Generali in pensione ma in piena attività eversiva, ammiragli in servizio , ufficiali di ogni grado che progettavano – a quanto le indagini sembrano avere accertato – attentati a moschee e monumenti e persino l’eventualità di un abbattimento di aereo civile: i piani “Martello” e “Gabbia”si innestano in quel “progetto Ergenekon” che ormai non può più essere minimizzato o spacciato per escamotage promozionale degli “islamisti”.
E’ l’ultimo episodio del drammatico scontro in atto tra poteri in Turchia: due fronti contrapposti, che non possono essere letti utilizzando categorie politiche equivoche e incapacitanti (quella destra/sinistra su tutte), e che si assestano su sponde geopolitiche radicalmente diverse.
Da una parte un paese che, pur muovendo dal suo tradizionale inserimento nella NATO, ha sviluppato una posizione sempre più autonoma e disposta al dialogo con paesi come Russia, Cina, Iran, oltre che con l’Europa; dall’altra una Turchia minoritaria a livello di opinione pubblica ma sostenuta da poteri forti nazionali e internazionali, che sotto la bandiera del “laicismo” vogliono recidere i legami col mondo islamico per riposizionare la nazione in chiave “moderna” e occidentale.
Sono decenni che l’esercito, o meglio i vertici delle Forze Armate, svolgono il ruolo di gendarme della “laicità”, spesso contro l’orientamento espresso dall’elettorato – con qualcosa come quattro colpi di Stato dagli anni Sessanta del secolo scorso a oggi.
Non ci sono stati solo i colpi di Stato, del resto, ma tutta una serie di pressioni e di comportamenti di cui rimane a memoria esemplare – per quelli che lo conoscono e che lo ricordano – quello avvenuto il 31 gennaio 1997 a Sıncan, sobborgo di Ankara: il sindaco quel giorno celebrò la “giornata di Gerusalemme”, una pubblica e pacifica manifestazione a sostegno dell’intifada palestinese, con la partecipazione dell’ambasciatore iraniano. Il giorno successivo l’esercito occupava il sobborgo con i carri armati, arrestava il sindaco e addirittura rimuoveva l’ambasciatore (cfr. Gilles Kepel, Jihad ascesa e declino – Storia del fondamentalismo islamico, Roma 2001 – 2004, p. 402).
Per comprendere meglio il quadro generale scorriamo le tappe più recenti dello scontro in atto: passaggi importanti e un po’ trascurati dai media occidentali, che si sono piuttosto soffermati sugli arresti eccellenti – ed effettivamente clamorosi, meritevoli di attenzione – effettuati nei giorni scorsi. Dunque:
1) All’inizio di gennaio la stampa turca riferiva che il generale Saldiray Berk, comandante in capo della terza armata dislocata a Erzican, rifiutava da più di un mese di rispondere a una convocazione del procuratore a competenza allargata di Erzurum, Osman Şanal.
Quest’ultimo contestava a Berk, al procuratore di Erzincan, Ilhan Cihaner e al capo della gendarmeria locale di avere complottato per depositare occultamente armi nei locali di alcune fondazioni religiose islamiche (la Ismailağa e la Medine), al fine di farle poi incolpare di attività eversive. Si noti che nel complotto risultano collegati un esponente delle Forze Armate e uno della magistratura, entrambi ad alto livello.
2) A fine gennaio la Corte Costituzionale (espressione della élite giudiziaria ostile al governo) annullava la legge votata a giugno 2009 che restringeva le prerogative dei tribunali militari: tale legge affidava finalmente alla legge civile i militari accusati di attività contrarie alla sicurezza nazionale, crimine organizzato, violazione della Costituzione. Il ricorso per incostituzionalità era stato presentato dal CHP, il partito di opposizione laico-kemalista subordinato, ancora una volta, all’evidente connessione Alta Magistratura/vertici dell’esercito. Con la decisione della Suprema Corte la volontà di sottoporre a giudizio civile i militari golpisti è pertanto frustrata e cancellata.
3) Il 16 febbraio il procuratore Şanal procedeva all’arresto del collega Cihaner, coinvolto nel complotto da lui scoperto ( punto 1).
4) Il giorno successivo l’Hakimler ve Savcılar Yűksek Kurulu (HSYK – Alto Consiglio dei Giudici e dei Procuratori, l’equivalente del nostro Consiglio Superiore della Magistratura) toglieva al procuratore Şanal l’inchiesta, presentando anzi una denuncia contro di lui, così come contro altri procuratori di Erzurum, anch’essi privati del dossier Cihaner. La decisione dell’HSYK veniva presa in tutta fretta, senza istruttoria e in assenza del ministro della Giustizia, Sadullah Ergin, neppure avvertito della riunione.
5) Il ministro Ergin ha reagito denunciando l’intervento dell’HSYK come illegittimo e incostituzionale: “Un vero e proprio abuso di potere – ha commentato – Assistiamo a iniziative che possono far sprofondare il sistema giudiziario nel caos, pregiudicando la sua indipendenza. Questa interferenza in un procedimento in corso dimostra, una volta di più, che una riforma della giustizia è quanto mai urgente”. Nella stessa circostanza il vice Primo ministro Arınç ha sottolineato che “la Turchia non è uno Stato giudiziario”, definendo inaccettabile la destituzione dei procuratori di Erzurum.
Non a caso Erdoğan ha dato notizia dei successivi clamorosi risvolti di Ergenekon, e degli arresti, nel corso della sua visita in Spagna, un paese altrettanto defilato quanto la Turchia rispetto a una politica europea piattamente adagiata su di un atlantismo incondizionato; non è probabilmente neppure un caso che contro lo stesso Erdoğan sia stata predisposta nel corso della visita la sceneggiata del “lancio della scarpa” da parte di un contestatore.
Corrono intanto voci su di una ulteriore iniziativa giudiziaria contro il partito di governo AKP: una nuova richiesta di messa fuori legge promossa dal primo procuratore della Corte di Cassazione, Abdurahman Yalçınkaya, dopo la precedente richiesta, proposta ma non accolta nel 2008. Al centro del procedimento ci sarebbe stavolta il Barış grubu (“gruppo della pace”) dello scorso 19 ottobre, un’iniziativa di dialogo e conciliazione promossa dal governo nei confronti di quei guerriglieri del PKK che avessero rinunciato alla lotta terroristica: si rimprovera all’esecutivo di avere fatto pressioni perché i guerriglieri che avevano risposto positivamente all’appello fossero messi in libertà.
Il confronto fra schieramenti contrapposti, dunque, si fa sempre più duro e impone con urgenza una soluzione. L’inchiesta Ergenekon e l’indilazionabile riforma della giustizia possono permettere all’AKP e ai suoi alleati di governare – facendo rispettare il mandato elettorale – e di gestire una politica estera contraddistinta dal dialogo e da una effettiva indipendenza nazionale sempre più definitasi dal 2003 (rifiuto di partecipare all’attacco all’Iraq) in poi.
Oppure, e le sollecitazioni internazionali in questo senso non mancano (citiamo fra gli altri un paio di articoli apparsi su questo sito: “Daniel Pipes : ‘La Turchia non è più un alleato’”, del 12 -11 -2009 e “La lobby israeliana chiede al Congresso USA di fermare il processo Ergenekon in Turchia”, del 23-11-2009) la Turchia dovrà affidarsi alle sue lobbies giudiziario-militari “laico – nazionali”, e rinunciare definitivamente alla sua sovranità.
* Aldo Braccio è redattore della rivista “Eurasia”
Questo articolo è coperto da ©Copyright, per cui ne è vietata la riproduzione parziale o integrale. Per maggiori informazioni sull'informativa in relazione al diritto d'autore del sito visita Questa pagina.