Puntuale come un orologio svizzero e fedele alla sua natura di giocatore “simmetrico”, Vladimir Putin ha sciolto ogni dubbio e ha deciso di puntare tutto sull’opzione eurasiatica.
Il gioco “duro” attuato da Washington tramite i suoi satelliti di Bruxelles ha costretto il capo del Cremlino ad abbandonare le sue storiche esitazioni verso l’Ostopolitik e a virare in maniera decisa a favore dell’asse eurasiatico Russia-Cina-Iran prospettato già all’inizio degli anni Novanta da Evgenij Primakov e dalla sua dottrina geopolitica.
L’accordo trentennale per la fornitura di gas naturale a Pechino rappresenta solo l’aspetto più evidente di questo spostamento di prospettiva strategica, rimasto per lungo tempo “congelato” dai decisori di Mosca.
C’è voluta tutta l’arroganza della Casa Bianca e la cecità geopolitica dell’Unione Europea per consentire l’attuazione di questo risultato, da diversi anni preconizzato anche in Italia (in modo solitario) dagli analisti della nostra rivista.
Il partenariato strategico Russia-Cina, destinato ormai ad evolvere militarmente tramite l’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai, è il primo passo verso la costruzione di un nuovo assetto delle relazioni internazionali realmente multipolare e condiviso, che dovrà portare sicurezza e stabilità proprio nelle aree messe a soqquadro dall’avventurismo militare statunitense in Medio Oriente e in Asia Centrale, Afghanistan e Iraq in primis.
Questa configurazione geopolitica, così diversa dal Nuovo Ordine Mondiale unipolare sognato dagli Stati Uniti d’America dopo lo scioglimento dell’Unione Sovietica, consentirà anche gradualmente di modificare la struttura produttiva globale basata oggi sulla fallimentare finanziarizzazione dell’economia.
Non è un caso che i termini dell’accordo firmato ieri da Putin e Xi Jinping prevedano l’utilizzo di yuan e rubli per pagare il gas naturale e le infrastrutture necessarie al suo trasporto, escludendo il dollaro (ma anche l’euro) in un’intesa tanto importante per il mercato internazionale delle materie prime.
L’accelerazione voluta dalla Russia nelle ultime settimane, in conseguenza della crisi ucraina, è perciò destinata a lasciare il segno e inciderà profondamente sul destino mondiale negli anni a venire.
Putin ha infatti concesso il via libera in Europa alle aspirazioni indipendentiste delle tanti regioni contese come la Transnistria, o la Republika Srpska, ha ribadito il suo sostegno ad Assad in Siria e formalizzato i contratti sul gas e il nucleare in sospeso con l’Iran, ha cancellato il debito della Corea del Nord, ha aumentato il sostegno ai paesi dell’America Indio-Latina stanchi dello storico cappio al collo lasciato in eredità dalla dottrina Monroe.
Soprattutto Mosca ha ribadito come il progetto dei BRICS, destinato ad allargarsi ulteriormente ad altre nazioni indipendenti, sia destinato a prendere il posto del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale a guida statunitensi, per sostituirne il modello finanziario basato sull’usura e sulla speculazione e inaugurare una nuova era basata sull’economia reale.
Mentre il Brasile ha già scritto una bozza dello statuto della Banca per lo sviluppo dei BRICS, la Russia sta preparando un accordo intergovernativo per la sua istituzione.
I flebili tentativi mediatici di immaginare un’alternativa alla “dipendenza” dal gas moscovita non incantano praticamente nessuno nemmeno in Europa, dove i “vantaggi” dello shale gas nordamericano vengono irrisi dagli analisti energetici.
Non a caso l’Ungheria di Orban se ne frega bellamente delle minacce di Bruxelles e prosegue imperterrita la sua politica di apertura alla Russia, l’Austria invece di attuare sanzioni contro Mosca firma il contratto per il South Stream con Gazprom, mentre l’Italia è addirittura costretta a inviare comunicati stampa per ribadire il suo sostegno al progetto del gasdotto russo-europeo per timore di restarne esclusa.
A buona ragione, visto il caos libico e le minacce atlantiste sempre meno velate all’Algeria, altro nostro fornitore energetico essenziale insieme a Tripoli e a Mosca.
Non sarebbe ovviamente comprensibile questa bancarotta della politica europea se concentrassimo l’attenzione solo sull’incapacità e sul servilismo delle nostri classi dirigenti, così come sta avvenendo anche durante l’attuale campagna elettorale in vista delle elezioni di domenica prossima.
L’unico tema che infatti viene evitato da tutti i candidati e che rappresenta invece il dato concreto sul quale soffermarsi è quello della “nostra” alleanza militare, cioè l’appartenenza anche formale – in base ai Trattati approvati dai Parlamenti dei Paesi membri – dell’Unione Europea alla NATO.
Questa servitù militare su base continentale è infatti la ragione principale del fallimento del progetto europeo, destinato ad andare in pezzi sotto il peso delle sue contraddizioni; cioè tra l’aspirazione a diventare un polo geopolitico autonomo orientato in maniera naturale verso Oriente e la sua sottomissione ad un’alleanza militare che la spinge verso Occidente.
Clamoroso il caso dell’Italia, costretta – causa la sua appartenenza alla NATO – con l’intervento militare in Libia del 2011 a fare guerra a sé stessa, perdendo così 14 miliardi di euro di commesse.
Senza perciò un serio dibattito politico che tragga questa naturale conseguenza, cioè la necessità per l’Europa di sganciarsi dall’Alleanza Atlantica e di espellere le basi statunitensi dal proprio territorio, tutta la dialettica tra UE sì e UE no, Euro sì ed Euro no, perde la sua validità.
Nel frattempo la Russia, mentre flirta apertamente con la Cina, lascia comunque una porta aperta a quegli europei che cercano un’alternativa anche di tipo culturale, visto che la sistematica distruzione dei valori morali e spirituali nel Vecchio Continente trova il suo corrispettivo nella crisi economica strutturale dell’Occidente.
Quanti però sapranno in grado di cogliere questa opportunità?
Stefano Vernole è vicedirettore di Eurasia
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