Il ritorno di Vojislav Šešelj a Belgrado lo scorso 12 novembre ha scatenato in pochi giorni un vero ciclone politico, nonostante lostorico leader del Partito Radicale Serbo non rappresenti al momento un serio pericolo per il governo Vučič.
Ad oggi la Serbia, intenta nel rinforzare i già saldi rapporti con il Cremlino ed il proprio status di candidato ufficiale a membro dell’Unione Europea, si trova inserita in una serie di sfide regionali che sembrerebbero quantomeno capaci di influenzare il futuro del Paese.
Rientrato a Belgrado dopo undici anni grazie ad un permesso della corte dei giudici internazionali del Tribunale dell’Aja, a cui si era spontaneamente consegnato per le accuse riguardanti gli eventi dell’autunno 1991 in Croazia e Bosnia, Vojislav Šešelj è apparso da una parte indebolito dalla malattia, ragione per cui ne è stato definito il rilascio, ma dall’altra tutt’altro che rassegnato nel suo orgoglio politico.
L’arrivo all’aeroporto nella capitale serba tra le ovazioni di centinaia di manifestanti ed il discorso tenuto dalla sede del Partito Radicale Serbo, hanno evidenziato che Vojislav Šešelj è pronto alla sua nuova battaglia politica ed alla sua personale vendetta contro l’attuale establishment di governo.
Lo storico leader cetnico non ha trovato al suo rientro un partito in grado di aggravare la posizione del governo nazionale ma, secondo quanto dichiarato nel primo discorso dopo il suo arrivo, il prossimo obiettivo sarà quello di definire una piattaforma politica seria capace di contrastare «i traditori della Serbia».
L’imbarazzante scenario manifestatosi al Tribunale dell’Aja, che dopo undici anni di processo non ha ancora emesso una condanna definitiva, ha reso sicuramente più forte l’immagine di Šešelj.
La stessa scarcerazione, avvenuta senza che lo stesso Šešelj, la Serbia o il governo Vučič lo richiedesse, è stata una decisione conseguenziale all’istanza di ricusazione del giudice Frederik Harhoff, allontanato per la sua presunta parzialità a favore della condanna. Tale decisione, presa motu proprio dalla stessa Corte, appare come il tentativo di evitare scenari di maggiore imbarazzo come nel caso di Slobodan Milošević, morto in carcere con una dinamica ancora poco chiara prima della presunta sentenza di colpevolezza.
Il ritorno dello storico leader nazionalista non sembra però turbare la leadership del Primo Ministro serbo che, aiutato anche dal silenzio di alcuni media nazionali, nell’intervista rilasciata alla storica agenzia di stampa nazionale Tanjug Tačno, non ha argomentato né sull’incapacità del Tribunale dell’Aja di emettere la sentenza né sulla passata guerra nell’ex territorio jugoslavo, argomento molto sentito da una buona parte del suo elettorato.
La preoccupazione che Šešelj possa soffiare su un’atmosfera adatta alla sua politica nazionalista, rinforzata da una personale immagine di eroe ingiustamente colpito dalla giustizia internazionale per il bene della nazione, rimane ancora evidente.
Inoltre, il ritorno di Šešelj coincide con una delle pagine politiche più delicate per Belgrado. Il governo Vučič ha promosso una serie di riforme strutturali all’interno del Paese e ha intrapreso una politica estera molto pragmatica che sta conducendo la Serbia ad agganciarsi alle strutture europee ed occidentali.
Oltre al continuo dialogo con Bruxelles, promosso per la definitiva entrata nell’Unione Europea, vi è anche l’imminente adesione all’Alleanza Atlantica prevista dal programma “NATO’s Partnership for Peace Program” di cui la Serbia è membro attivo.
Sulla scia di questa fase della politica estera dettata da Vučič e dal Presidente serbo Tomislav Nikolić, l’ex leader del Partito Radicale potrebbe giocare la sua personale vendetta.
È noto che i rapporti tra il nazionalismo incarnato da Šešelj e le politiche dell’Alleanza Atlantica non siano mai stati idilliaci fin dal biennio 1998-2000, quando il Partito Radicale ed il Partito Socialista di Milošević tornarono ad allearsi per difendere la sovranità della Repubblica Federale di Jugoslavia sulla provincia del Kosovo e Metohija opponendosi alle aggressioni della stessa NATO.
Dal movimento diŠešelj, oggi di fatto un piccolo partito extraparlamentare poco influente nella politica nazionale, potrebbe però ripartire una seria offensiva a quelle figure istituzionali, in primisNikolić e Vučič, che avevano accompagnato in lacrime all’Aja lo storico leader undici anni fa, giurandogli che sarebbero rimasti fedeli alla linea.
Anche i positivi risultati raggiunti da Vučič in politica interna si intrecciano con le pesanti accuse di Šešelj. Nonostante la Serbia sia divenuta la nuova meta di importanti investitori esteri, grazie anche al taglio dei privilegi ai manager dei consigli d’amministrazione di strategiche aziende e la nomina di nuovi vertici aziendali, la conclusione dell’autostrada Pristina-Ňis è la palese conferma di come Belgrado abbia accettato il piano di armonizzazione dei rapporti Serbia-Kosovo, voluto dall’Unione Europea come conditio sine qua non per l’entrata nella comunità dei Paesi membri.
Proprio la stessa città di Ňis rappresenta il crocevia e la contradditoria politica estera di Belgrado. Nella città vicina alla regione kosovara ed al confine bulgaro, è stata inaugurata una base umanitaria comune tra l’esercito serbo e quello russo in virtù del vigente accordo di cooperazione “Srem 2014” che, dopo la ratifica del 2010, integra sia la ricerca scientifico-militare condotta dal Technical Testing Center di Nikinci sia le esercitazioni congiunte dalle forze armate dei due Paesi, le prime dopo il crollo dell’Urss.
I pericoli derivanti dalla propaganda dell’Islamic State e i bellici scenari siriani, in cui Mosca è una dei pochi chiari sostenitori del Governo del Presidente Assad, conduce Serbia e Russia a tenere alto il livello di attenzione e di difesa militare in alcune province del Kosovo e nel Caucaso, in particolare in Cecenia e Daghestan.
L’impegno preso con l’Unione Europea, giuridicamente inquadrato nei negoziati di adesione, potrebbe condurre Vučič ad una dolorosa decisione; le forti relazioni bilaterali con il Presidente Putin potrebbero essere infatti dissolte a causa dei diktat di Bruxelles.
Il Commissario Europeo Johannes Hahn ha recentemente definito la Serbia un Paese sovrano nelle sue scelte ma, ha chiaramente aggiunto, che Belgrado ha l’obbligo di imporre le sanzioni alla Russia in linea con la politica dell’Unione Europea.
Il quasi novantenne tenente generale dell’Esercito Popolare Jugoslavo, Stevan Mirković, ha dichiarato che le operazioni militari con Mosca potrebbero essere solo l’inizio di un’intensa stagione di cooperazione militare, mentre sia il Ministro della Difesa, Bratislav Gašić, che quello degli Esteri, Ivica Dacic, hanno sottolineato la neutrale posizione militare di Belgrado e l’importanza dei rapporti economico-commerciali con Mosca in quanto partner storico, strategico e tradizionale.
Le decise affermazioni del commissario Hahn sembrano anticipare il terremoto politico scatenato dal gruppo di deputati croati al Parlamento Europeo e presso la stessa assemblea parlamentare di Zagabria.
L’eco delle manifestazioni per il ritorno di Vojislav Šešelj, hanno condotto dapprima il Parlamento croato ad esprimere piena insoddisfazione per il rilascio del leader nazionalistae poi, successivamente, il Parlamento Europeo a varare una risoluzione sebbene di poca importanza in quanto non vincolante.
Accusato di massacri di civili nella città di Vukovar in Croazia e di persecuzioni della minoranza croata nella regione serba di Vojvodina nel 1991, Šešelj è stato oggetto di discussione dell’intero gruppo croato di eurodeputati che, insieme al Ministro della Giustizia Orsat Miljenic, hanno affermato di voler condizionare l’avvicinamento della Serbia a Bruxelles qualora Vučič e gli sponenti del suo governo non prendessero le distanze dalle dichiarazioni del leader cetnico.
Le ultime pesanti accuse del Comitato civico per i Diritti Umani di Zagabria, che sostiene come tra Šešelj ed il Governo serbo vi sia un sostegno reciproco, hanno condottoVučič a condannare le parole del comitato croato e a definire «offensive ed inquietanti» quelle della risoluzione del Parlamento Europeo.
Ringraziando gli eurodeputati bulgari e la loro collega slovena Tanjia Fajon per aver provato a cambiare il testo della risoluzione a Bruxelles, sempreVučič ha affermato che «la politica di Seselj non esiste più in Serbia».
In questo spigoloso scenario politico per la Serbia ed suo il governo nazionale, il ritorno diŠešelj potrebbe anche rappresentare un semplice fuoco di paglia. Quello che appare certo è che, in ottica regionale, le prossime scelte del governo Vučič dovranno definire la posizione del Paese in politica estera: la collaborazione con Mosca o l’“indipendenza” promessa da Bruxelles.
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