“Stevens ha disinteressatamente servito gli Stati Uniti e il popolo libico nella nostra missione. Come ambasciatore in Libia ha sostenuto la transizione verso la democrazia e la sua eredità vivrà ovunque gli esseri umani lottano per raggiungere la libertà e la giustizia. É particolarmente duro che abbia perso la vita a Bengasi, la città che ha contribuito a liberare”. Con queste parole il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha reso omaggio a Chistopher Stevens, ambasciatore della missione diplomatica USA in Libia, con un discorso alla Casa Bianca. Martedì 11 settembre scorso, 11° anniversario degli attacchi dell’11 settembre 2001, è stato sferrato un duro attacco al consolato statunitense presso Bengasi, città della zona orientale della Libia. L’ambasciatore Stevens e altri tre impiegati nella missione diplomatica (un funzionario dell’intelligence USA e due marines) sono rimasti uccisi. La notizia, resa pubblica dal Ministro degli Interni libico, è stata prontamente confermata dal presidente Obama, che ha condannato duramente l’attacco, annunciando l’invio di 50 marines con lo scopo di rafforzare la sicurezza nella città, e ordinando di alzare al livello massimo l’allerta in tutte le ambasciate statunitensi nel mondo, in particolar modo in quelle che situate in Paesi a maggioranza islamica.

I disordini hanno avuto inizio con una protesta contro un film sulla vita del profeta Muhammad prodotto negli Stati Uniti. Circa un’ora prima dell’attacco, un convoglio di vetture si era diretto verso il consolato trasportando numerosi manifestanti, ai quali si erano però uniti una cinquantina di miliziani armati. Questi ultimi, dichiaratisi musulmani difensori del Profeta e dell’Islam, hanno aperto il fuoco e, penetrati nelle installazioni del consolato, hanno appiccato incendi al loro passaggio. Tra gli assaltatori sono stati riconosciuti membri di Ansar al-Sharia – gruppo fondamentalista salafita con legami con Al Qaeda, formatosi durante la rivoluzione libica del 2011, e che non riconosce il governo nato dalla transizione post Gheddafi – i quali hanno partecipato all’attacco, lanciando bombe artigianali e contribuendo a mettere fuori gioco le forze militari libiche. Il capo della sicurezza del consolato ha tentato immediatamente di trasferire l’ambasciatore e i funzionari in una zona sicura, tuttavia, nel caos provocato dall’attacco, il gruppo si è separato e si sono perse le tracce di Stevens. Nel frattempo, l’edificio principale andava in fiamme e si produceva uno scontro a fuoco durato diverse ore tra gli aggressori e le forze di sicurezza. Solo verso le due del mattino i militari statunitensi e libici sono stati in grado di riprendere il controllo di tutte le zone del consolato. A quel punto, Stevens era già stato trasportato in ospedale: giunto in fin di vita a causa di un arresto cardio-respiratorio dovuto al fumo inalato, non sono stati sufficienti 45 minuti di rianimazione a fargli superare la grave crisi.

Chistopher Stevens è divenuto il sesto ambasciatore degli Stati Uniti morto per atti violenti dal 1968, e il primo del XXI secolo. Cinque dei suoi omologhi precedenti furono assassinati in Afghanistan, Sudan, Guatemala, Cipro e Libano durante gli anni Sessanta e Settanta. Stevens era un diplomatico di lunga carriera ed esperienza nel Medio Oriente. Prima di essere designato ambasciatore del nuovo governo libico, aveva partecipato alle negoziazioni con il Consiglio Nazionale di Transizione formato durante la guerra civile, che aveva messo fine a più di 40 anni di governo di Muammar Gheddafi. Il suo ruolo nella rivolta che ha rovesciato Gheddafi è stato fondamentale, proprio per la collaborazione con la causa dei ribelli. Inoltre, il suo apporto fu decisivo per ottenere l’intervento della NATO, che nel marzo 2011 segnò l’inizio di una nuova strategia internazionale – 19 Paesi coordinarono, infatti, l’attacco alle forze di Gheddafi – e un cambio nelle priorità degli Stati Uniti. Sin dall’inizio delle operazioni, Stevens divenne il principale collegamento tra l’amministrazione Obama a Washington e le forze ribelli che guadagnavano terreno. Il futuro ambasciatore era rimasto profondamente colpito dall’iniziativa del popolo libico che era insorto. Il suo appoggio ai ribelli gli costò l’espulsione dal Paese, che non gli impedì di tornare in Libia il 22 maggio scorso, insignito dell’incarico di ambasciatore.

Come già accennato, l’apparente motivo scatenante di questa rappresaglia, si può rintracciare nella produzione di un film dal titolo “Innocence of Muslims” di un regista israelo-americano, Sam Bacile, che ha destato le ire dei fondamentalisti. Le reazioni hanno prodotto effettivamente manifestazioni popolari, ma su di esse si è innestata una vera e propria azione militare preorganizzata condotta dalla milizia di stampo tribale Ansar Al-Sharia. Tale gruppo ha fatto parte della resistenza contro Gheddafi ed è decisa a instaurare un regime islamico; attualmente, il governo libico non è in grado di controllarla. Secondo fonti note alla CNN, l’attacco alla sede diplomatica è stato pianificato di concerto con Al Qaeda, e la protesta contro la pellicola su Maometto è stato un diversivo. Dietro l’attacco si concretizzerebbe, infatti, una vendetta della nota organizzazione terroristica, che in un comunicato ha fatto sapere che si tratta di una reazione alla conferma della morte di Abu al-Libi, ucciso in un attacco di drone lanciato dalla CIA in una zona tribale del Pakistan. Al-Libi aveva preso il posto di numero due al comando di Al Qaeda quando l’egiziano Ayman Al-Zawahri era diventato leader, dopo l’uccisione di Osama bin Laden. Ideologo e combattente, si era fatto strada all’interno del gruppo combattente libico, per divenire successivamente l’anello di congiunzione tra i miliziani in Pakistan e le operazioni di Al Qaeda in altri Paesi come Yemen e Iraq.

Secondo il sottosegretario libico all’Interno, Wanis al-Sharif, gli Stati Uniti avrebbero dovuto ritirare il loro personale diplomatico in Libia quando la notizia della produzione del film “blasfemo” ha cominciato a diffondersi. “Sono da rimproverare semplicemente per non aver ritirato il loro personale dalle sedi – ha detto – nonostante ci fosse già stato un incidente simile quando Abu al-Libi è stato ucciso. Sarebbe stato necessario che prendessero precauzioni, è una loro colpa che non le abbiano prese”. Effettivamente, nessun rapporto di intelligence aveva messo in guardia le ambasciate USA nel Medio Oriente del rischio di rappresaglie. Per tale motivo nessuna squadra di marines del Fleet Antiterrorism Security Teams (FAST) era stata messa in allerta. Questa speciale unità, formata da circa 500 marines, è incaricata della sicurezza delle ambasciate e delle installazioni statunitensi nel mondo, la loro missione si riassume nel motto “Anytime, Anyplace”: la base per l’Europa è situata a Cadice, l’area del Pacifico è coperta da un’altra compagnia con base in Giappone e Guantanamo, una terza brigata è situata nel Bahrein. Solo ad attacco avvenuto, 50 marines di tale unità volavano a Bengasi a bordo di aerei C-130 per farsi carico della sicurezza del consolato USA.

L’amministrazione Obama è stata duramente criticata, sia dalle fila repubblicane, sia da quelle democratiche per i possibili errori di analisi dell’intelligence. Il disappunto nasce proprio da una mancanza di azione che viene imputata al Presidente. Due giorni prima dell’attentato, il più grave incidente diplomatico per gli USA dalla crisi degli ostaggi in Iran del 1979, Wissam bin Ahmed e Muhammad al Gharabi, a capo di alcune milizie che garantivano l’ordine a Bengasi, hanno minacciato di ritirare i propri uomini dalla città perché non più in grado di garantire la sicurezza. Secondo i due capi-milizia, la causa sarebbe il sostegno di Washington a Mahmoud Jibril, leader del governo di transizione libico. Questo allarme, assieme ad altri espliciti richiami a una situazione sempre più caotica e pericolosa, è stato trasmesso in un dispaccio non classificato, ma giudicato sensibile, inviato dall’ambasciatore Stevens a Washington poco prima della sua morte. Nonostante gli avvisi di pericolo, la sicurezza attorno al perimetro di difesa del consolato nordamericano non era stata rafforzata. L’attentato all’ambasciatore Stevens è avvenuto anche perché il protocollo di sicurezza, che garantiva gli spostamenti del personale diplomatico presente a Bengasi, non è stato modificato, nonostante l’allarme del diplomatico. Nessuna procedura che limita gli spostamenti fuori dal perimetro di sicurezza del consolato è stata adottata.

Secondo il “New York Times”, in questo momento gli Stati Uniti si trovano in una fase di raccolta di informazioni, che è sempre precedente al lancio di un attacco militare su un obiettivo straniero. Lo “Special Operations Command”, incaricato della pianificazione e realizzazione di operazioni segrete – in ambito di antiterrorismo, controguerriglia, guerra non convenzionale, ricognizione speciale – anche in aree di guerra, è impegnato nell’analisi di dati che potrebbero essere utilizzati per catturare o eliminare alcuni dei militanti islamisti sospettati dell’attacco. Le opzioni che si concretizzano all’orizzonte includono attacchi su obiettivi libici – simili alle operazioni che portarono all’uccisione in Pakistan di Osama bin Laden – che comportano, però, alti rischi politici e diplomatici. Sarebbe già stata recapitata al Pentagono una lista di “High Value Targets” da colpire, per vendicare la morte di Stevens, e la CIA avrebbe ricevuto una lista di dieci operativi da eliminare elaborata dalla sezione del Counterterrorism Center. Le informative sui sospetti sarebbero sufficienti ad autorizzare un lancio dei droni americani se ci si trovasse in Afghanistan, Pakistan o Yemen. Non esistono, però, analoghi accordi militari con la Libia.

L’assassinio dell’ambasciatore Stevens, coinvolto direttamente con il processo di democratizzazione del Paese, è un chiaro segno dell’instabilità interna alla nazione. Il governo salito al potere dopo le elezioni di luglio si dimostra particolarmente debole e impotente di fronte alla crescente violenza politica, al consolidamento di milizie territoriali e all’auge dell’islamismo più radicale. Oltre all’attacco al consolato di Bengasi, sono stati già effettuati attentati con macchine-bomba a Tripoli, e distrutti luoghi sacri di culto a carico di fanatici salafiti. A Bengasi è venuta alla luce non solo l’inefficienza delle forze di sicurezza, incapaci di contenere un attacco organizzato, ma anche l’incapacità del governo che guida il Paese in maniera provvisoria fino all’approvazione, l’anno prossimo, di una nuova Costituzione. La Libia non emergerà come uno stato di diritto, fino a quando non saranno eliminati i gruppi armati che dettano le leggi tribali e la persecuzione del fondamentalismo violento.

In piena corsa elettorale, il segretario di stato statunitense Hillary Clinton si è assunta la piena responsabilità dell’accaduto, cercando di liberare il Presidente dal pesante fardello. Di contro, Barack Obama ha tempestivamente fatto sapere ai suoi cittadini che si ritiene responsabile dell’attacco e delle perdite subite, dato che tutte le persone dell’entourage presidenziale fanno riferimento a lui. Nel secondo dibattito televisivo che vedeva contrapposti i due pretendenti alla Casa Bianca, Romney ha cercato di assestare un colpo al Presidente proprio in materia di politica estera in riferimento ai fatti di Bengasi: le dure accuse mosse hanno riguardato la negligenza di Obama nel non qualificare, durante la conferenza stampa successiva all’accaduto, l’atto come terroristico ma come una protesta finita fuori controllo. Romney rincarava la dose, sottolineando che il Presidente il giorno seguente all’attacco era impegnato a Las Vegas e in Colorado per la raccolta fondi della sua campagna. Obama, a questo punto, interveniva reputando inqualificabile il tentativo dell’opposizione repubblicana di politicizzare la morte di quattro cittadini statunitensi, aggiungendo che in materia di sicurezza nazionale la sua amministrazione ha realizzato quello che aveva promesso: terminare la guerra in Iraq, ritirare le truppe in Afghanistan ed eliminare Osama bin Laden. “Cattureremo i responsabili della morte dei nostri concittadini e li porteremo davanti a una corte di giustizia”, così Obama terminava il suo intervento, con l’enfasi tipica di un messaggio alla nazione, e non di un dibattito elettorale.

 

 


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