L’apertura del nuovo decennio in Medio Oriente porta con sé gli strascichi confessionali del recente passato, con episodi che rievocano il tragico biennio 2005-2007 e alimentano lo spettro confessionale ai quattro angoli della regione. Ma dietro al semplice allarmismo confessionale giocano anche fattori di pragmatismo politico che portano ad avanzare altre letture che prendano in considerazione processi politici di più ampia scala o la strumentalizzazione di questi fattori sia da parte di agenti interni ed esterni. Il revival della questione confessionale, che tiene banco in Egitto, Libano, Iraq e Yemen ha allo stesso tempo messo in luce come nello specifico caso egiziano le nette prese di posizione da parte di attori internazionali, come quella americana, europea ed in parte anche italiana, abbiano invece avuto un effetto boomerang e rappresentato una pesante ingerenza. Un’analisi dello stato attuale della questione confessionale mediorientale e delle sue più ampie implicazioni.
L’apertura del nuovo decennio in Medio Oriente porta con sé gli strascichi confessionali del recente passato, con episodi che rievocano il tragico biennio 2005-2007 e alimentano lo spettro confessionale ai quattro angoli della regione. La strage della vigilia del Natale copto nel sud dell’Egitto ha catapultato la questione confessionale anche tra le prime pagine della normalmente restia stampa egiziana, riportando nel calderone confessionale la questione delle comunità cristiane in Medio Oriente, questione assopitasi dopo che l’era Bush si era caratterizzata principalmente per la frattura tra sunniti e sciiti. Un revival confessionale che assume forme e contenuti diversi all’interno della regione mediorientale. Il recente depennamento dalle liste elettorali irachene per le elezioni parlamentari in programma il 7 marzo di alcuni candidati sunniti ex baathisti da parte della commissione elettorale filo sciita ha aperto lo scenario ad un nuovo possibile conflitto settario in Iraq. I sei copti caduti sul selciato della chiesa di Naga Hammadi all’uscita dalla messa di Natale hanno contribuito a ravvivare la questione confessionale in Egitto e aprire un dibattito interno sullo status dei copti nel paese, mettendo in luce la miriade di altri episodi di violenza confessionale nel paese, che vedono coinvolti anche le piccola comunità sciita e bahai. In Libano, all’indomani della proclamazione del a lungo agognato governo di Saad Hariri nel novembre scorso, si sono alzate le abituali richieste di abolizione del sistema confessionale come stabilito dagli accordi di Taef che portarono alla fine della guerra civile negli anni novanta, provocando un certo risentimento specialmente nella vasta comunità cristiana libanese. Nel profondo oriente arabo invece, la lotta antigovernativa portata avanti dal gruppo ribelle sciita degli zaidi Houthi nella regione settentrionale del paese e che ha ripreso vigore alla fine del 2009, ha fatto subito gridare la stampa internazionale al ritorno dell’allarme confessionale, poi soppiantato dalla paura dell’infiltrazione di Al-Qaeda nei giorni seguenti al tentato attacco del volo di Detroit del giorno di Natale.
Ma dietro al semplice allarmismo confessionale giocano anche fattori di pragmatismo politico e sono necessarie altre letture che prendano in considerazione processi politici di più ampia scala o la strumentalizzazione di questi fattori sia da agenti interni che esterni. Gli episodi di apparente e semplice carattere confessionale di questi ultimi mesi sono un esempio della difficoltà di interpretare unicamente su linee confessionali tali fatti. Nel caso egiziano molti attivisti locali hanno relazionato l’attentato di Naga Hammadi con le future elezioni parlamentari in programma il prossimo autunno. Un attacco che sembrerebbe incasellarsi in una lotta politica più ampia e di minaccia politica a una comunità locale. La lettura dell’attentato come una forma di odio generalizzato nei confronti dei cristiani egiziani o come sinonimo di una impossibile convivenza risulta perciò fuorviante. Nel caso della de-baathizzazione delle liste elettorali, anche qui le considerazioni unicamente di carattere settarie e anti-sunnite sbandierate dalla stampa internazionale risultano essere riduttive, anche se la componente confessionale gioca la sua parte. Vari analisti della questione irachena hanno sottolineato come questa misura non abbia toccato solo candidati sunniti, ma anche curdi e sciiti, e secondo lo stesso analista Reidar Visser l’iniziativa aveva l’obiettivo di ravvivare lo spettro del Baathismo prima delle elezioni e mantenere viva la questione confessionale per meri calcoli politici. Nel caso libanese, la chiamata alla creazione di una commissione per l’abolizione del sistema politico confessionale è sempre stato negli ultimi anni il cavallo di battaglia di quei leader le cui comunità godono di un discreto peso demografico. Non è strano quindi che la richiesta sia arrivata dal leader sciita e portavoce del parlamento Nabih Berri, insieme alla proposta di rendere finalmente pratico l’abbassamento dell’età di voto a 18 anni. Tali legittime richieste civili nascondono nel loro tempismo un certo opportunismo personale e settario, che permette di mettere in difficoltà la componente cristiana libanese, in evidente recessione demografica, ed in particolar modo lo scomodo “alleato” Michel Aoun, con cui lo stesso Berri si è spesso scontrato per questioni elettorali a livello locale. Nella regione del golfo, la lotta antigovernativa del gruppo ribelle sciita con forti caratteri tribali è stata catapultata dal novembre passato in una lotta per il predominio regionale tra sciiti e sunniti, in cui si fronteggiano non solo a parole l’Iran, considerato dal governo yemenita come il vero artefice della rivolta Houthi, e l’Arabia Saudita, paese confinante alla zona dell’insorgenza. Lo stesso presidente yemenita Ali Abdullah Saleh è membro di questa setta di cui è composto un terzo della popolazione yemenita, fatto che aiuta a ridimensionare il carattere unicamente confessionale del conflitto. La questione ha poi assunto rapidamente un carattere internazionale ed è stata soppiantata dal pericolo islamista radicale di Al-Qaeda, le cui relazioni con il gruppo ribelle sono tuttavia da decifrare. Un insieme di questioni che evidenziano l’impossibilità di avanzare semplici interpretazioni di carattere confessionale.
In questo momento sembrano lontane le tesi di Seymour Hersh che ormai datano quasi tre anni, e che vedevano le forze di sicurezza e di intelligence americane impegnate ad alimentare e finanziare componenti sunnite radicali per contrastare l’avanzamento sciita nella regione. Il cavallo di battaglia confessionale di Bush non sembra trovare posto concreto nelle indecise strategie politiche dell’amministrazione Obama sul Medio Oriente. Il riferimento alla questione delle libertà religiose, con uno speciale riferimento ai copti egiziani ed ai maroniti libanesi, nel discorso al Cairo del giugno scorso ha fatto capire che il paradigma confessionale è tuttavia ancora vivo nell’amministrazione americana. Ma è evidente anche il tentativo di rimarginare una ferita aperta ed alimentata dalla precedente amministrazione. Le parole di Obama sulla libertà religiosa hanno lasciato però in un certo sconcerto il mondo arabo, soprattutto per la semplicità di definire minoranze religiose quelle comunità che localmente sono considerate a tutti gli effetti come parte integrante dello stato. Una questione che rimane tabù in tutto il Medio Oriente.
Tabù come la questione confessionale in Egitto, che non trova normalmente spazio tra le colonne dei giornali. I tragici fatti di Natale avevano invece permesso di aprire un dibattito sulla questione copta, con un certo riconoscimento della necessità di sancire uguali diritti per i cittadini egiziani di ogni confessione. L’intervento italiano prima attraverso l’indignazione del Ministro degli Esteri Frattini, subito ridimensionatasi, e la presa di posizione decisa del Parlamento Europeo che ha chiesto al governo egiziano di procedere a salvaguardare i diritti dei copti, hanno però contribuito a provocare l’indignazione del governo egiziano, che ha tildato queste dichiarazioni di ingerenza straniera, ed opportunamente chiuso il discorso pubblico sulla coesistenza musulmana-cristiana in atto nel paese in nome dell’orgoglio patrio. Il mero interesse europeo e americano nelle comunità cristiane mediorientali ha ricordato a molti nella regione gli anni dell’impero ottomano e della difesa di comunità religiose affini da parte di certi stati europei.
Allo stesso tempo l’interpretazione opposta, ma che spesso fa capolino nell’opinione pubblica, e che vede nelle tensioni confessionali una forma per dividere gli stati del Medio Oriente presenta la pecca di chiudere in partenza il dibattito su un problema che in realtà affligge le società della regione. Le comunità sciite sono considerate un po’ tutto il mondo arabo a maggioranza sunnita dal golfo fino all’Egitto come quinte colonne del progetto iraniano. I cristiani, specialmente in Egitto, vivono una condizione di cittadinanza di seconda categoria, mentre in Libano devono ancora fare i conti con un passato di potere ed un presente schiacciato dal binomio sunnita/sciita. La questione confessionale rimane viva, anche se non è possibile leggere gli episodi più recenti unicamente secondo un paradigma strettamente confessionale. L’allarmismo confessionale della stampa internazionale e lo speciale unico interesse nelle comunità cristiane da parte dei governi occidentali, risulta però essere un’ingerenza controproducente che rischia di compromettere proficui dibattiti interni.
* Massimo Di Ricco è ricercatore in Studi culturali mediterranei presso l’Università di Tarragona, in Spagna. Attualmente risiede al Cairo dove collabora con varie riviste e media internazionali.
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