Negli ultimi anni, le ipotesi di un declino degli Stati Uniti e della fine del “momento unipolare” si sono fatte insistenti; diverse sono le teorie formulate da studiosi e politici sul futuro dopo il tramonto della supremazia nordamericana. Fra tutte, esaminiamo il caso di un “G-2 di fatto Cina-USA”, che, secondo molti, potrebbe guidare il mondo oltre l’attuale crisi finanziaria ed economica e capace di modellare un nuovo ordine globale dopo la crisi mondiale.
Infatti, Cina e USA potrebbero, vista la loro influenza, governare il mondo insieme, nonostante incarnino culture ed orientamenti politici inconciliabili. Più di un aspetto, però, li distingue: principalmente, concetti quali democrazia e diritti umani, e l’orientamento su clima e crisi finanziaria.
Una breve analisi dell’interdipendenza delle preferenze nazionali cinesi e statunitensi, mostrerà come le relazioni sino-americane siano ancora lontane da un’alleanza solida e durevole; improbabile appare dunque una vera vera e propria “diarchia” mondiale. Perchè?
1. Un ostacolo significativo all’efficace collaborazione di Stati Uniti e Cina è la profonda diversità in materia di sovranità, sanzioni ed uso della forza; dietro questa differenza di opinioni c’è una filosofia diversa riguardo a come il mondo dovrebbe funzionare e al ruolo che gli USA dovrebbero assumere nella politica mondiale. Sopra tutto, divergenze considerevoli si hanno a proposito dei princìpi formali della politica internazionale: mentre gli USA pongono al primo posto diritti umani, la Repubblica Popolare Cinese difende l’inviolabilità della sovranità nazionale.
2. In linea con la sua decisa opposizione al sacrificio della sovranità nazionale a favore dei diritti umani, Pechino insiste che Tibet, Taiwan e Sinkiang restino questioni interne e, in quanto tali, nessuno Stato estero ha diritto di intervenire; è suo diritto e dovere reprimere le forze che sfidano il governo organizzando ribellioni. Si capisce, quindi, perchè la “simpatia” per il Dalai Lama manifestata in più incontri da USA, Francia e Germania, le iniziative atlantiche tese a potenziare le forze armate di Taiwan ed ogni sostegno al movimento indipendentista del Turkestan orientale vengono interpretati da Pechino come lesivi degli interessi vitali della Cina.
3. Un altro serio ostacolo è costituito dalla diversa opinione di Pechino e Washington sulla diffusione delle democrazie liberali.
Gli Stati Uniti, fin dal secondo dopoguerra, hanno sempre ribadito la loro ambizione di democratizzare il mondo; ambizione, questa, in stridente contrasto con la preferenza cinese per un mondo pluralistico, nel quale esistano più forme di governo e differenti sistemi politici, anche del tipo che l’Occidente considera autoritario. L’opposizione della Cina, a ben vedere, deriva non tanto dall’ostilità verso la democrazia, quanto dalla riluttanza ad accettare un mondo dominato dagli ideali, dai valori e dalle istituzioni dell’Occidente (infatti, la democrazia liberale è un’idea occidentale “non asiatica, nè africana, nè mediorientale, se non di adozione” – Arthur Schlesinger Jr., citato da Samuel P. Huntington). Nonostante le risposte ai problemi che ha dovuto affrontare negli ultimi trent’anni (disuguaglianze economiche, arretratezza delle campagne ecc.) siano state, proprio per questa sua visione, spesso insoddisfacenti, Pechino continua a rifiutarsi di ricorrere alla democrazia di tipo occidentale, condannando anzi pubblicamente le pressioni fatte in questo senso da tanti Paesi liberaldemocratici.
4. Un quarto ostacolo all’efficace collaborazione di Stati Uniti e Cina nasce dalla loro diversa percezione dei problemi globali, e dalle preferenze divergenti su come affrontarli. In particolare, riguardo alla crisi finanziaria internazionale e ai cambiamenti climatici globali.
È noto il disaccordo fra le due potenze su chi sia il vero responsabile dell’attuale crisi economico-finanziaria. Dal punto di vista cinese gli USA sono i principali colpevoli; i nordamericani sono accusati di aver preso in prestito più di quello che è ragionevole farsi anticipare,e di produrre meno di quello che consumano. Sia i singoli statunitensi, sia il loro governo hanno speso, anno dopo anno, più di quello che hanno guadagnato o riscosso, e le banche, male sorvegliate dallo Stato, si sono limitate ad approffittarne. Questa, in sintesi, la posizione cinese. Mentre, dal punto di vista nordamericano, la crisi è stata in larga misura l’effetto della natura squilibrata dei rapporti economici Cina-Stati Uniti; Pechino,d’altro canto, non nega che questi squilibri ci siano, ma sottolinea che il commercio globale della Cina è, nell’insieme, abbastanza equilibrato. Le proposte avanzate da Pechino e Washington per risolvere questa situazione sono, ancora una volta, divergenti, contribuendo così a mantenere la situazione in una condizione di stallo.
Altrettanto divergenti le preferenze in materia di lotta ai cambiamenti climatici globali. Senza dubbio, Cina e USA sono entrambi interessati a trovare i modi di ridurre le emissioni di gas serra, ma Pechino insiste che i Paesi occidentali dovrebbero fare di più rispetto a quelli in via di sviluppo; dal suo punto di vista, non è giusto che questi ultimi paghino per i 200 anni in cui i gas serra sono stati emessi solo in Occidente. La Cina afferma che accetterà limitazioni internazionali vincolanti alle sue emissioni solo quando la sua economia non sarà danneggiata dalla difesa dell’ambiente. Al contrario, uno degli obiettivi di Washington in questo campo, è convincere la Cina a rispettare norme uniformi a livello internazionale; secondo il governo statunitense la Cina, che dà il maggiore singolo contributo (in valore assoluto ma non pro capite) all’emissione dei gas serra, nel caso di un accordo globale sul clima dovrebbe unirsi agli altri Paesi e fare la propria parte. Il timore, non tanto nascosto, è che la sua industria sia ulteriormente svantaggiata rispetto a quella cinese, se la Cina continuerà ad operare senza doversi curare di regole vincolanti.
Come si può notare anche da una veloce lettura, i termini più ricorrenti sono stati “differenze” e “divergenze”, per sottolineare i dissensi profondi e strutturali, causati da differenze di sistema politico, filosofia e cultura. Finchè le due nazioni non riusciranno a trovare un punto d’incontro sarà difficile una loro stretta collaborazione; sopra tutto sarà difficile che questa collaborazione funga da guida a livello mondiale.
Sapere come si stabilizzeranno gli equilibri mondiali dopo la supremazia nordamericana è quindi di ancora difficile previsione; tenendo conto dei tentativi di emancipazione della Cina, che non si lascia intimorire dall’intero Occidente, e della perdurante incapacità degli USA a considerare un’altra nazione alla pari, il G-2 appare comunque di difficile traduzione pratica.
* Sabrina Cuccureddu è laureanda in Scienze politiche e relazioni internazionali (Università “La Sapienza” di Roma)
Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’Autrice, e potrebbero non coincidere con quelle di “Eurasia”
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