Nonostante l’ultimo accordo del 9 maggio scorso, nel Sud Sudan continua – come era prevedibile – la spirale di violenza. La popolazione seguita a scappare dalle città e la speranza sembra essersi infranta su uno spesso muro di interessi (nazionali e internazionali), particolarismi e constrasti. Quale potrebbe essere il cambiamento possibile? E cosa potrebbe concretamente fare la comunità internazionale per provare ad incanalare il giovane Paese verso un binario che lo conduca alla pace?
Il nove maggio scorso si era accesa una nuova flebile speranza sui cieli del giovane Stato del Sud Sudan. I due leader delle fazioni in lotta, il presidente Salva Kiir e il suo ex vice Riek Machar (oggi alla guida dei ribelli) avevano infatti sottoscritto un impegno per la cessazione delle ostilità. L’accordo, sottoscritto ad Addis Abeba, alla presenza del premier etiope, Hailemariam Desalegn, sottolineava che “un governo di transizione offre le migliori possibilità per il popolo del Sud Sudan” in vista di prossime elezioni, la cui data non è stata però specificata. Inoltre si auspicava “l’apertura di corridoi umanitari e la cooperazione con le agenzie e l’Onu per garantire gli aiuti in tutte le zone del Paese”.
La luce della speranza si è però subito spenta visto che a più di un mese dall’accordo di tregua, i fucili non hanno mai smesso di sparare mentre la popolazione continua a fuggire dai combattimenti. Il numero degli sfollati interni è aumentato di 46mila persone arrivando a 1.005.096. Nello stesso periodo, il numero di rifugiati sud sudanesi in Etiopia, Kenya, Sudan e Uganda è salito di oltre 20.000 persone raggiungendo quota 370mila.
Attualmente è l’Etiopia a ospitare la maggiore concentrazione di rifugiati sud-sudanesi (ben 131.051), prevalentemente donne e bambini. I nuovi arrivati riferiscono di essere fuggiti dai combattimenti che imperversano negli Stati confinanti di Jonglei e dell’Alto Nilo e in quest’ultimo, in particolare, nell’area di Mathiang nella contea di Longechuk. Le persone provenienti da altre zone hanno dichiarato di temere attacchi imminenti o una situazione di insicurezza alimentare.
C’è dunque una grave crisi umanitaria che rischia di far precipitare il Paese in una nuova guerra civile.
Durante una visita ufficiale ai primi di aprile a Juba, l’Alto commisario Onu per i diritti umani, Navy Pillay, ha denunciato i gravi crimini di guerra commessi dai ribelli e dai soldati governativi. Secondo Pillay, oltre 9.000 bambini combattono tra le fila delle due formazioni in campo che si affrontano da metà dicembre. Per di più, circa 32 scuole sono nelle mani delle truppe dei due schieramenti e numerose donne e ragazze sono state violentate o rapite. L’Alto commissario ha inoltre affermato che i leader di entrambe le parti sono indifferenti al rischio di carestia che minaccia il Paese. Pillay, che ha incontrato il presidente Salva Kiir e il suo ex vicepresidente Riek Machar, si è detta “inorridita” da questa indifferenza. “La prospettiva di infliggere la fame e la malnutrizione su larga scala a centinaia di migliaia di loro concittadini non sembra toccarli in modo particolare” – ha denunciato. Preoccupazione è stata espressa anche dal consigliere speciale dell’Onu per la prevenzione dei genocidi, Adama Dieng, che ha affermato che l’Onu non permetterà che un genocidio come quello avvenuto in Ruanda nel 1994 si ripeta in Sud Sudan.
“L’incitamento all’odio” e le uccisioni per “motivi etnici” in Sud Sudan fanno temere che “questo conflitto sfoci in una grave spirale di violenza fuori controllo“. A sua volta, il segretario Ban Ki-moon ha affermato che “farà in modo che ciò che è successo in Ruanda non accadrà mai più su questo continente“.
Affermazioni che lasciano il tempo che trovano. La realtà è un’altra. L’Occidente, guidato dagli Stati Uniti, ha premuto per la creazione del Sud Sudan, ricco di petrolio, quando non ce n’erano i presupposti. E ora la comunità internazionale si trova a fronteggiare un nuovo conflitto civile in Africa.
Per meglio comprendere il quadro devastante di questo giovane Paese, è essenziale fare un passo indietro, estraendo dal fango della guerra le ragioni della sua attuale destabilizzazione.
Il Sud Sudan è nato il 9 luglio del 2011. Un’indipendenza sofferta, che ha lasciato molte questioni aperte: non solo i punti “caldi” con il vicino di casa – il Sudan – ma anche quelli “vitali” per promuovere reali prospettive di pace, sicurezza, sviluppo e democrazia nel Paese.
Per tanto tempo, l’attenzione del governo di Juba si è concentrata sul contenzioso con Khartoum: Abyei e la ripartizione dei proventi petroliferi nelle altre zone contese. E mentre si discuteva di “oro nero”, raffinerie, oleodotti, si trascuravano i reali problemi del Paese, come la povertà e l’emergenza umanitaria. Così, non ci è voluto molto tempo prima che la corda si spezzasse.
Oggi, l’economia del Paese è ad un passo dal collasso e il rischio di una nuova guerra civile dietro l’angolo.
Prossimo al fallimento, il Paese non ha altra scelta che rivedere le sue priorità politiche, economiche e sociali in una prospettiva di medio-lungo periodo. Ci sono tante cose da fare, come ad esempio concentrare più risorse nelle spese sociali. Oggi penalizzate da politiche di rigore e dall’assoluta priorità data alla politica di sicurezza e difesa. Oppure coinvolgere in maniera più attiva le principali parti sociali nei processi decisionali, rafforzando il processo di decentramento. E ancora porre maggiore attenzione al principio di sostenibilità ambientale che deve attraversare le diverse politiche di sviluppo (da quella oggi prioritaria legata al petrolio, a quella agricola – legata alla gestione delle risorse scarse come l’acqua e i suoli fertili, industriale e dei trasporti). In assenza di tale impegno, il rischio è che a pagare siano anzitutto le fasce più vulnerabili della popolazione: donne, bambini, migranti e popolazioni dedite alla pastorizia.
Ma quali possono essere le prospettive per un futuro più roseo per il Sud Sudan?
L’Africa Growth Initiative (AGI) della Brookings Institution ha recentemente promosso una discussione sul tema, avanzando una serie di priorità da considerare per l’immediato futuro (1) .
In un Paese in cui meno di 400 bambine all’anno completano la scuola secondaria, è necessario un grande sforzo (la “grande spinta”) sul fronte dell’investimento socio-sanitario, oltre che economico: si tratta di dare risposte immediate al fabbisogno non soltanto di infrastrutture fisiche, ma anche sociali. Secondo i dati 2011 dell’UNESCO, c’è un solo insegnante qualificato ogni 117 studenti, mancano aule e libri scolastici e non investire – da parte del governo ma anche con la cooperazione allo sviluppo – significa perdere una generazione, indipendentemente dalla ricostruzione post-bellica. L’alfabetizzazione e l’istruzione sono strumenti nelle mani del popolo per la sua emancipazione. Spesso, i regimi africani e non solo vedono nell’ignoranza delle masse lo strumento privilegiato del loro potere.
Secondo il piano di sviluppo del 2011-2013 (South Sudan Development Plan 2011–2013), nel 2011 ben il 28% del bilancio pubblico è stato allocato alla sicurezza, contro il 4% alla sanità e il 7% all’istruzione. Nel 2012 – a seguito delle misure di austerità – sicurezza e difesa dovrebbero arrivare a pesare per il 50% del totale, mentre salute e istruzione scendere rispettivamente al 2 e al 5% del bilancio, come pure perde priorità l’impegno, invece strategico, per la finanza locale e il decentramento.
La comunità internazionale ha più volte sollecitato il governo di Juba a investire i proventi del petrolio nello sviluppo sociale ed ambientale. Alla fine del 2011, il presidente del Sudan meridionale, Salva Kiir Mayardit, aveva addirittura annunciato l’imminente adesione del Paese, su base volontaria, all’iniziativa internazionale per una maggiore trasparenza e responsabilizzazione in materia di gestione dei proventi petroliferi, l’EITI (Extractive Industries Transparency Initiative) promossa in particolare da Tony Blair a inizio degli anni Duemila. Nell’aprile 2012, però, il parlamento di Juba votò contro la trasparenza e l’accesso pubblico alle informazioni relative ad appalti e contratti petroliferi.
La corruzione è un grave problema, ma non c’è alcuna volontà a porne un freno. Né da parte delle autorità sud-sudanesi, che si intascano le mazzette delle multinazionali, né da parte dei Paesi occidentali, che usufruiscono e comprano a prezzi irrisori il greggio.
In particolare, in Sud Sudan si gioca la partita tra Stati Uniti e Cina, in competizione per la spartizione del continente nero. Pechino è in vantaggio, Washington arranca e cerca di oltrepassare l’avversario con sgambetti e quant’altro. La Cina assicura al governo di Juba l’ 80% delle esportazioni di greggio, quantità considerata vitale per lo sviluppo industriale ed economico dell’ “Impero di mezzo” e per il sostegno finanziario del governo africano. Le esportazioni di petrolio rappresentano il 97% delle entrate sud sudanesi.
Gli sforzi fino ad ora attuati da Pechino per assumere il ruolo di mediatore tra le parti in conflitto sono stati sistematicamente neutralizzati dalla diplomazia occidentale, in primis quella nordamericana, con il chiaro intento di spazzar via la l’Impero d’Oriente da questo importante Paese produttore di petrolio. Pechino all’epoca pensava di replicare i successi ottenuti grazie alla mediazione svolta nel 2012 tra Sudan e Sud Sudan che aveva riappacificato i due Paesi ed evitato l’ennesimo conflitto.
Oltre al problema della corruzione e della cattiva gestione dei proventi del petrolio, il Sudan meridionale soffre di un altro male: lo spinoso problema del “land grabbing” (la corsa all’accaparramento di terre in Africa). La competizione per le risorse naturali è stata tra le cause principali delle guerre civili e della destabilizzazione in Africa e oggi, nel Sudan del Sud, è molto semplice ed economico per investitori stranieri ottenere in concessione per 99 anni larghi appezzamenti di terra per l’agri-business, mentre mancano politiche di diversificazione in campo agricolo, come è stato recentemente evidenziato da rapporti e articoli.
Un altro nodo da sciogliere affinché il Sud Sudan possa finalmente imboccare la strada dello sviluppo riguarda la scelta della forma di Stato che meglio interpreta e sintetizza le svariate anime presenti nel paese. In poche parole, è meglio andare verso uno Stato Federale o Unitario?
Su questo punto, per esempio, Lo Stato dell’Equatoria, parzialmente intaccato dal conflitto, ha lanciato una proposta federalistica sottoponendo al IGAD (Intergovernamental Authority on Development) un documento intitolato: Equatorians’ Position on the Ongoing Peace Talks (La posizione dell’ Equatoria sui colloqui di pace in corso).(2) La proposta, preparata il 24 maggio scorso con il pieno supporto del clero cattolico sud sudanese, prevede la trasformazione della Repubblica del Sud Sudan in una Federazione di Stati in cui il governo manterrebbe il controllo delle finanze, difesa, sicurezza, alta corte di giustizia e affari esteri, mentre i vari Stati gestirebbero le risorse naturali, con pieni poteri decisionali nella amministrazione pubblica, settore giudiziario, polizia, telecomunicazioni e posta indipendenti. Il 40% delle entrate sarebbe destinato a Juba per il funzionamento del governo federale.
La proposta è stata ripresa dal leader della ribellione, Riek Machar, durante un incontro con il presidente keniota Uhuru Kenyatta, avvenuto a Nairobi il 28 maggio scorso. Durante l’incontro Machar ha presentato la proposta federalistica dello Stato di Equatoria proponendo che il governo transitorio lavori per la sua realizzazione. L’ex vice presidente si è dichiarato disposto a non partecipare al governo transitorio a condizione che questo sia composto da una larga intesa creata dalle varie realtà sud sudanesi e che a Salva Kiir sia vietato di ripresentarsi alle elezioni del 2015. Tralasciando le strumentalizzazioni più o meno evidenti intorno a questo tema, è innegabile che la questione resta apertissima. Senza ombra di dubbio pesano posizioni ostili alla concessione di ampi spazi di potere ai governi locali, come quelli auspicati dalla Costituzione transitoria, in nome della coesione e del freno alla competizione tra Stati e della contrapposizione tra Stati ricchi e poveri. Occorre ricordare, tuttavia, come le esperienze concrete di Stati unitari nel continente africano siano spesso state poco edificanti, laddove hanno favorito centralismo e corruzione. Lo scandalo finanziario che ha coinvolto il rappresentante del governo di Juba per i negoziati di pace Nhial Deng Nhial e Bol Kornelio Koryom Mayik, il figlio del Governatore della Banca Centrale Kornelio Koryom Mayik, ne è un vivido esempio. (3)
La truffa – realizzata dal 2008 al 2011 – riguarda l’acquisto di camion e attrezzature logistiche per l’esercito sud sudanese e ammonta a 227 milioni di dollari. I costi originariamente proposti da una ditta russa di cui il nome rimane ancora protetto dalle indagini avrebbero subito un aumento del 185% assicurando un profitto di 205 milioni di dollari a Nhial che all’epoca ricopriva il ruolo di Ministro della Difesa. Altri 22 milioni di dollari sono finiti in conti bancari offshore del figlio del governatore della Banca Centrale, in qualità di provvigioni.
La sfida di fronte al Paese è quella della costruzione di uno Stato unitario che sia fondato sulla partecipazione attiva della popolazione, che significa riconoscere spazi di potere al decentramento politico-amministrativo e finanziario, e stabilire rapporti di buon vicinato con il Sudan ma anche promuovere processi di integrazione regionale. E, soprattutto, rivendicare la propria sovranità, emancipandosi dal giogo degli Stati Uniti che hanno tutto l’interesse di mantenere il Paese destabilizzato e debole.
*Antonio Coviello, laureando in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha cominciato la sua avventura giornalistica collaborando con La Nuova Basilicata. Ha scritto per alcune testate on line e cartacee occupandosi in particolar modo di politica interna ed estera. E’ appassionato di storia araba e di relazioni internazionali.
NOTE
1) Osservatorio di politica internazionale “Il Sudan Meridionale ad un anno dall’Indipendenza” n.64, ottobre 2012
2) http://www.lindro.it/politica/2014-06-04/131002-sud-sudan-la-proposta-federalista
3) http://www.lindro.it/politica/2014-06-16/132109-sud-sudan-tra-scandali-finanziari-e-diserzioni
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