Premessa
Sulle pagine di “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, sin dal primo manifestarsi del fenomeno “sovranista”, si è spesso fatto riferimento ai rischi ed alle trappole di una forma di sovranismo prefabbricata nei centri di potere d’Oltreoceano e nel loro avamposto sulle coste orientali del Mar Mediterraneo. (Non è un caso che Benjamin Netanyahu venga talvolta definito come il “padre putativo” dell’odierno sovranismo; e non è un caso il fatto che Israele sia membro onorario del cosiddetto “Gruppo di Visegrád”). Il “fenomeno” Matteo Salvini non è affatto estraneo a questa dinamica. Il Ministro dell’Interno del governo “giallo-verde”, indicato come il “leader del futuro” tanto dall’ideologo del trumpismo Steve Bannon quanto dal pensatore russo Aleksandr Dugin (che pare aver lasciato da parte la prospettiva geopolitica eurasiatista in nome di una lotta ideologica volta alla costruzione di una presunta “internazionale conservatrice”), ha costruito le sue fortune elettorali attraverso un “sapiente” utilizzo del tema dell’emergenza (migranti) ed attraverso l’identificazione di un “nemico” (l’UE o addirittura il Papato, colpevole, a prescindere da certa retorica proimmigrazione, di avere una visione geopolitica non allineata con l’Occidente). In termini schmittiani si potrebbe addirittura affermare che Salvini abbia ridato vigore al “politico” attraverso quel raggruppamento amico/nemico che del politico è il fondamento, riuscendo a segnare una linea di demarcazione tra il “Noi” e il “Loro”. Tuttavia, una cosa è la mera propaganda, un’altra è la realtà politica e geopolitica. E nella realtà politica e geopolitica Matteo Salvini, come dimostrato dal suo recente viaggio negli Stati Uniti (che si cercherà di analizzare nel dettaglio), appare per ciò che è: un agente degli interessi di Washington in Italia. Questa breve premessa non può che concludersi con la ulteriore constatazione del fatto che chiunque parli di sovranità (a prescindere dall’orientamento politico) senza fare riferimento alcuno alla pesante occupazione militare nordamericana a cui l’Italia è sottoposta ormai da decenni, nel migliore dei casi è molto ingenuo, nel peggiore è semplicemente un ingannatore.
Insipienza geopolitica o perseguimento di una progettualità esterna?
A scanso di equivoci, anche per smorzare gli entusiasmi di chi (come il sopra citato Aleksandr Dugin) si è autoconvinto che la Lega “salviniana” possa rappresentare uno strumento nella lotta contro il liberalismo (almeno nella sua versione globalista), si rende necessario far notare che questo partito è liberale nella sua stessa essenza: tanto sul piano politico quanto (soprattutto) su quello economico. Infatti, già in prossimità del suo primo viaggio negli USA, Matteo Salvini ebbe modo di dichiarare: “per noi la reaganomics resta un riferimento fondamentale sui temi delle tasse e della concorrenza. Il nostro riferimento è chi pensa ad un’economia di questo tipo”[1] (sic!).
Ora, esiste una corrente ben determinata di analisti politici e geopolitici (compresi veri o presunti eurasiatisti, di cui comunque non si vuole mettere in discussione la buona fede), che si presumeva vaccinata contro certi “inganni”, letteralmente folgorata dal “fenomeno Salvini” e pronta a giustificare con le argomentazioni più disparate (tattica, strategia, oppure “ingenuità geopolitica” e così via) qualsiasi atto o affermazione della guida leghista, comprese le improvvide dichiarazioni su Hezbollah (prontamente criticate dallo stesso comando italiano della Missione UNIFIL) rilasciate nel corso dell’ultimo viaggio di Salvini nell’entità sionista.
Chi scrive non ha mai creduto all’“ingenuità geopolitica”. L’ingenuità geopolitica non esiste. Può esistere, al contrario, una forma di insipienza determinata dal fatto che per decenni è stato impedito o ostacolato lo studio di questa disciplina da coloro i quali la applicavano per disegnare i propri schemi strategico-egemonici. Nonostante ciò, l’Italia stessa, per tutto il corso della cosiddetta “Prima Repubblica”, seppur nei limiti imposti dall’occupazione militare straniera, riuscì, grazie ad una classe politica decisamente più preparata dell’attuale, a ritagliarsi un ruolo di primo piano nell’area mediterranea e, addirittura, a stabilire rapporti più che amichevoli con l’Unione Sovietica.
La visione geopolitica di Matteo Salvini, però, non può essere bollata né come ingenua né tanto meno come “insipiente”. Semplicemente non è sua. È il più recente prodotto di un’idea strategica volta alla salvaguardia della “globalizzazione americana” contro le sfide del multipolarismo. E questo è né più né meno che il senso e l’obiettivo dello stesso trumpismo così come elaborato dal suo “ideologo” Steve Bannon[2].
Il viaggio a Washington
Le dichiarazioni del Ministro dell’Interno nel corso del suo recente viaggio a Washington sono la prova più evidente di quanto affermato sopra.
Qui Matteo Salvini, definito dal “Washington Post” come “the closest thing that Western Europe has to Trump”[3], in prima battuta ha avuto modo di affermare che “l’Italia deve tornare ad essere il primo partner degli USA in Europa”. L’Italia, ad onor del vero, non è mai stata il “primo partner” degli USA in Europa. Tuttavia, è stata a lungo il primo partner commerciale dell’Iran in Europa. Le ingenti perdite economiche subite dalla brusca interruzione di tale rapporto (causa sanzioni nordamericane), nonostante la retorica del “prima gli Italiani”, non sembrano affatto preoccupare il Ministro dell’Interno, che in più di un’occasione si è lasciato andare anche a sprezzanti accuse contro la Repubblica Islamica (uno dei pilastri portanti nella costruzione del multipolarismo). Proprio a Washington ha dichiarato: “nessuno nel 2019 si può permettere di voler cancellare uno Stato democratico come Israele (sic!) dalla terra; finché rimarrà questo sospetto non si potranno avere relazioni normali”.
Nei suoi incontri con il Vice Presidente Mike Pence e con il Segretario di Stato Mike Pompeo (recentemente recatosi all’incontro annuale del Club Bilderberg in compagnia del consigliere di Trump Jared Kushner), Salvini, dopo aver affermato il carattere “esistenziale” per l’Italia del rapporto con Donald J. Trump[4], ha richiesto l’aiuto nordamericano contro una possibile procedura di infrazione per indebitamento eccessivo da parte dell’UE. Siccome le principali agenzie di rating (voto di affidabilità) sono (non a caso) statunitensi, ciò dovrebbe garantire all’Italia un “ombrello protettivo” nel caso di pressione da parte di Bruxelles, e assicurare la fiducia dei mercati sul debito italiano[5]. Questo aiuto, ovviamente, andrebbe anche a vantaggio del nuovo corso nordamericano. Proprio Donald J. Trump, in più di una occasione, ha stigmatizzato l’UE come “nemico” (“foe”) degli Stati Uniti. Dichiarazioni estremamente forti, se si considera che l’UE, così come oggi è, è in larga parte un prodotto nordamericano. Ma è proprio per questo motivo che l’obiettivo trumpista, a prescindere da quelle che sono la retorica e le speranze dei nostrani “sovranisti senza sovranità”, non è il totale smantellamento della UE, ma, semplicemente, la riaffermazione del totale controllo nordamericano su di essa: progetto indispensabile per contenere l’evoluzione verso un ordine globale multipolare.
Nel caso italiano, l’insistenza delle forze politiche “atlantiste” (dalla Lega al Partito Democratico, fino a partiti minori come Fratelli d’Italia o il sorosiano Più Europa) sul progetto del TAV è in questo senso emblematica. Questa infrastruttura (per la cui realizzazione ha spinto anche il già citato Bannon nel corso delle sue numerose visite in Italia) rientra infatti nel progetto del Corridoio V, che da Lisbona arriva (guarda caso) a Kiev in Ucraina.
Ora, è noto che i corridoi paneuropei altro non sono che vere e proprie infrastrutture di guerra. Sin dalla loro prima progettazione, questi hanno attirato l’attenzione degli strateghi del Pentagono (Brzezinski in primo luogo), desiderosi di utilizzarli per un imporre uno stabile controllo egemonico sull’estremità occidentale del continente eurasiatico.
L’ostilità leghista nei confronti dell’adesione italiana (al momento ancora virtuale) al progetto infrastrutturale cinese della Nuova Via della Seta (che, se ben sfruttato, potrebbe restituire all’Italia un ruolo geopolitico di primo piano nel bacino mediterraneo) e l’enfasi riposta, al contrario, su un progetto economicamente inutile di oltre trent’anni fa, rendono bene l’idea di cosa realmente significhi il motto elettorale “prima gli Italiani”.
Proprio la Cina, e non, ad esempio, la mai mantenuta promessa trumpista di una “cabina di regia” congiunta USA-Italia sulla crisi libica, è stata l’argomento centrale degli incontri fra Matteo Salvini ed i vertici statunitensi. A questo proposito, il Ministro ha dichiarato: “Il business è business, ma fino a un certo punto. Bene la crescita delle aziende italiane all’estero, purché non ci siano intromissioni di Paesi non democratici nelle nostre infrastrutture fondamentali, dalla tecnologia all’energia alla comunicazione”[6].
La crescita dell’economia cinese, di fatto, più ancora della forza militare russa, rappresenta il vero e proprio motore del processo di transizione verso il multipolarismo. E le guerre commerciali trumpiste, ben lungi dal rappresentare una lotta contro le élites finanziarie globaliste, hanno precisamente l’obiettivo di bloccare tale transizione, o quanto meno di indirizzarla in modo da preservare agli USA un ruolo di dominio nel futuro ordine mondiale.
Tuttavia, è sul “dossier Russia” che la strategia di Salvini si accosta ancora di più alla dottrina geopolitica bannoniana. Ed è su questo punto che il “Capitano” potrebbe giocare un utile ruolo geopolitico in favore di Washington.
Già da tempo USA e Israele stanno disperatamente cercando di rompere l’asse Mosca-Teheran-Damasco. L’incontro trilaterale Russia-USA-Israele che si terrà a breve a Gerusalemme ha precisamente questo scopo; anche se i vertici russi hanno già fatto sapere che è comunque necessario rispettare gli interessi iraniani in Siria[7]. Ma la reale vittoria di Washington sarebbe spezzare l’asse Mosca-Pechino, riportando la Russia, come nell’infausta era Eltsin, a svolgere un ruolo subalterno all’Occidente a guida nordamericana.
Matteo Salvini, al pari di Steve Bannon (che ha rimodellato a vantaggio statunitense il concetto di “Eurosiberia” di Guillaume Faye), ha spesso lamentato il fatto che la Russia è stata allontanata dall’Occidente. Proprio a Washington ha affermato: “non regaliamo la potenza russa a Pechino”[8].
Un simile progetto di riavvicinamento, vista l’attuale intesa tra Cina e Russia (rivolta anche ad una progressiva dedollarizzazione degli scambi commerciali internazionali), sembra piuttosto lontano dal potersi avverare. Tuttavia non è detto che, una volta uscito di scena Vladimir Putin, Washington, attraverso un sapiente utilizzo di quegli agenti europei che si presentano a vario titolo come “amici della Russia”, non riesca, anche con lo sfruttamento della quinta colonna liberale interna alla Russia stessa, a distoglierla dal processo di creazione di un’Eurasia compatta, forte e realmente sovrana.
NOTE
[1]M. L. Andriola, Fra Washington e Mosca passando per Tel Aviv. La politica estera della Lega Nord, su Paginauno – bimestrale di analisi politica, cultura e letteratura, anno XI – numero 51, febbraio/marzo 2017.
[2]Si veda https://www.eurasia-rivista.com/steve-bannon-e-la-nuova-egemonia-americana/ e C. Mutti, L’Internazionale sovranista a difesa della “civiltà giudeo-cristiana”, “Eurasia” 3/2019 (luglio-settembre 2019).
[3]https://www.washingtonpost.com/gdpr-consent/-white-houses-next-foreign-visitor-matteo-salvini-the-closest-thing-western-europe-has-to-trump//
[4]http://www.atlanticoquotidiano.it/rubriche/altra-faccia-del-lunedi-salvini-a-washington-lintesa-con-trump-esistenziale-per-italia-e-lega/
[5]https://www.ilsussidiario.net/news/salvini-negli-usa-le-condizioni-di-trump-per-un-appoggio-contro-la-ue/
[6]https://formiche.net/2019/06/salvini-stelle-strisce-governo-pompeo/
[7]https://www.fort-russ.com/2019/06/moscow-syrias-stabilization-plan-should-include-irans-interests/
[8]https://formiche.net/2019/06/salvini-stelle-strisce-governo-pompeo/
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