In effetti, sembrerebbe più corretto parlare di guerre, al plurale. Alcune di queste sono già in corso, altre vengono preparate e minacciate più o meno esplicitamente a seconda dei casi.
Guerra alla “Primavera”
L’improvviso scoppio delle rivolte arabe ha costituito una sfida ideologica e geopolitica sia per Israele che per l’Arabia Saudita. Il rovesciamento di un leader arabo dopo l’altro ha profondamente innervosito la monarchia saudita; allo stesso tempo la rivolta sciita nel vicino Bahrein ha minacciato la stabilità interna del regno sunnita e l’egemonia sulla penisola vis-à-vis con l’Iran. Per Israele la cacciata di Mubarak, insieme a un improvviso peggioramento delle relazioni con la Turchia, ha significato la perdita di due alleati strategici e il crescente isolamento in un momento in cui il favore verso la causa Palestinese sembra crescere globalmente.
I sauditi stanno affrontando la crisi con efficacia spietata: Riyadh, potendo fare affidamento su enormi riserve di denaro liquido, ha adottato un’aggressiva politica di spesa per mettere a tacere il dissenso sia in Arabia Saudita che in altri paesi della penisola araba, schiacciando velocemente la rivolta del Bahrein mentre l’Occidente guardava altrove.
La casa saudita ha inoltre sistematicamente cercato di interpretare le proteste scoppiate nella penisola in chiave settaria. Riyadh ha attribuito le proteste nella propria provincia orientale e in Bahrein alle presunte ingerenze di Teheran, sebbene i leader della minoranza sciita saudita e quelli della maggioranza sciita in Bahrein abbiano quasi sempre rivendicato la propria indipendenza ed essenzialmente basato le proprie richieste su principi non settari improntati alla giustizia sociale e ad una maggiore democrazia.
Dopo che il diffondersi delle rivoluzioni della Primavera Araba aveva costretto Riyadh sulla difensiva, lo scoppio della rivolta siriana ha permesso alla famiglia saudita di passare all’offensiva. La rivolta siriana ha presentato un’opportunità d’oro per dare agli eventi una direzione favorevole ai Sauditi e ad Israele. Se il regime di Assad dovesse essere deposto, preferibilmente da un governo filo occidentale e filo sunnita, l’Iran verrebbe privato del suo alleato chiave e del contatto con Hetzbollah. L’idea, che sia resa esplicita o no, ha fatto breccia sia a Washington che a Londra ed anche in Turchia.
Non vi è dubbio, infatti, che la campagna volta a isolare l’Iran a livello internazionale e quella volta a far capitolare il regime siriano, siano guidate anche dalla possibilità di spezzare l’asse siro-iraniano, e più in generale il cosiddetto “asse della resistenza” – che comprende anche Hezbollah, Hamas e i nazionalisti arabi. In altre parole, si sta assistendo a una convergenza di interessi fra l’intenzione di Washington di rovesciare Assad al fine di allontanare la Siria dall’orbita iraniana e isolare i movimenti della “resistenza” araba (Hamas e Hezbollah), e la volontà dei regimi del Golfo (in primo luogo dell’Arabia Saudita) di riportare la Siria nell’alveo arabo, e sunnita, isolando l’Iran sciita.
La crisi siriana sta determinando una polarizzazione a livello regionale. In Libano, ad esempio, la coalizione del 14 marzo a guida sunnita, filo-occidentale e filo-saudita, si è schierata apertamente a sostegno dell’opposizione siriana, mentre Hezbollah, movimento notoriamente vicino all’Iran e leader della contrapposta coalizione, ha ribadito il proprio appoggio al regime di Damasco.
In questo processo rischia parimenti di essere coinvolto l’Iraq. Baghdad si è opposta alla decisione della Lega Araba di imporre sanzioni alla Siria, non perché il governo iracheno sia un fantoccio di Teheran, ma in primo luogo per fondati motivi interni. Soprattutto, Baghdad teme che, se la Siria sprofondasse in una guerra civile, l’instabilità potrebbe estendersi al territorio iracheno. Il ritiro americano che si concluderà entro la fine di dicembre apre un vuoto di sicurezza in un paese in cui le tensioni fra l’emarginata comunità sunnita e la comunità sciita al potere stanno riemergendo. Queste tensioni potrebbero essere presto sfruttate e alimentate dall’Iran e dai paesi arabi sunniti, pronti ad occupare lo spazio lasciato vuoto dagli Usa.
Nuova guerra a Gaza?
Sembra che sul versante israeliano si profili come sempre più probabile un nuovo intervento nella Striscia di Gaza. La decisione circa la data dell’operazione dipenderà da diversi fattori- valutazioni di intelligence sui probabili obiettivi, condizioni climatiche, lo stato delle truppe regolari e delle riserve e soprattutto la situazione in Egitto. Il dilemma che si pone Israele è: agire mentre Tantawi e i suoi ufficiali sono ancora in carica? Il prossimo regime egiziano sarà presumibilmente anti-israeliano o comunque meno tollerante rispetto all’attuale governo. Inoltre la partecipazione dei Fratelli Musulmani crea un’affinità ideologica e anche geografica con il regime di Hamas nella Striscia.
Un’operazione militare a Gaza, sul modello di “Piombo Fuso”, non lascerebbe indifferente il nuovo regime egiziano, che probabilmente invierebbe le proprie truppe come assistenza o come scudo per i civili. Israele quindi si troverebbe a scegliere tra la continuazione delle operazioni militari e quindi il rischio di un confronto con i soldati egiziani da un lato, e la sospensione delle operazioni nella speranza di evitare l’avvicinamento tra il nuovo Egitto ed Hamas dall’altro.
Questi fattori spingono Israele ad agire in fretta, prima del giugno-luglio 2012. D’altro canto, un’azione immediata potrebbe portare l’attuale regime militare a una fine anticipata: il popolo egiziano si ribellerebbe nuovamente al governo militare. Una dinamica del genere porterebbe a risultati elettorali sicuramente sfavorevoli a Israele. Il risultato finale sarebbe quindi un successo tattico ( per esempio, la decapitazione di Hamas a Gaza) ma un fallimento strategico.
La stagione di cambiamento che ha rivoluzionato il Vicino Oriente ha reso paradossalmente la Giordania l’elemento più stabile tra i vicini di Israele. Non è un caso che il re di Giordania Abdullah II abbia visitato Ramallah di recente, boicottando Gerusalemme e gli uffici del primo ministro Netanyahu e del ministro degli esteri Lieberman. Dunque anche il confine con la Giordania sembra sempre più minato. In questo clima non ci sarebbe da sorprendersi se Israele decidesse di agire preventivamente attaccando Gaza, prima che anche quell’area diventi ingestibile. Le decisioni saranno prese a Gerusalemme dallo stato maggiore delle forze di sicurezza guidato da Gantz, ma dipenderanno dagli eventi dei mercati e delle piazze del Cairo.
Guerra all’Iran
Il fatto che le politiche degli Usa in Iraq e in Afghanistan abbiano rafforzato enormemente l’Iran costituisce motivo di forte tensione per l’Occidente e i suoi alleati. La speranza di ammorbidire il regime islamico o di una nuova e più moderata fazione al potere sono state deluse. I politici di destra israeliani hanno da tempo dichiarato l’Iran una “minaccia per la loro esistenza” e spingono per un intervento militare.
Fallito il tentativo di costringere l’Iran a fermare i programmi di arricchimento nucleare, agli Usa, Israele e alleati non rimane che svelare le proprie intenzioni, intensificando le minacce di bombardare l’Iran. Sanzioni severe hanno colpito il regime iraniano e lo stanno spingendo sempre di più all’angolo. Incidenti misteriosi e sabotaggi in diverse installazioni militari iraniane continuano. Perfino funzionari americani, hanno confermato – sebbene in via non ufficiale – l’esistenza di un programma di “operazioni sotto copertura” portato avanti da parte americana, a cui si aggiunge un “marcato attivismo” dei servizi israeliani. A conferma di ciò, domenica 4 dicembre, un sofisticato drone americano dotato di tecnologia “stealth” (cioè, teoricamente invisibile ai radar) è caduto nelle mani degli iraniani (in pieno territorio iraniano, a oltre 200 chilometri dal confine con l’Afghanistan), mettendo in luce fino a che punto si sia spinto il programma di spionaggio americano ai danni dell’Iran.
Come ha affermato Mark Hibbs, esperto nucleare presso il Carnegie Endowment, l’intensificarsi delle operazioni sotto copertura indica che Stati Uniti e Israele per il momento stanno concentrando le proprie energie su questo fronte, invece che su un attacco militare convenzionale. Tuttavia il timore è che “proseguendo su questa strada, scateniamo forze che non saremo in grado di controllare”.
Risultato di tutto ciò è un Iran sempre più belligerante e un clima interno incandescente, come ha evidenziato la presa violenta dell’Ambasciata Britannica a Teheran. Tale assalto è avvenuto probabilmente con l’acquiescenza della Guida Suprema e dei suoi fedelissimi, all’indomani dell’imposizione di sanzioni contro la banca centrale iraniana da parte di Londra.
Guerra delle sanzioni
Finora lo strumento preferito da Usa, Europa e Lega Araba restano le sanzioni economiche che sempre più severamente colpiscono Siria ed Iran. Tuttavia, a causa degli stretti rapporti economici con Damasco e Teheran, difficilmente Mosca e Pechino si allineeranno alle posizioni occidentali riguardo alla crisi siriana ed a quella iraniana. Al contrario, queste due grandi potenze potrebbero rappresentare una vitale “retrovia” per il regime di Damasco e la Repubblica islamica iraniana, e per i loro alleati regionali, in quella che si prefigura come una nuova guerra fredda ad altissima tensione, che rischia in ogni momento di sfociare in conflitti aperti nella regione dalla portata potenzialmente devastante.
Quando i venti del cambiamento hanno raggiunto il popolo siriano, la Lega Araba non è corsa in aiuto di Assad, come aveva fatto nel caso del Bahrein. Non riuscendo a rompere il legame tra il regime di Assad e l’Iran, la Lega ha espulso la Siria, imponendogli sanzioni severe così come hanno fatto gli Usa e gli alleati occidentali. Man mano che la rivolta s’intensifica diventano sempre maggiori i rischi di una vera e propria guerra civile in un paese multi-etnico e multi-religioso com’è la Siria.
In Libia l’Occidente ha potuto facilmente imporre una no-fly zone e sostenere gli oppositori di Gheddafi; non può fare la stessa cosa in Siria, almeno non con la stessa facilità. In primo luogo perché parte della Siria è sotto occupazione israeliana e un attacco, soprattutto se fossero coinvolti alcuni stati arabi, potrebbe essere interpretato come una presa di posizione a favore di Israele. In secondo luogo, le capacità militari e difensive della Siria sono molto più elevate che in Libia. Il clan di Assad può contare ancora su un grande supporto, non solo fra gli Alawiti e tra le fila dell’esercito, ma anche fra diverse minoranze e forze laiche che temono la crescente influenza dei Fratelli Musulmani e dei Sauditi nella regione. Soprattutto, la Siria ha anche degli alleati su cui far affidamento.
Il fatto che la rivolta popolare in Siria sia caduta ostaggio delle dinamiche geopolitiche regionali, e che la frammentata opposizione siriana sia sostenuta da tutti i nemici storici del regime di Damasco e dell’alleanza siro-iraniana, paradossalmente rafforza Assad ricompattando il fronte arabo nazionalista e le forze della “resistenza”, e addirittura lo stesso asse con Teheran.
Sembra sempre più chiaro che la protesta popolare per una vita migliore, più giusta e più dignitosa sia stata soffocata in una lotta spietata per l’egemonia geopolitica, giocata sempre più su esplosive linee settarie. E come dice un proverbio africano, quando gli elefanti combattono è sempre l’erba a rimanere schiacciata.
Corsa alle armi
Tutti si sentono insicuri e isolati, tutti si stanno armando fino ai denti, spostando forze e preparandosi per un eventuale confronto. Sembra quasi una nuova guerra fredda, eccetto per il numero maggiore di attori indipendenti, cosa che rende il calcolo più complicato e i rischi molto più alti.
In Siria stanno affluendo crescenti quantitativi di armi attraverso il confine giordano, turco e libanese e gli analisti affermano che il traffico bellico proveniente dall’estero potrebbe intensificarsi rapidamente. Fra l’altro, alla fine di novembre il Daily Telegraph ha rivelato la poco rassicurante notizia di colloqui segreti tra i ribelli siriani e le nuove autorità libiche, le quali avrebbero offerto armi e addestratori. Dai paesi del Golfo starebbero invece giungendo all’opposizione in Siria soprattutto ingenti finanziamenti e materiale per le telecomunicazioni.
La Nato ha stabilito un centro di comando e controllo nella provincia meridionale turca di Hatay, dove truppe britanniche e intelligence francese stanno addestrando l’Esercito Libero Siriano (ELS). L’obiettivo: fomentare una guerra civile che inghiotta il Nord della Siria. Ora arriva la conferma, attraverso il sito web dell’ex informatore del FBI Sibel Edmonds, che la manovra sta effettivamente avvenendo e che coinvolge anche la Giordania. Edmonds cita fonti locali secondo cui “centinaia di soldati che parlano lingue diverse dall’Arabo si stanno muovendo avanti e indietro tra la base aerea di King Hussein ad al-Mafraq e villaggi giordani adiacenti al confine siriano”.
Conclusioni
Diversi sono gli scenari ipotizzabili e i più pessimistici diventano anche i più probabili con il passare dei giorni.
In Siria, se Assad si decidesse ad abbandonare i suoi legami con l’Iran, la Lega Araba potrebbe cercare una via d’uscita dalla crisi e salvare così il suo regime. Se l’insurrezione si espandesse e il regime siriano cedesse alle pressioni interne ed esterne per accettare una “exit strategy”, la crisi potrebbe essere evitata. Ad ogni modo, questi scenari sembrano meno probabili giorno dopo giorno. La storia ci insegna infatti che i dittatori non sono capaci di imparare dal passato.
Rimangono altri scenari, incluso il più pericoloso. Dal momento che le sanzioni non fermeranno la repressione del regime siriano, nessuna no fly-zone può essere imposta. L’aviazione siriana e il sistema di difesa aereo non la rispetterebbero, causando un’escalation nel conflitto aereo e la possibilità di coinvolgere paesi occidentali e arabi nel bombardamento di installazioni siriane. Il regime siriano potrebbe decidere di non aspettare la sua caduta, e potrebbe provare a provocare Israele con il lancio di missili oppure coinvolgere Hetzbollah a fare lo stesso; Hetzbollah, sapendo che la maggior parte della sua forza deriva dai suoi alleati siriani e iraniani, potrebbe acconsentire. Diversamente che nell’invasione dell’Iraq del 1991 quando gli Usa hanno dissuaso Israele dal rispondere agli attacchi missilistici iracheni, il governo israeliano molto probabilmente stavolta risponderebbe con la forza.
Se Israele dovesse entrare in scena, il quadro cambierebbe drammaticamente. Nessun paese arabo, neanche l’Arabia Saudita, l’Unione degli Emirati Arabi o il Qatar oserebbero schierarsi al suo fianco. Alla fine, il regime iraniano, vedendo i suoi due principali alleati minacciati e sapendo di essere il prossimo sulla lista, potrebbe iniziare a supportarli più attivamente, cosa che aumenterebbe di molto le probabilità di un bombardamento dell’Iran da parte degli Usa e di Israele. Il ritiro statunitense dall’Iraq inoltre rende possibile per i jet israeliani attraversare lo spazio aereo iracheno senza il permesso statunitense. Molti però sostengono che il costo di tale attacco autonomo sarebbe troppo alto per Israele.
Lo scenario ottimistico per l’Iran sarebbe ovviamente quello di cedere alle pressioni interne e internazionali e rispettare le misure imposte dall’AIEA. Altrimenti, dal momento che le sanzioni non fermeranno le sue ambizioni, l’Occidente potrebbe ricorrere a bombardamenti chirurgici delle installazioni militari, cosa che potrebbe spaventare il regime islamico e costringerlo quindi a fermare i piani di arricchimento. Tuttavia ciò appare molto improbabile dal momento che la posizione del leader supremo Khamenei e le fazioni a lui vicine ne uscirebbe notevolmente indebolita. Lo scenario più probabile è che dopo un attacco il regime si muoverebbe immediatamente per rispondere con la forza.
Ad esempio, chiudere lo stretto di Hormuz semplicemente affondando una nave bloccherebbe il passaggio di circa 15 milioni di barili, o del 40% del traffico internazionale di petrolio giornaliero. Il nuovo oleodotto di Abu Dhabi che bypassa lo stretto e che diventerà operativo a dicembre, sarà capace di convogliare solo 2 milioni circa di barili al giorno, e non sarebbe quindi capace di bilanciare l’enorme impatto negativo sulla fornitura globale e sul prezzo del petrolio. Il regime iraniano potrebbe anche coinvolgere gli alleati sciiti iracheni e gli Hazara afghani nel conflitto.
L’Iran non può essere paragonato all’Iraq, all’Afghanistan o alla Libia. Il regime islamico ha capacità militari molto più ampie. È un paese molto più grande con la capacità di mobilitare una sezione della popolazione così come i suoi legami regionali. Se ricordiamo i fallimenti dell’Occidente nelle guerre relativamente più semplici in Iraq e in Afghanistan, e come queste “missioni” non possano neanche lontanamente essere considerate compiute (checché ne dicano i loro fautori), possiamo solo immaginare i risultati di una guerra molte volte più grande e complessa.
Qualsiasi conflitto armato fra questi attori di sicuro si propagherà ben oltre i confini dei principali stati belligeranti. Con i loro fragili sistemi politici e le divisioni settarie altamente sensibili, i primi ad essere risucchiati in questo vortice sarebbero il Libano e l’Iraq. Considerando i recenti attacchi settari, l’Afghanistan potrebbe essere il terzo. Nel lungo periodo, una guerra regionale avrebbe profonde conseguenze sociopolitiche ed umane, anche al di fuori della regione e specialmente in Occidente, ad esempio nella forma di immigrazione di massa, rifugiati e terrorismo.
Senza dubbio il regime islamico sarebbe alla fine sconfitto, ma il risultato finale sarebbe un Iran disintegrato e il caos in Iraq, Siria, Libano e Afghanistan. Nessuno ne beneficerebbe. La prima vittima di una guerra regionale sarebbe la “Primavera Araba”. Ma i governi occidentali non sembrano far caso a questa realtà.
* Nerina Schiavo è laureanda in Relazioni Internazionali presso l’Università La Sapienza di Roma
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