L’innovativo assetto strategico turco messo a punto negli ultimi dieci anni dal governo Erdoğan rischia di collassare sotto i colpi della destabilizzazione nell’area afro-asiatica. Gli avvenimenti dell’ultimo anno e mezzo hanno profondamente incrinato quelli che sino ad allora erano capisaldi della nuova politica estera di Ankara, basata sul concetto di “profondità strategica” in opposizione all’isolazionismo dell’era bipolare. Il caos in Siria rappresenta in particolare un banco di prova fondamentale per la dirigenza turca, chiamata a gestire in prima linea una situazione di grave e reale pericolo ai suoi confini.
Negli ultimi diciotto mesi di avvenimenti vicino-orientali abbiamo assistito ad un considerevole sconvolgimento del riassetto geopolitico turco messo in atto, nell’ultima decade, dal governo a guida AKP (Adalet ve Kalkınma Partisi) di Recep Tayyip Erdoğan, ed in particolare dal teorico della “profondità strategica” Ahmet Davutoğlu, ministro degli Esteri di Ankara. La fine della Guerra Fredda e la conseguente contrazione della capacità russa di tenere sotto controllo lo spazio ex-sovietico avevano inevitabilmente già avviato un naturale processo di riavvicinamento tra la Turchia e l’intera area turcofona centroasiatica, ma, se dovessimo indicare un evento periodizzante riguardo all’inizio della ricerca di un’alternativa geopolitica all’incorporazione passiva all’interno del versante atlantista, potremmo assumere come tale la mancata autorizzazione al transito sul territorio nazionale, da parte del parlamento turco, delle truppe statunitensi dirette in Iraq, il 1° marzo 2003: per la prima volta la Turchia, membro NATO dal 1952, stupiva il mondo venendo meno al ruolo che le era stato assegnato sin dall’immediato dopoguerra, vale a dire la difesa degli interessi degli Stati Uniti nella regione in funzione anti-sovietica. Negli anni successivi abbiamo poi assistito ad una graduale ridefinizione delle priorità strategiche di Ankara, che ha perseguito una politica estera di grande attivismo specialmente nell’area geopolitica dell’ex-Impero Ottomano.
I fatti egiziani e tunisini, i fermenti nella Penisola Arabica, la guerra di Libia e soprattutto i più recenti avvenimenti in Siria hanno messo duramente alla prova, più di quanto fosse mai accaduto in precedenza, l’ormai celebre dottrina “zero problemi con i vicini”, improntata alla ricerca di confini turchi sicuri e all’estensione pacifica del soft power di Ankara nella regione al fine di fare della Turchia lo stato cardine dell’Islam sunnita; alla luce di ciò è stato fatto giustamente osservare che l’espressione corretta per descrivere la difficile situazione attuale sarebbe invece “zero vicini senza problemi” (1).
Se nel caso dell’intervento NATO in Libia – importante partner commerciale turco – la contrarietà di Erdoğan all’azione militare, almeno inizialmente, era stata forte e decisa, portando anche allo scontro diplomatico con Sarkozy (il primo ministro turco accettò solo in seguito, in nome della realpolitik e degli interessi economici di Ankara, l’inevitabile esito di un confronto tanto impari, ma rifiutandosi di partecipare attivamente alla caduta della Jamahiriya), i fatti siriani hanno visto sin quasi da subito la ferma condanna del regime dell’ex-alleato Bashar al-Assad da parte del governo turco, il quale ha perfino ospitato a Istanbul il Consiglio Nazionale Transitorio siriano, dando a molti osservatori l’impressione di un docile riallineamento al campo atlantista e vanificando di fatto prese di posizione anche molto coraggiose come quella relativa all’allontanamento da Israele in seguito all’operazione “Piombo Fuso” a Gaza e alla vicenda della Freedom Flotilla.
In realtà la diversità delle posizioni espresse da Ankara nelle due situazioni è da ricercarsi non in un’improbabile ed estemporaneo “rientro nei ranghi” dopo un decennio di proiezione esterna quanto mai significativo nella storia del paese della Mezzaluna, quanto piuttosto nei rischi enormemente maggiori, per la Turchia, del prolungarsi dell’instabilità in un paese confinante per oltre 800 chilometri sul proprio versante sud-orientale, con tutti i problemi che ne conseguono riguardo all’esodo di profughi e al rischio di una vera e propria guerra civile, la quale risulterebbe oltremodo pericolosa per la stabilità dell’area in questione. A ben vedere, perciò, l’atteggiamento mostrato dai vertici politici turchi in occasione del “voltafaccia” nei confronti di un ex-partner regionale rappresenta non tanto lo sgretolamento della rinnovata proiezione orientale della Turchia, quanto un pragmatico tentativo di fare buon viso a cattivo gioco, cercando di trarre il massimo profitto possibile da una situazione che Ankara in primis avrebbe volentieri evitato.
Ciò di cui però Erdoğan deve tenere conto, rispetto al caso libico, è la ferma opposizione di Russia e Cina al ripetersi di uno scenario simile a quello nordafricano: troppo alta la posta in gioco in Siria, la quale, a Tartus, ospita l’unica base navale russa del Mediterraneo, oltre a costituire un passaggio quasi obbligato in vista di futuri tentativi di destabilizzazione in Iran. Con tutta probabilità, questa volta nessuna no fly zone verrà approvata dal Consiglio di Sicurezza ONU con astensione sino-russa, e, se davvero un intervento militare occidentale dovesse avere luogo ugualmente, ciò costituirebbe una gravissima violazione del diritto internazionale oltre che una pesante provocazione nei confronti di Mosca e Pechino.
La situazione resta perciò molto incerta e i margini di manovra per Ankara sono piuttosto ristretti, più di quanto molti sembrano ritenere. Il governo turco sta cercando di bilanciare la sua politica estera tra pesanti pressioni al regime baathista siriano e tentativi di ampliare e rendere ancora più strette le vitali relazioni commerciali ed energetiche con Mosca – prima protettrice del presidente Assad – tenendo però conto del fatto che la propria transizione da media a grande potenza è tutt’altro che ultimata. Riprendendo una recente analisi di George Friedman (2) («Turkish power is balanced between subordination to the United States and autonomous assertiveness»), possiamo infatti osservare quanto la strategia turca non sia più caratterizzata da una geopolitica passiva e confinata alla Penisola Anatolica come durante la Guerra Fredda, ma al contempo non sia ancora riuscita a porre le basi per una politica regionale pienamente autonoma.
Tanto la definizione di “pedina della NATO” quanto quella di “paladino dell’antimperialismo” mal si attagliano, perciò, al primo ministro Erdoğan: le etichette si rivelano quasi sempre fuorvianti. Più giusto sarebbe cercare di capire quanto la ricerca di un’alternativa strategica a sistemi internazionali immutati da decenni passi anche e necessariamente attraverso repentine marce indietro, cambi di direzione e passaggi a vuoto dettati da contingenze più o meno imprevedibili: non tenerne conto significa negare l’estrema complessità delle problematiche internazionali.
*Andrea Puzone, dottore in Scienze politiche e internazionali presso l’Università degli Studi di Pisa
NOTE:
1 – Valeria Giannotta, La dottrina turca di ‘Zero vicini senza problemi’, “Post internazionale, settimanale di politica internazionale”, http://www.thepostinternazionale.it/2011/11/la-dottrina-turca-di-zero-vicini-senza-problemi/
2 – George Friedman, Turkey’s Strategy, “Stratfor, Global Intelligence”, http://www.stratfor.com/weekly/turkeys-strategy
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