursus (III, 14) al modo di vita degli Anti, che fin da epoche remote è il medesimo degli Sclaveni. Anti e Sclaveni, scrive Procopio, non hanno un governo monarchico, ma discutono in assemblea le singole questioni che si presentano loro. E prosegue: “Sono monoteisti, credono che il creatore del fulmine sia il creatore di tutte le cose e a lui sacrificano buoi e vittime d’ogni sorta. (…) Venerano tuttavia anche fiumi, ninfe ed altri démoni; pure a questi sacrificano, ricavando responsi oracolari da tali sacrifici. (…) Quando vanno a combattere, la maggior parte di loro avanza a piedi contro il nemico, impugnando piccoli scudi e giavellotti, ma non indossano corazze. (…) Entrambi i popoli hanno la medesima lingua, totalmente barbara. Non sono diversi gli uni dagli altri neanche nell’aspetto (…) In realtà Sclaveni ed Anti avevano anticamente un medesimo nome, poiché si chiamavano Spori”.
Nel periodo di Giustiniano I (527-565) Sclaveni ed Anti, dopo aver vagato come pastori nomadi a nord del Danubio, devastarono le province balcaniche di Bisanzio; sembra tuttavia che “prima della morte di Giustiniano gli Antae fossero diventati foederati dell’Impero” (50). Dopo la disfatta che venne loro inflitta dagli Avari sul principiare del VII secolo, gli Anti parteciparono attivamente all’espansione degli Slavi nei Balcani. “Quelli fra gli Anti che restarono nel territorio dell’attuale Ucraina contribuirono alla genesi delle tribù dello Stato di Kiev, nei secoli VIII-IX” (51).
Gli Alani
Cui natura breves animis ingentibus artus
finxerat, immanique oculos infecerat ira.
(Claudiano, De bello gothico, 584-585)
Procopio di Cesarea (La guerra gotica, I, 1) riteneva che gli Alani fossero una popolazione gotica, una di quelle che i Bizantini avevano indotte ad allearsi con loro. Più correttamente, Luciano di Samosata aveva affermato che gli Alani erano affini agli Sciti nella lingua e nell’abbigliamento, “solo che gli Alani non portano i capelli lunghi, come invece gli Sciti” (Luciano, Tossari o l’amicizia, 51). Infatti gli Alani erano una tribù sarmatica, la più forte, che aveva assunto il ruolo di guida degli altri Sarmati. Secondo Ammiano Marcellino si chiamavano così “dal nome dei monti” (ex montium appellatione, Amm. Marc. XXXI, 2, 13), ossia dei monti Alani, la catena collinosa a nord del Lago d’Aral che oggi reca il nome russo di Gory Mugodzhary. Sembra invece che il nome degli Alani (presente nelle cronache armene nella forma Alwank’ , in quelle arabe come al-An, in quelle cinesi del periodo Han come Alan) indichi che “si trattava di Ariani (antico persiano: aryanam); ha il medesimo significato della parola Iran. La loro lingua faceva parte di un gruppo che comprendeva ad oriente il sogdiano e il saco, nonché i dialetti parlati ancor oggi nel Pamir” (52). Gli Alani erano i discendenti dei Massageti: “Massagetas, quos Alanos nunc appellamus” e “Halanos (…) veteres Massagetas” (Amm. Marc., XXIII, 5, 16 e XXXI, 2, 12). Così scrive Ammiano Marcellino, secondo il quale “gli Alani poi sono quasi tutti alti e belli, con i capelli piuttosto biondi, terribili per lo sguardo bieco, veloci grazie all’armatura leggera, pressoché simili agli Unni nel complesso, ma più miti nel tenor di vita e nell’abbigliamento. Rapinando e cacciando, corrono qua e là, fino alle paludi meotiche e al Bosforo Cimmerio, nonché fino all’Armenia e alla Media. E come alle persone quiete e pacifiche dà piacere il riposo, così a loro piacciono i pericoli e le guerre” (Amm. Marc. XXXI, 2, 21-22). Il culto della spada e il procedimento divinatorio che Ammiano attribuisce agli Alani sono molto simili a quelli che Erodoto (Erod. IV, 62 e 67) attribuisce agli Sciti: “Presso di loro non si vede né un tempio né un santuario, né si può scorgere in alcun luogo una capanna coperta di paglia, ma secondo l’uso barbarico viene piantata nel suolo una spada nuda e con grande rispetto venerano questa come Marte, protettore delle regioni che abitano tutt’intorno. Presagiscono il futuro in un modo strano. Raccolgono verghe di vimini ben diritte e, scegliendole con certi incantamenti segreti in un periodo prestabilito, vengono a sapere chiaramente che cosa si preannuncia” (Amm. Marc., XXXI, 2, 23-24).
Nel I secolo d. C. gli Alani invasero le steppe settentrionali del Caucaso e dilagarono nella regione a nord del Danubio. Nel II secolo invasero la Media, l’Armenia e la Cappadocia e parteciparono alle guerre dei Marcomanni lungo il medio Danubio. Nel 175, durante il principato di Marco Aurelio, 5.500 catafratti alani e iazigi furono trasferiti dalla Pannonia in accampamenti stabili in Britannia (a Ribchester nel Lancashire, a Chester e altrove); “se un giorno si stabilirà che esiste un gene caratteristico degli Indo-iranici, una ricerca sui campioni di DNA nell’entroterra di Preston potrebbe rivelare che i Sarmati, in un certo senso, sono ancora tra noi” (53). Alla presenza di queste enclaves alane nella parte settentrionale della Britannia romana, sopravvissute fino al V secolo, è stata ricondotta la presenza di elementi iranici in alcune saghe medioevali (54). In particolare, è stata sostenuta l’esistenza di una connessione tra la cultura sarmatica e la leggenda di Re Artù.
Alla metà del IV secolo, quando gli Unni dilagano nel bacino della Volga, gli Alani vengono fiaccati e sottomessi: “Alanos quoque pugna sibi pares, sed humanitatis victu formaque dissimiles, frequenti certamine fatigantes subjugavere” (Giordane, Getica, xxiv). Il popolo sconfitto è costretto a seguire i nuovi invasori fino alla Palude Meotide e ad aiutarli, verso il 370, contro gli Ostrogoti di Ermanarico. Assieme agli Unni e agli Ostrogoti, gli Alani passano il Danubio e partecipano alle incursioni nella Mesia; il 9 agosto 378, nella battaglia di Adrianopoli, la cavalleria alana guidata da Safrace dà un contributo determinante alla sconfitta dell’esercito dell’imperatore Valente. L’anno seguente, Unni, Goti ed Alani vengono respinti a nord dei Balcani, ma nel 380 depredano la Pannonia. Nel 407 moltitudini di Alani, Vandali e Svevi superarono la resistenza dei Franchi alleati dell’Impero, “portarono la devastazione tra le popolazioni al di là delle Alpi e, dopo aver fatto una grande strage, seminarono il terrore tra gli eserciti della Britannia” (Zosimo, Storia nuova, VI, 3-4). Arrivati nel 409 nella penisola iberica e sconfitti da Vallia, re dei Visigoti, gli Alani “si concentrarono nella porzione mediana del paese” (55), mentre anche in Gallia sorsero piccoli regni alani, come ci testimonia una trentina di toponimi francesi, tra cui quello di Alençon. Attila cercò di ridurre in proprio potere questi Alani che si erano insediati in Gallia: Alanorum partem trans flumen Ligeris considentem statuit suae redigere ditioni (Giordane, Getica, xliii); ma Torrismondo, re dei Visigoti, lo costrinse ad abbandonare il territorio gallico. Cinquant’anni fa uno storico turco, R. S. Atabinen, pensava che i caratteri mongolici dei Bigouden bretoni fossero dovuti alla componente turcica di un gruppo di Alani stanziato tra Rennes e Josselin.
Cavalieri alani erano stati comunque arruolati nell’esercito imperiale: quella sorta di libro araldico del tardo impero romano che è la Notitia dignitatum registra un’insegna alana, “un disco issato su un’asta” (56). Tra gli Alani che militarono al servizio dell’Impero ve ne fu uno che per un certo periodo fu arbitro delle sorti del trono di Costantinopoli: nel 450, quando Teodosio II morì senza lasciare eredi maschi, il magister militum Aspar, che era stato console nel 434 e godeva di una grande popolarità presso i federati, ma non poteva salire al trono a causa della sua fede ariana, impose come marito alla sorella del defunto imperatore il capo dei propri buccellarii, Marciano. Alla morte di Marciano, Aspar lo rimpiazzò con un altro dei suoi protetti, il tribuno Leone, progettando di farlo regnare finché il proprio figlio Patrizio raggiungesse l’età adatta per succedergli. Ma Leone decise di liberarsi della tutela di Aspar e degli Ostrogoti alleandosi con gl’Isaurici. “In seguito la stella di Aspar rifulse nuovamente: e suo figlio Patrizio ottenne la mano della seconda figlia dell’imperatore e nonostante la sua origine straniera e la sua fede ariana venne dichiarato erede presuntivo al trono e nominato Cesare. Ma ben presto a Costantinopoli sorse di nuovo un movimento antigermanico e nel 471 scoppiò una rivolta in cui Aspar e suo figlio Ardabur vennero assassinati” (57). Patrizio non riuscì a sedere sul trono di Costantinopoli; se è vero ciò che si legge nella Historia Augusta (Giulio Capitolino, Vita dei due Massimini, I) l’unico imperatore di origini parzialmente alane rimane dunque Massimino il Trace (235-238).
Altri gruppi di Alani si stabilirono sulle rive dell’Elba, dove soggiogarono le popolazioni slave. “Una di queste conquiste era destinata ad avere un forte impatto sulla storia futura. In alcune iscrizioni ritrovate sul Don, si leggono le parole Choroatus e Chorouatos (Croato). Sembra che questo termine in origine indicasse un gruppo di guerrieri alani che per un po’ era vissuto nelle steppe del Mar d’Azov e poi era emigrato di nuovo verso nord-ovest. Là questi guerrieri prima soggiogarono e poi si fusero con popoli di origine slava che vivevano lungo il corso superiore della Vistola e nella Boemia settentrionale. Alcune cronache arabe e bizantine del decimo secolo parlano di un popolo chiamato Belochrobati (Croati bianchi) che viveva in quella regione, i cui re bevevano latte di cavalla e i bambini subivano la fasciatura della testa” (58). L’usanza di fasciare la testa dei bambini per farle assumere una forma ovoidale era stata insegnata dagli Unni agli Alani; e in Crimea gli Alani conservarono questa usanza fino al XVII secolo, quando vivevano come cristiani ortodossi nel khanato tartaro.
Se i Croati d’origine alana si stabilirono nella regione che da loro si chiamò Croazia, così anche un altro gruppo di Alani prese stanza in un territorio dei Balcani: si tratta di quei Serbi che nel secolo III avevano abitato la steppa tra il Volga e il Don e nel V secolo erano apparsi sulla sponda orientale dell’Elba, dove si erano fusi con le popolazione slave. Una parte di questi Serbi d’origine alana rimase lassù, nell’odierna Sassonia, dove vivono gli attuali Serbi di Lusazia, mentre un’altra parte si trasferì, per l’appunto, nella regione a sud del Danubio che da loro prese il nome di Serbia.
Gli Alani furono parte integrante dell’entità protobulgara che diede vita al primo regno di Bulgaria, sicché per il loro tramite pervenne al nuovo Stato un’eredità permeata di elementi iranici: molti khan protobulgari portavano nomi iranici, così come iranico è il nome del primo re di Bulgaria, Isperich (681-702). “Giunta al massimo splendore nelle steppe della Russia meridionale, la ‘Grande Bulgaria’ aveva moltiplicato i vincoli con l’Iran sasanide. Lo stesso khan Kuvrat, padre di Isperich, intensificò gli scambi commerciali e diplomatici con le grandi città del Khorezm e dell’Asia centrale” (59).
Un altro popolo che nella sua etnogenesi ha ricevuto il contributo degli Alani è quello ungherese. I primi contatti fra le tribù magiare e “una o più popolazioni iraniche, quelle genti indoeuropee cioè, che le prime fonti storiche designano col generico appellativo di ‘Sciti’ ” (60) ebbero luogo probabilmente sulle rive del Caspio, cosicché da “una lingua che si ritiene alano-antico ossetica” (61) passarono nel lessico ungherese diversi prestiti : tehén (“mucca”), tej (“latte”), tiz (“dieci”), kard (“spada”) ecc. Dell’antico rapporto dei Magiari con gli Alani ci parla d’altronde una delle più importanti leggende nazionali ungheresi, quella del “cervo prodigioso” (A csodaszarvas) (62). I due figli di Nemrod, Hunor e Magyar, inseguendo un cervo meraviglioso arrivarono a una palude (la Palude Meotide) e lì vicino scoprirono un luogo adatto all’allevamento. Varcati in seguito i confini di quel territorio, si imbatterono in un gruppo di fanciulle che danzavano in tondo; due di loro erano di una bellezza splendida: erano le figlie di Dul, principe degli Alani. I due principi rapirono le due principesse e i loro guerrieri fecero altrettanto con le altre fanciulle; da Hunor e dai suoi uomini ebbero origine gli Unni, da Magyar e dai suoi i Magiari (63). Un fatto storico è che nei secoli XIII e XIV una popolazione d’origine alana chiamata in ungherese Jászok (Iazigi), si stabilì in quella parte dell’Ungheria che da loro prese il nome di Jászság; il loro idioma, “un dialetto (…) prossimo all’osseto e, più specificamente, al digor” (64), era ancora vivo nel secolo XV. Nel 1868, quando Francesco Giuseppe si recò in Ungheria per cingere la corona di Santo Stefano, nel corteo spiccavano i drappelli degli Iazigi e dei Cumani; con le loro cotte di ferro e pelli d’orso, con le teste di animali o corna di bufalo che portavano sul capo a scopo ornamentale, i discendenti delle antiche popolazioni iraniche e turche che si erano stanziate in Ungheria “richiamavano alla memoria i tempi in cui l’Europa cristiana doveva difendersi dalle invasioni dell’Oriente pagano” (65). Presso gli Ungheresi non è mai svanita la consapevolezza dell’apporto dato dai popoli iranici alla formazione della loro nazione: per Endre Ady (1887-1919) i Carpazi erano “l’altezza scitica” (a szittya magasság) e i nazionalisti magiari fieri della loro provenienza orientale erano per lui “una schiera scitica che ha odore di Iran” (egy Irán szagú szittya sereg).
NOTE
1. La traduzione, come quelle dei brani successivi, è mia.
2. H. D. Broadhead, The Persae of Aeschylus, Cambridge 1960, p. 77.
3. Raffaele Di Virgilio, Il vero volto dei Persiani di Eschilo, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1973, p. 26.
4. Monica Centanni, Note di commento a: Eschilo, I Persiani, Feltrinelli, Milano 1991, p. 106.
5. Josef Wiesehofer, La Persia antica, Il Mulino, Bologna 2003, p. 35.
6. Josef Wiesehofer, ibidem.
7. Jean Haudry, Gli Indoeuropei, Edizioni di Ar, Padova 2001, p. 168.
8. Vladimir I. Georgiev, Introduzione alla storia delle lingue indeuropee, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1966, pp. 356-359.
9. Lucia Wald – Elena Slave, Ce limbi se vorbesc pe glob, Editura stiintifica, Bucuresti 1968, p. 38 n. 5.
10. Georges Dumézil, Storie degli Sciti, Rizzoli, Milano 1980, p. 7.
11. Neal Ascherson, Mar Nero. Storie e miti del Mediterraneo d’Oriente, Einaudi, Torino 1999, p. 122.
12. Maurizio Imperatore, Strategikon, Il Cerchio, Rimini 2006, p. 123.
13. Guido A. Mansuelli – Fausto Bosi, Le civiltà dell’Europa antica, Il Mulino, Bologna 1984, p. 190. Sui Saci, cfr. Franz Altheim, Alexandre et l’Asie. Histoire d’un legs spirituel, Payot, Paris 1954, pp. 315-340 (Cap. XII: L’assaut des nomades).
14. Viene chiamato Hypanis (Ammiano Marcellino, XXII, 8, 26) anche un fiume del Bosforo Cimmerio identificabile col Kuban.
15. Il Tanai è citato come confine tra la Scizia e la Sarmazia anche da Luciano, Tossari o l’amicizia, 39.
16. Francis Conte, Gli Slavi, Einaudi, Torino 1991, p. 285.
17. Emile Condurachi – Constantin Daicoviciu, Romania, Nagel, Ginevra 1975, p. 97.
18. D. M. Pippidi, I Greci nel basso Danubio dall’età arcaica alla conquista romana, Il Saggiatore, Milano 1971, p. 109.
19. Tamara Talbot Rice, Gli Sciti, Il Saggiatore, Milano 1958, pp. 179-202.
20. Joseph Vogt, La repubblica romana, Laterza, Bari 1975, p. 309.
21. Franz Cumont, Le religioni orientali nel paganesimo romano, Laterza, Bari 1967, p. 171.
22. Pio Filippani Ronconi, Il senso morale della regalità iranica e i suoi rapporti con le istituzioni dell’occidente, Centro culturale italo-iraniano, Roma 1977, I, pp. 16-17.
23. Jérome Carcopino, Silla o la monarchia mancata, Longanesi, Milano 1943, p. 102.
24. Jérome Carcopino, Silla o la monarchia mancata, cit., p. 105.
25. Ibidem.
26. Pio Filippani Ronconi, Il senso morale della regalità iranica e i suoi rapporti con le istituzioni dell’occidente, cit., I, p. 17.
27. Ibidem.
28. Pio Filippani Ronconi, Il senso morale della regalità iranica e i suoi rapporti con le istituzioni dell’occidente, cit., I, p. 18.
29. Pio Filippani Ronconi, Il senso morale della regalità iranica e i suoi rapporti con le istituzioni dell’occidente, cit., p. 19.
30. Martin Vermaseren, Mithra, ce dieu mystérieux, Sequoia, Paris-Bruxelles 1960, p. 25.
31. Martin Vermaseren, Mithra, ce dieu mystérieux, cit., p. 155.
32. Reinhold Merkelbach, Mitra, ECIG, Genova 1988, p. 290.
33. Neal Ascherson, Mar Nero. Storie e miti del Mediterraneo d’Oriente, cit., p. 116.
34. Georges Dumézil, op. cit., p. 8. Dumézil ha rintracciato nell’epopea popolare degli Osseti (Il libro degli eroi, Bompiani, Milano 1976) le tracce della tripartizione sociale indoeuropea. Cfr. G. Dumézil, L’ideologia tripartita degli Indoeuropei, Il Cerchio, Rimini 1988, pp. 20-21.
35. Hans F. K. Günther, Tipologia razziale dell’Europa, Ghénos, Ferrara 2003, p. 89.
36. Sergej A. Tokarev, URSS: popoli e costumi, Laterza, Bari 1969, p. 263.
37. Hadrian Daicoviciu, Dacia de la Burebista la cucerirea romana, Dacia, Cluj 1972, p. 119.
38. Dumitru Berciu, Daco-Romania, Nagel, Ginevra 1976, p. 87.
39. Franz Altheim, Dall’antichità al Medioevo: il volto della sera e del mattino, Sansoni, Firenze 1961, p. 71.
40. Guido A. Mansuelli – Fausto Bosi, Le civiltà dell’Europa antica, cit., p. 325.
41. Zoltán Kádár, Gli animali negli oggetti ornamentali dei popoli della steppa: Unni, Avari e Magiari. Cenni zooarcheologici, in: C.I.S.A.M. Atti delle settimane di studio, XXXI L’uomo di fronte al mondo animale nell’Alto Medioevo (7-13 aprile 1983), Spoleto 1985, p. 1381.
42. Karl Jettmar, I popoli delle steppe, Il Saggiatore, Milano 1964, p. 66.
43. I. P. Zaseskaja – K. M. Scalon, Le tribù sarmatiche dal II sec. a. C. al II sec. d. C., in: AA. VV., L’oro degli Sciti, Alfieri, Venezia 1977, p. 79.
44. Tamara Talbot Rice, op. cit., p. 189.
45. Neal Ascherson, Mar Nero. Storie e miti del Mediterraneo d’Oriente, cit., p. 239.
46 Neal Ascherson, Mar Nero. Storie e miti del Mediterraneo d’Oriente, cit., p. 240.
47 Ibidem.
48 Aldo Ferrari, La foresta e la steppa. Il mito dell’Eurasia nella cultura russa, Scheiwiller, Milano 2003, p. 152.
49 Aldo Ferrari, La foresta e la steppa. Il mito dell’Eurasia nella cultura russa, cit., p. 159.
50. Steven Runciman, Bisanzio e gli Slavi, in: AA. VV., L’eredità di Bisanzio, a cura di N. H. Baynes e H. St. L. B.
Moss, Vallardi, Milano 1961, pp. 407-408.
51. Francis Conte, Gli Slavi, cit., p. 130.
52. Franz Altheim, Attila et les Huns, Payot, Paris 1952, p. 82.
53. Neal Ascherson, Mar Nero. Storie e miti del Mediterraneo d’Oriente, cit., p. 237.
54. C. Scott Littleton – A. C. Thomas, The Sarmatian connection: new light on the origin of the Arthurian and Holy Grail legends, “Journal of American Folklore”, 91, 1978, pp. 512-527. C. Scott Littleton – L. A. Malcor, From Scythia to Camelot. A radical reassessment of the legends of King Arthur, the Knights of the Round Table and the Holy Grail, New York – London, 1994. J. Makkay, Iranian elements in early Mediaeval heroic poetry. The Arthurian cycle and the Waltharius, Tractata Minuscula 12, Budapest 1988.
55. Claudio Azzara, Le invasioni barbariche, Il Mulino, Bologna 1999, p. 57.
56. Beniamino M. di Dario, La Notitia Dignitatum. Immagini e simboli del Tardo Impero Romano, Edizioni di Ar, Padova 2005, p. 94.
57. Georg Ostrogorsky, Storia dell’impero bizantino, Einaudi, Torino 1993, p. 54.
58. Neal Ascherson, Mar Nero. Storie e miti del Mediterraneo d’Oriente, cit., pp. 242-243.
59. Francis Conte, Gli Slavi, cit., p. 301.
60. Guglielmo Capacchi, Genesi e sviluppo della lingua ungherese, La Bodoniana, Parma 1964, p. 21.
61. Andrea Csillaghy, Antico e medio iranico e parlate turche antiche in area uralica, in La lingua e la cultura ungherese come fenomeno areale, a cura di Andrea Csillaghy, Quaderni dell’Istituto di Iranistica, Uralo-altaistica e Caucasologia dell’Università degli Studi di Venezia, Venezia 1977-1981, p. 52.
62. Presso le popolazioni iraniche, “il cervo era circondato da una considerazione speciale (i nobili decoravano i loro scudi con l’immagine del cervo dorato). Probabilmente numerosi gruppi etnici sciti ritennero che il cervo fosse un loro mitico antenato: ottima conferma è il nome degli Sciti dell’Asia, saca, che significa ‘popolo-cervo’ ” (Istvan Fodor, L’origine del popolo ungaro e la Conquista della Patria, in AA. VV., Gli antichi Ungari. Nascita di una nazione, Skira, Milano 1998, p. 30). Ma un’altra interpretazione spiega l’etnonimo Saca con la radice iranica sak-, “andare, vagare”.
63. Benedek Elek, Hunor és Magyar, Tóth Könyvkereskedés és Kiadó Kft., Debrecen s. d., pp. 5-11; Claudio Mutti, Miti, fiabe e leggende della Transilvania, Newton & Compton, Roma 1996, p. 17. “Contingit autem eosdem in hac rapina inter ceteras Dulae principis Alanorum duas filias virgines forma praeclaras comprehendere, quarum unam Hunor, alteram Magor in uxores receperunt; ex quibus mulieribus tandem omnes Huni sive Hungari originem sumpsisse perhibent” (Thuróczy János, A Magyarok krónikája, facsimile del codice del 1488, Helikon, Budapest 1986, pagine non numerate). Cfr. il Chronicum pictum dell’Anonimo (1358), in A magyar középkor irodalma, Szépirodalmi Könyvkiadó, Budapest 1984, p. 169.
64. Georges Dumézil, Storie degli Sciti, cit., p. 9.
65. Brigitte Hamann, Sissi, Tea, Milano 1995, p. 196.
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