Quando Desmond Tutu, arcivescovo anglicano di Cape Town, coniò l’espressione Rainbow Nation – utilizzando una famosa metafora veterotestamentaria – pensava senz’altro all’eterogeneità etnica del Sudafrica post-apartheid. La realtà dei bantustan era ancora fresca e presentificava le difficoltà politiche che si sarebbero incontrate nella ricostruzione di quella che sarebbe diventata la Repubblica Sudafricana. La separazione dei gruppi etnici bantu – i colori dell’arcobaleno, per restare nella metafora – doveva essere superata, e per questo il riordino amministrativo del territorio e la pacificazione interetnica furono le priorità riformistiche del primo governo nero della storia sudafricana, ovvero quello diretto dallo xhosa Nelson Mandela.
I violenti scontri tra gli Zulu di Re Zwelithini e di Mangosuthu Buthelezi e gli Xhosa dell’ANC (African National Congress), avvenuti all’indomani della liberazione del capo sudafricano, suggeriscono precisamente quanto sia stato complesso riequilibrare l’assetto politico e governativo in un paese in cui l’aspetto etnico può giocare un ruolo determinante. L’istituzione della provincia di tipo monarchico di Kwazulu-Natal, che fu la naturale soluzione ad una disputa piuttosto pericolosa in termini di sicurezza interna, non soddisfò la pretesa di potere dell’Inkatha Freedom Party di Buthelezi, né la pretesa di essere l’unico interlocutore di De Klerk nel processo di ricostruzione nazionale, ma almeno tirò fuori dall’impasse il neonato governo.
La grande presenza di politici xhosa nei diversi governi successivi è stata motivo di delusione e di tensione sia tra gli afrikaner sia tra gli zulu (gli zulu sono il maggior gruppo etnico del paese, il 23% della popolazione, seguiti proprio dagli xhosa con il 18%). Del resto, sebbene nell’Assemblea Nazionale, che insieme al Consiglio Nazionale delle Province forma il Parlamento, siano presenti, grazie al sistema proporzionale senza sbarramento, anche i rappresentanti delle etnie minori, la predominanza nei posti di potere degli Xhosa è stata ed è ancora piuttosto forte. Lo stesso successore di Mandela, Thoba Mbeki, è nato nella Eastern Cape Province (Mpuma-Koloni in lingua ixhosa), patria storica del gruppo etnico.
Nel 2008 la dualità viene allo scoperto anche nel più grande partito nazionale. Nell’allontanamento dell’allora vicepresidente Jacob Zuma in seguito alle pesanti accuse (poi rivelatesi infondate) di corruzione da parte di Mbeki si manifesta la reale presenza di correnti nell’ANC, evidenziata soprattutto dall’esito della 52a Conferenza Nazionale dell’African National Congress del dicembre dell’anno precedente, che portò alla presidenza del partito Zuma e che pose le basi per la scissione di una parte dell’ANC, con la successiva formazione del COPE (Congress of the People). La netta presa di posizione di Mbeki è stata letta da molti come l’inevitabile prodotto di una ferita non rimarginabile all’interno dell’ANC, la quale ha radici non solo politiche, e che è riconducibile più in generale ad una rivalità storica di carattere etnico. Zuma è infatti originario dell’ex Zululand (ora Kwazulu-Natal), e nel 2009 è diventato il primo presidente sudafricano di etnia zulu.
Oltre all’inimicizia tra Zulu e Xhosa, perpetuata dalla necessità politica di scegliere un leader, il panorama politico sudafricano presenta un altro conflitto storicamente determinato. Gli Afrikaner di origine boera che ancora si oppongono alla fine del regime di apartheid, seppure il loro peso politico sia stato decisamente ridimensionato dopo l’estensione del voto ai neri, hanno prodotto in questi anni un’opposizione spesso violenta, rivendicando costantemente l’autodeterminazione e la creazione di una nazione autonoma, il Boerestaat, da costruirsi sul modello delle repubbliche boere di inizio secolo scorso. Il diritto ad avere un territorio sulla scorta di un presunto concetto biblico – da notare che anche qui si fa riferimento al testo sacro – è un caposaldo dell’Afrikaner Weerstandsbeweging (Movimento di Resistenza Afrikaner), movimento fondato nel 1973 da Eugéne Terre’Blanche. La dichiarata e spiccata ispirazione all’idea di una supremazia dei bianchi e la strenua (ma vana) opposizione alla fine della segregazione razziale dànno la cifra di un contesto sociale e politico di difficile assimilazione. Fondarsi sul rifiuto di quella che la maggioranza dei sudafricani considera una conquista fondamentale ha i suoi dannosi effetti nel già difficile rapporto tra bianchi e neri, e certamente non favorisce l’ingresso di politici afrikaner in ruoli governativi di un certo rilievo.
A questo proposito, Peter Mulder, segretario del Vryheidsfront Plus (in italiano Fronte della Libertà Più), ha costantemente affermato il proprio diniego ai principi della democrazia rappresentativa. Questo spirito antidemocratico si fonda sul fatto che questo tipo di democrazia, specialmente in uno stato multietnico come quello sudafricano, favorirebbe i gruppi maggioritari a scapito delle minoranze, le quali non avrebbero così alcuna voce politica in capitolo. Il VF+ nasce nel 1993 in concomitanza con la fine del regime di apartheid, e trova l’appoggio dell’Inkatha Freedom Party di Buthelezi grazie ai coincidenti interessi relativi all’autodeterminazione, oltre che alla storica rivalità tra Xhosa e Zulu. I modesti risultati elettorali degli ultimi anni indicano chiaramente l’emarginazione dalla sfera politica ufficiale dei fronti nazionalisti, lo 0,9% del 2004 e l’1% del 2006 stanno ad indicare chiaramente la disaffezione per certi temi anche da parte degli Afrikaner – dato che si fa evidente se si considera che essi sono il 13% della popolazione totale.
L’omicidio di Eugéne Terre’Blanche, avvenuto il 3 aprile scorso, sembra però riaprire un antico discorso, sembra rinfocolare i malumori dei militanti dell’AWB e rischia di scatenare un’escalation di violenze. Andre Visagie, segretario generale del movimento, ha dapprima invitato i suoi a mantenere la calma, poi ha sfiorato la rissa televisiva su un’emittente sudafricana. Mentre il presidente Zuma ha tentato di rassicurare gli Afrikaner sul trattamento che riserverà loro il governo in carica, le promesse di vendetta dei militanti dell’AWB vanno nella direzione opposta. A poco più di un mese dall’inizio dei mondiali di calcio le tensioni razziali aumentano pericolosamente, e niente lascia intendere che siano destinate a smorzarsi nel breve periodo.
Per riprendere la metafora biblica dell’arcivescovo Tutu, si può dire che la Rainbow Nation, questa “nazione arcobaleno” sognata nell’immediato post-apartheid, è oggi forse più ideale che reale. La realtà lascia intendere che i dissidi tra Zulu e Xhosa continueranno ad esistere, anche in seno ad un grande partito come l’ANC. La realtà dice che i singoli colori dell’arcobaleno (presenti anche nella bandiera sudafricana), rappresentanti le diverse etnie del paese, siano ancora la manifestazione di una differenza cromatica più che di un cromatismo unificatore. Ma quella stessa realtà dice anche che, a sedici anni dalla fine della segregazione razziale, il Sudafrica ha festeggiato il suo Freedom day e si appresta ad ospitare l’evento sportivo dell’anno, un evento che nei primi anni novanta non sarebbe stato possibile. Come ha avuto modo di sostenere Athol Trollip, membro della Democratic Alliance, durante le celebrazione della Giornata della Libertà «occorre proteggere il Sudafrica dalla degenerazione dei conflitti interetnici», occorre preservare la convivenza pacifica in una Repubblica che ha fatto della lotta alla discriminazione razziale il suo motivo fondante, soprattutto perché, come abbiamo visto, gli equilibri su cui si regge una società come quella sudafricana hanno bisogno di scelte politiche coraggiose e capaci, se non di costruire, almeno di non disgregare quell’identità simbolica tanto discussa dalla retorica del rainbownismo sudafricano.
* Roberto Sassi è laureando in Teorie e pratiche dell’antropologia (Università La Sapienza di Roma)
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