1. Venerdì 23 settembre 2011 nella mitica “Sezione Trentanove” di Torino, luogo storico del comunismo critico torinese, Domenico Losurdo ha presentato e discusso il suo saggio su Stalin (Cfr. Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, Carocci, Roma 2008). Avrei voluto essere presente, ma non lo ero per (leggeri) motivi di salute. Un amico fraterno ma ha dettagliatamente riportato il giorno dopo l’esposizione e la discussione, e mi ha detto che Losurdo ha fatto ripetutamente il mio nome, chiarendo le nostre differenze di valutazione, particolarmente su due punti cruciali, la questione di Stalin e la questione della connotazione della natura sociale della Cina del 2011. Tutto questo merita un chiarimento ed un approfondimento, soprattutto per i lettori estranei alla disputa, che hanno però il diritto a precisazioni.
2. A suo tempo, ho letto con estrema attenzione il saggio di Losurdo, e anche saggi in qualche modo favorevoli alla figura di Stalin (Cfr. Gianni Rocca, Stalin, Mondadori, Milano 1988, ma soprattutto Ludo Martens, Stalin. Un altro punto di vista, Zambon, Bologna 2005). Colgo l’occasione per comunicare urbi et orbi che da almeno vent’anni (da quando è sciaguratamente crollata l’URSS, il cui ruolo geopolitico era provvidenziale – ed ora cominciano ad accorgersene persino coloro che non sono mai stati “comunisti”) ho modificato il mio punto di vista su Stalin.
In gioventù ho sostanzialmente condiviso la teoria trotzkista e trotzkisteggiante di Stalin non solo come dittatore sanguinario, ma anche come seppellitore della rivoluzione d’Ottobre e capo di una banda di burocrati corrotti, teoria che si univa a una interpretazione della rivoluzione culturale cinese (1966-1968) come casino anarcoide antiburocratico e libertario. Sciocchezze, è vero, ma purtroppo sciocchezze condivise da una parte importante della mia sventurata generazione. Ora però ho cambiato opinione. Meglio tardi che mai. Se Losurdo mi confonde con gli antistaliniani isterici, tipo la signora Rossanda o il signor Bertinotti, ebbene si sbaglia, ed è mio diritto chiarire le cose.
3. Mi spiace auto citarmi, ma sono costretto a farlo. Mi sono ampiamente occupato in passato della questione di Stalin (Cfr. Stalin tra comunismo e geopolitica, in “Eurasia”, 2/2005, pp. 117-137) e della questione dell’eredità politica di Mao in Cina (Cfr. Ritorno a Confucio?, in “Eurasia”, 1/2006, pp. 113-131).
Sono pressoché sicuro che Losurdo non conosce questi testi, perché la sinistra, in base a un pensiero “magico” (Kolakowski), silenzia, diffama ed esorcizza tutto quanto proviene da fonti non del tutto politicamente corrette. Del resto Losurdo è anche lui stato vittima di questo silenziamento magico-totemico-sciamanico, perché ci sono stati individui che hanno protestato per il semplice fatto che del suo libro si fosse “parlato”, sia pure criticamente, sul “Manifesto” e su “Liberazione”. Figuriamoci allora la rivista “Eurasia”!
Rimandando Losurdo alla lettura diretta di questi testi, mi trovo costretto a riassumerli “per difendere il mio onore”. Mi si critichi pure, ma mi si critichi per quanto ho detto, non in base al “sentito dire” caratteristico della sub-cultura pettegola e settaria di “sinistra”.
4. A mio avviso, Stalin si è trovato di fronte a dei compiti immani di costruzione di un sistema sociale alternativo al capitalismo, con una teoria (il marxismo non solo di Kautsky, ma anche di Lenin) assolutamente inapplicabile, e che si trattava allora non tanto di “applicare”, ma di “neutralizzare”, sia pure nella forma del dogmatismo pubblico e della abrogazione silenziosa.
Il “marxismo” si basava infatti su di una premessa del tutto mitica e inapplicabile, la teoria della capacità strategica di autogoverno politico “consiliare” e di autogestione economica “gestionale” diretta da parte della classe operaia e proletaria. Epistemologicamente parlando, si tratta di una teoria meno fondata scientificamente dello Spirito Santo. Stalin ha preso atto tacitamente di questa palese e manifesta incapacità “consiliare”, ed è allora passato “ad una neutralizzazione del marxismo, in quanto l’escatologia neoclassista del marxismo originario era incompatibile con la costruzione di un dispotismo egualitario del lavoro e con la costruzione di un impero territoriale eurasiatico ad un tempo ideologico e geopolitico.
La cosiddetta “sistematizzazione” scolastica del marxismo di Stalin (materialismo dialettico come metafisica atea della materia basata sul principio gnoseologico neokantiano del rispecchiamento, e materialismo storico come successione obbligata di cinque stadi della storia universale) è in realtà una indispensabile neutralizzazione. Si tratta di un punto teorico fondamentale che in genere sfugge sia agli staliniani che agli anti-staliniani, invischiati in un impossibile tentativo, di segno opposto ma convergente, di calcolare la vicinanza o la lontananza di Stalin da Marx (Cfr. “Eurasia”, 2/2005, p. 125).
5. Il mio giudizio storico su Stalin prescinde quindi completamente dal solito approccio della vicinanza a Marx (staliniani) o della lontananza da Marx (trotzkisti, luxemburghiani, bordighiani, comunisti dei consigli). Stalin non poteva applicare concretamente una teoria completamente inapplicabile (perché originariamente concepita da Marx a partire dai punti alti dello sviluppo capitalistico), e l’ha tacitamente abrogata neutralizzandola nella forma religiosa, probabilmente obbligata, della dogmatizzazione sacrale.
Al contrario, l’esempio del trotzkismo dimostra ad abundantiam che cosa vuol dire erigere la teoria di Marx in una “metafisica parallela” che non incontra mai la storia reale, ma solo la storia virtuale e fantasmatica. I trotzkisti hanno per sessant’anni invocato l’abbattimento dell’orribile burocrazia “staliniana”. Come ho già avuto modo di rilevare ina risposta al senatore Turigliatto , questo modo di vedere assomiglia a quello di chi distrugge le antiestetiche impalcature e i ponteggi che sorreggono un edificio per poterlo “contemplare” meglio, e si accorge troppo tardi che abbattute le impalcature antiestetiche l’intero edificio crolla, perché erano solo queste impalcature che lo tenevano in piedi (si veda la dissoluzione del comunismo storico novecentesco fra il 1985 e il 1992). So bene per esperienza trentennale che mettere un trotzkista di fronte alla fragilità della sua teoria, fondata su presupposti politici indimostrabili (il socialismo armonicamente perfetto senza burocrazia), è assolutamente impossibile. Tanto varrebbe tirare sangue da una rapa. Ma sono costretto a ribadire questa ovvietà.
6. Un problema interconnesso, ma da tenere ben distinto, è la questione “morale” dello stalinismo e della figura di Stalin. Se qualcuno mi ripeterà che la storia è fatta di ferro e di fuoco, e non c’entra nulla con la morale e con le “anime belle” (Hegel) gli risponderò che come professore di filosofia conosco benissimo almeno dieci versioni di questa teoria, ma mi permetto di non condividerla. Penso, in breve, che la morale sia un elemento “materiale” della riproduzione del consenso e della gramsciana “egemonia”. So bene che i tempi di Stalin furono tempi di ferro e di fuoco, ma da essi non si possono “dedurre” le fosse di Katyn, la pulizia etnica nei tre paesi baltici (poiché nessuna teoria “comunista” giustificava l’annessione alla Russia già zarista), l’annessione di Konigsberg alla Russia con il grottesco nome di Kaliningrad, eccetera.
Sull’ondata di processi 1936-1938 condivido addirittura la posizione di Ludo Martens: un delirio di estremismo di “estrema sinistra” che solo uno sciocco in buona fede (questa gliela concedo!) come Trotzki poteva pensare essere una svolta “a destra”.
Il mediocre Kruscev non avrebbe potuto inaugurare la svolta del 1956 (che in definitiva ha portato anche alla delegittimazione del 1991 e all’ubriacone Eltsin) se non ci fosse stata prima la distruzione del clima di libertà di pensiero necessaria come l’aria al socialismo. Nello stesso tempo ribadisco che non voglio essere confuso con i krusceviani in ritardo, con i Bertinotti, con i trotzkisti e con le rossande, che hanno contribuito da “sinistra” alla demonizzazione animistica di Stalin. Il discorso sarebbe appena cominciato, ma chi lo vuole approfondire è invitato a leggere il mio saggio uscito su “Eurasia”, 2/2005.
7. Passando alla questione della Cina, bisogna subito uscire dalla sfera che Hegel chiamava dell’“opinare”. Che Preve opini che la Cina non sia socialista, e che Losurdo invece opini che lo sia, non è affatto rilevante per una discussione seria. Ciò che conta è esplicitare i criteri in base ai quali si danno questi giudizi, e soprattutto sottoporre questi criteri a una discussione che non può essere puramente “identitaria”, che connota cioè un particolare gruppo di riferimento. Sono scettico sul fatto che questo possa avvenire in un ambiente settario e identitario come quello dell’estrema sinistra, disabituato da decenni a una libera discussione sui principi. Ma si può sempre provare.
8. Bisogna soprattutto evitare che si abbandoni il terreno dei concetti marxiani di “modo di produzione” e di “formazione economico-sociale” e si adotti il principio pirandelliano del “così è se vi pare”. E’ questo appunto il terreno dell’hegeliano “opinare”. Prendiamo ad esempio un recente testo paradigmatico che difende la teoria della natura socialista della Cina (Cfr. Il ruggito del dragone, a cura di Roberto Sidoli e Massimo Leoni, con prefazione di Domenico Losurdo, Ed. Aurora, Milano 2011). Da esso si ricavano molti dati interessanti, ma nessun elemento teorico che ci possa aiutare a risolvere la questione.
Si afferma che in Cina è in corso una “lunga marcia verso la prosperità”. Non ne dubito. Sono d’accordo che non importa praticamente che un gatto sia rosso o nero, purché prenda i topi, ma questo saggio detto non contribuisce a chiarire la natura sociale della Cina di oggi. Si parla di diaspora cinese (Casati), di scontro sulle terre rare (Giannuli), della Cina che è oggi al centro del mondo (Ricaldone). Tutto giusto, la sola cosa che manca è una riflessione ispirata alla teoria di Marx. Ora, non dico che essa sia necessaria, anzi forse è fuorviante. Ma allora bisogna dirlo, e non dichiararsi contemporaneamente “comunisti” e ammiratori del “sorpasso” Cina-Stati Uniti. Anche Giovanni Arrighi, nel suo prezioso studio sulla successione dei cicli di accumulazione Genova-Olanda-Inghilterra-USA- Cina (Adam Smith a Pechino), dice cose molto simili, ma non si sogna neppure di parlare di modello socialista che vince contro un modello capitalistico.
Il libro suggerisce che l’elemento principale per connotare la Cina come “nazione sovrana di matrice prevalentemente socialista” sta nella preponderanza macroeconomica della proprietà statale e cooperativa su quella privata. Ma se è così, bisogna avere il coraggio di dire che Lassalle ha avuto ragione contro Marx. Niente in contrario, ma lo si dica. Se il socialismo è l’IRI scritto in ideogrammi cinesi va bene. Nella sua introduzione Losurdo parla di un suo viaggio in Cina (immagino omaggiato come insigne ospite straniero) e parla di benessere ovunque visibile. Ci credo, anche se di tanto in tanto leggiamo di rivolte contadine e operaie, ma anche i visitatori degli USA di un tempo dicevano questo.
9. Sono imbarazzato nel dire questo, perché io sono un amico quasi incondizionato della Cina e del suo ruolo economico e geopolitico, non sono più un ammiratore della rivoluzione culturale e della “banda dei quattro” (lo sono stato, lo riconosco, ma mi sbagliavo e faccio ammenda), e non condivido per nulla gli indipendentismi uiguro e tibetano supportati dalla CIA. Semplicemente, penso in breve che essere amici della Cina e rispettosi della sua evoluzione sociale interna non abbia nessun bisogno di un inutile e rituale “francobollo” socialista applicatogli sopra. La Cina è già meravigliosa geopoliticamente. Perché aggiungergli anche un francobollo “socialista”, se non per essere ufficialmente “riconosciuti” dai suoi dirigenti?
10. Sunteggerò ora brevemente il mio impegnato saggio su “Eurasia”, 1/2006. La Cina proviene da un modo di produzione asiatico, e quindi non le sono applicabili le categorie socio-politiche occidentali, che invece si sono sviluppate attraverso il processo schiavismo-feudalesimo-capitalismo fino ad oggi. Ogni sovrapposizione di categorie nate per capire la Grecia, Roma, il medioevo, lo stato assolutistico moderno, l’illuminismo, eccetera, è fuorviante. Filosoficamente parlando (p. 113), l’oggetto storico tradizionale della filosofia cinese non è mai stata la verità (teorica), ma l’armonia (pratica). Platone non è quindi sovrapponibile a Confucio. L’impostazione maoista della teoria della contraddizione (l’uno si divide sempre in due) risale a una bimillenaria tradizione anti-confuciana, prevalentemente legista e taoista. Sono in questo debitore del mio amico sinologo tedesco (orientale) Ralf Moritz. Dopo la morte di Mao, che fu certamente ostile a Confucio (pensiamo alla campagna contro Confucio-Lin Piao), il ritorno a Confucio segnala la messa al primo posto della “ricerca dell’armonia” dopo gli sconvolgimenti del trentennio 1946-1976.
Personalmente, vedo questo molto di buon occhio. Non ho mai concepito il socialismo alla Sartre (rivoluzione permanente dei gruppi-in-fusione contro il pratico-inerte in preda al parossismo della finalità-progetto), ma l’ho sempre concepito alla Lukacs (stabilizzazione di una vita quotidiana non nel senso di Bakunin, ma di Aristotele e di Hegel). Quindi non ho obiezioni. Ma non vedo perché lo sviluppo capitalistico della Cina, sia pure con la benefica presenza di un controllo statale macroeconomico che i dissidenti filo-americani incoscienti vorrebbero abolire, debba essere tout court connotato come il socialismo del XXI secolo. Se lo si vuol connotare come una benefica correzione di rotta rispetto all’estremismo di tipo staliniano e/o trotzkista sono d’accordo. Ma penso che da noi, in Italia e in Occidente, non abbia più senso ricadere nello “stato-guida”, anche solo simbolico senza più Komintern e Cominform, ma sia molto più utile riprendere una discussione sensata sul socialismo, impossibile finché questa discussione ci sarà “sequestrata” dal jet-set di sinistra tipo “Manifesto”, “Liberazione” e altri giornaletti sedimentati dalla tradizione anarcoide del Sessantotto.
Ma questa è un’altra storia. La vera storia.
* Costanzo Preve, filosofo e studioso del marxismo, è frequente contributore a “Eurasia”
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