L’Unione Europea, che nel 2012 s’è aggiudicata il premio Nobel per la pace, si candida per un altro ambito premio: quello per l’ipocrisia e il servilismo.

È accaduto infatti che l’Ungheria, la quale oltre a far parte dell’Unione Europea stessa non ne condivide parecchi “valori” (la c.d. “indipendenza” della Banca centrale, l’equiparazione dei nazionali agli allogeni ecc.), ha ventilato la possibilità di reintrodurre, nel suo ordinamento giuridico, la pena di morte.

Sorvolando sul problema di fondo – e cioè l’ammissibilità o meno della pena capitale in base a metri di giudizio filosofico, etico, politico, sociale ecc. – è come minimo stridente constatare che con l’Ungheria gli euroburocrati mai eletti da nessuno (mentre Orban riscuote un forte consenso interno) fanno la voce grossa e minacciano ritorsioni, mentre con l’America – dove parecchi Stati prevedono la pena di morte (per scarica elettrica, per impiccagione, per iniezione letale e per fucilazione: che fantasia!), anche col consenso dei rispettivi cittadini – gli stessi paladini dei “diritti umani” si fanno piccini piccini, fino a scomparire del tutto davanti all’incombente “Trattato di libero scambio Transatlantico” (TTIP) che manderà definitivamente in rovina le nostre economie e devasterà più di quanto non lo sia già il tessuto sociale delle nostre comunità.

E, chissà, condurrà al recepimento delle medesime normative americane in materia di amministrazione della giustizia, con tanto di carceri private gestite con criteri aziendalistici. Un enorme sistema che per funzionare ha bisogno di creare “delinquenti” per i più svariati motivi, che non sono solo la tipica rapina o l’ancor più classico omicidio.

Un sistema siffatto, dove la persona diventa di fatto uno schiavo (con tanto di tuta arancione modello Guantanamo e poi fornita anche all’ISIS), potrebbe sbarcare dalle nostre parti, qualora il TTIP – questo cavallo di Troia della disumanizzazione di quel poco che resta di sano in Europa – comprendesse anche l’introduzione di un sistema penale e carcerario ad immagine di quello americano, il quale va di concerto con tutto il resto e pertanto è funzionale all’idea stessa di uomo e di società che informa il “modello americano” stesso che tanto manda in solluchero gli eurocrati.

Fantasie? Preoccupazioni senza alcun fondamento?
Sembrerebbe di no, leggendo La fine della sovranità. Come la dittatura del denaro toglie il potere ai popoli, di Alain De Benoist, pubblicato da Arianna Editrice e sul quale torneremo in maniera più particolareggiata recensendolo.
Il pensatore francese, dedicando un capitolo al “grande mercato transatlantico”, lo qualifica lapidariamente come una “immensa minaccia”. Una minaccia che sta per diventare realtà, ma nessuno nei “palazzi” dell’Europa sembra accorgersene, intenti come sono a compiacere i loro padroni. Tanto per dirne una, hanno recentemente preparato le condizioni per far invadere i mercati europei dagli Ogm (che Orban ha messo fuori legge), con la massa schiavizzata destinata ad ingozzarsi di una parvenza di cibo mentre solo i ricchi potranno godere, finché dureranno, delle famose “eccellenze” celebrate anche all’Expo.

Eppure basterebbe che qualcuno nelle sedi appropriate – qualcuno non ancora totalmente venduto ed asservito – aprisse gli occhi ed ascoltasse l’ultimo barlume di coscienza rimastogli, per evitare ai suoi compatrioti europei (sempre ammesso che l’Europa sia una “Patria” e non un tragico equivoco) di finire stritolati in nome del cosiddetto “libero commercio”.

Potrebbe anche leggere il libro di De Benoist, e tanto basterebbe per rendersi conto che non ha senso attaccare Orban per poi strisciare davanti a Obama.
Ma potrebbe anche scorrere, uno ad uno, gli articoli della Legge Fondamentale dell’Ungheria, dalla quale il suddetto barlume di coscienza potrebbe ricevere una salutare scossa, ricordandosi di essere prima di tutto un uomo, un uomo radicato in una storia, una lingua e una terra, e non un astratto “consumatore” da sacrificare al “Dio mercato”.


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Enrico Galoppini scrive su “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” dal 2005. È ricercatore del CeSEM – Centro Studi Eurasia-Mediterraneo. Diplomato in lingua araba a Tunisi e ad Amman, ha lavorato in Yemen ed ha insegnato Storia dei Paesi islamici in alcune università italiane (Torino ed Enna); attualmente insegna Lingua Araba a Torino. Ha pubblicato due libri per le Edizioni all’insegna del Veltro (Il Fascismo e l’Islam, Parma 2001 e Islamofobia, Parma 2008), nonché alcune prefazioni e centinaia di articoli su riviste e quotidiani, tra i quali “LiMes”, “Imperi”, “Levante”, “La Porta d'Oriente”, “Kervàn”, “Africana”, “Rinascita”. Si occupa prevalentemente di geopolitica e di Islam, sia dal punto di vista storico che religioso, ma anche di attualità e critica del costume. È ideatore e curatore del sito "Il Discrimine".