Fonte: “London Review Blog”, 17.03.10

Nella foto: John Mearsheimer


Sulla scia del poco propizio viaggio, la scorsa settimana, del Vice Presidente Joe Biden in Israele, molti concorderanno con l’osservazione dell’ambasciatore israeliano Michael Oren che «i legami di Israele con gli Stati Uniti stanno conoscendo la loro peggiore crisi dal 1975 (…) una crisi di proporzioni storiche». Come tutte le crisi, anche questa alla fine se ne andrà. Tuttavia, questa aspra contesa ha delle implicazioni poco piacevoli per gli israeliani e i loro sostenitori americani.

In primo luogo, gli eventi della scorsa settimana hanno palesato come mai in passato che Israele rappresenta per gli USA un peso strategico, non la risorsa strategica a lungo decantata dalla lobby israeliana. Nello specifico, l’amministrazione Obama ha inequivocabilmente dichiarato che le politiche espansionistiche di Israele nei Territori Occupati, inclusa Gerusalemme Est, stanno creando seri danni agli interessi statunitensi nella regione.

Infatti, secondo quanto è stato riportato, Biden avrebbe privatamente detto al primo ministro israeliano Binyamin Netanyahu:

«Tutto questo sta iniziando a essere pericoloso per noi. Quello che state facendo qui mette a repentaglio la sicurezza delle nostre truppe che combattono in Iraq, Afghanistan e Pakistan; mette in pericolo noi e mette in pericolo la pace nella regione»

Se una tale considerazione iniziasse a risuonare fra il pubblico nordamericano, l’appoggio incondizionato allo Stato ebraico probabilmente si dissolverebbe.

Non appena le osservazioni di Biden sono state riportate dal giornale israeliano Yedioth Ahronoth, Mark Perry, un esperto del Medio Oriente con contatti eccellenti all’interno dell’esercito statunitense, ha descritto una riunione che ufficiali superiori alle dirette dipendenze del Generale David Petraeus, capo del Comando Centrale, hanno accordato il 16 gennaio all’Ammiraglio Michael Mullen, capo di Stato Maggiore Congiunto. Il succo del messaggio che Petraeus ha rivolto a Mullen, secondo Perry, è stato che «l’intransigenza israeliana verso il conflitto israelo-palestinese sta mettendo in pericolo la permanenza statunitense nella regione (…) e potrebbe costare vite americane» Apparentemente, Muller ha riportato questo messaggio alla Casa Bianca, dove ha avuto un impatto notevole sia sul presidente che sui suoi consiglieri capo. Il commento di Biden a Netanyahu sembra riflettere questo punto di vista.

I sostenitori di Israele negli Stati Uniti hanno a lungo difeso lo speciale rapporto che intercorre fra i due Paesi sulla base del fatto che i loro interessi sarebbero quasi gli stessi, e perciò avrebbe senso sostenere Israele indipendentemente da quale politica adotti. Gli eventi recenti hanno tuttavia dimostrato come ciò sia falso, cosa che rende difficile la difesa del rapporto speciale, soprattutto se metterà a rischio le vite dei soldati statunitensi.

Seconda cosa, l’amministrazione Obama è andata oltre la semplice espressione di disappunto nei confronti delle 1600 unità abitative di cui Israele ha annunciato la costruzione a Gerusalemme Est, subito dopo che Biden è atterrato all’Aeroporto Ben Gurion.

Secondo ciò che ha riportato la stampa, e che non ha trovato smentite, il segretario di Stato Hillary Clinton ha chiesto che Netanyahu revocasse la decisione governativa di appoggio alle costruzioni. Questa è una richiesta senza precedenti; gli Stati Uniti si sono spesso lamentati della costruzione di insediamenti, e Obama ha chiesto a Israele di fermarne temporaneamente la costruzione nel 2009, ma non ha mai chiesto a Israele di revocare un piano di costruzione che il governo aveva già approvato.

Israele di certo combatterà strenuamente contro la richiesta della Clinton, e lo stesso faranno i gruppi principali della lobby. Il governo di Netanyahu è pieno di oppositori inflessibili ad una soluzione “con due Stati”, molti dei quali credono anche che Gerusalemme Est sia una parte integrante di Israele, ed è difficile comprendere come la coalizione di Netanyahu potrebbe sopravvivere se egli accettasse di non costruire le 1600 unità abitative. Eppure anche Obama ha forti motivazioni per non recedere dalle proprie posizioni. Dopotutto, l’anno scorso aveva fatto un passo indietro quando Netanyahu si era rifiutato di bloccare la costruzione di insediamenti in tutti i Territori Occupati – inclusa Gerusalemme Est – e questa mancanza di spina dorsale gli è costata cara nel mondo arabo e musulmano. Cosa ancora più importante, ora sappiamo che il Presidente e i suoi luogotenenti credono che nuove costruzioni a Gerusalemme Est metterebbero in pericolo le vite di statunitensi, fatto che rende ancora più difficile prevedere come egli potrebbe tirarsi indietro senza subire contraccolpi politici.

Nondimeno, è difficile immaginare che l’amministrazione Obama si faccia coinvolgere in un serio scontro con Israele sul destino di quelle 1600 unità abitative, dato che la lobby esercita una straordinaria influenza dentro la Beltway, nei circoli di potere. Il presidente è anche poco incline, per temperamento, a prendere parte a scontri pubblici e ha così tanti altri problemi sul tavolo da non voler sicuramente andare a impantanarsi in una costosa lotta con Israele e i suoi sostenitori americani. Alla fine ci sarà probabilmente una disputa protratta ma silenziosa fra le due parti su quelle unità abitative e anche sulle molte altre che il governo di Netanyahu ha in programma di costruire a Gerusalemme Est. Questo continuo conflitto sarà un costante promemoria per gli Statunitensi che Israele e gli USA hanno degli interessi contrastanti su una questione molto importante.

La terza ragione per la quale questa crisi è così fastidiosa per Israele e la lobby è che costringe quest’ultima a schierarsi pubblicamente. Non c’è dubbio che quasi tutte le principali organizzazioni della lobby sosterranno Israele fino in fondo e incolperanno l’amministrazione Obama per la crisi. Questa tendenza a difendere Israele a prescindere si riflette nei recenti commenti di Abraham Foxman, capo della Lega Anti Diffamazione. Egli ha rilasciato un comunicato stampa sulla visita di Biden nel quale ha dichiarato di “essere scioccato e sbalordito dal tono dell’amministrazione e dal rimprovero pubblico a Israele sulla questione della futura edificazione a Gerusalemme”. È stata, ha detto, una reazione eccessiva e grossolana in merito a un punto di discordanza politica fra amici”. Egli avrà molto sostegno nelle settimane a venire dai suoi compagni intransigenti all’interno della lobby, che non perderanno occasione per difendere Israele e biasimare Obama e i suoi consiglieri.

Parteggiare per Israele contro gli Stati Uniti non era un grande problema qualche anno fa: si poteva fingere che gli interessi delle due nazioni fossero gli stessi, e il grande pubblico non sapeva molto su come la lobby israeliana operasse e su quanto influenzasse la realizzazione della politica statunitense nel Medio Oriente. Ma quei giorni sono svaniti, probabilmente per sempre. Ora è comune parlare della lobby nei principali media e quasi tutto coloro che prestano seria attenzione alla politica estera nordamericana comprendono – grazie principalmente a Internet – che la lobby è un gruppo con interessi particolarmente potenti.

Perciò, sarà difficile mascherare il fatto che la maggior parte dei gruppi pro-israeliani prendano le parti di Israele contro il presidente statunitense e difendano politiche che dei rispettati capi militari mettono apertamente in discussione. Questa è una situazione molto sgradevole in cui trovarsi per la lobby, poiché solleva dei dubbi legittimi su quanto essa abbia a cuore i migliori interessi statunitensi, o se si preoccupi di più degli interessi israeliani. Di nuovo, questo conta più che mai, perché figure chiave nell’amministrazione hanno lasciato intendere che Israele sta agendo con modalità che rendono la diplomazia statunitense più complicata che mai, e nel peggiore dei casi possono portare all’uccisione di americani.

La crisi si calmerà indubbiamente nelle prossime settimane. Stiamo già sentendo molte rassicurazioni retoriche dall’amministrazione e da Capitol Hill riguardo a “valori condivisi”, “legami indivisibili” e tutte le altre supposte virtù del rapporto speciale. E la lobby sta lavorando sodo minimizzando l’importanza della crisi. Ad esempio, il membro del Congresso Gary Ackerman, un fervente sostenitore di Israele, ha descritto i recenti eventi come una “mini crisi, ammesso che lo sia”. Michael Oren ora nega – abbastanza tardi nel gioco politico, potrei aggiungere – di aver mai detto che le relazioni fra Israele e gli Stati Uniti siano al loro livello più basso degli ultimi 35 anni. Egli sostiene che le sue dichiarazioni siano state “palesemente mal riportate”. E per dimostrare quanto la lobby possa essere orwelliana, i sostenitori di Israele stanno cercando di far passare l’idea che anche le parole di Biden sono state palesemente mal riportate e, infatti, egli non avrebbe mai detto a Netanyahu che le politiche israeliane stavano mettendo in pericolo le truppe americane.

Questo sforzo congiunto per riscrivere la storia e generare un sacco di lieti discorsi sulla “special relationship” aiuterà sicuramente ad attenuare la crisi in corso, ma ciò sarà solo un palliativo. In futuro ci saranno altre crisi, poiché una soluzione con due Stati è probabilmente impossibile a questo punto e “il grande Israele” finirà per fondarsi sulla segregazione razziale. Gli Stati Uniti non possono, tuttavia, sostenere un tale esito, in parte per le ragioni strategiche che sono state messe in luce dalla crisi attuale, ma anche perché l’apartheid è un sistema moralmente reprensibile che nessun statunitense rispettabile potrebbe mai accettare. A fronte dei valori che stanno alla loro base, come potrebbero gli Stati Uniti sostenere una relazioni speciale con uno Stato fondato sull’apartheid? In breve, l’importante stretta relazione dell’America con Israele adesso è nei guai, e la situazione potrà solo peggiorare.

(traduzione di Eleonora Peruccacci)

* John Mearsheimer, politologo statunitense (University of Chicago), è co-autore di The Israel Lobby and U.S. Foreign Policy.


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