Prima di tutto, potrebbe parlarci del libro che ha appena pubblicato, La hora de los pueblos?
In questo libro ho voluto dare una visione d’insieme dell’influenza e del dominio imperialisti in America Latina. Penso che i paesi latinoamericani si stiano avviando verso la loro liberazione. Beninteso, questa liberazione sarà lunga e difficile, perché interessa la totalità dei paesi sudamericani. Infatti non è pensabile che vi sia un uomo libero in un paese schiavo, né un paese libero in un continente schiavo. In Argentina, in dieci anni di governo giustizialista, siamo vissuti liberi in una nazione sovrana. Nessuno poteva intromettersi nelle nostre faccende interne senza fare i conti non noi. Ma in dieci anni la sinarchia internazionale, ossia l’insieme delle forze imperialiste che dominano attualmente il mondo, ha avuto ragione di noi. Una quinta colonna, i cipayes, come noi li chiamavamo riferendoci all’India, aveva eseguito scientificamente un efficace lavoro di scavo, e l’ordinamento politico da me presieduto venne rovesciato. Ciò dimostra che, se i popoli possono arrivare a liberarsi dal giogo imperialista, in seguito per loro è molto più difficile conservare l’indipendenza, perché le forze internazionali che ho denunciate riprendono il controllo della situazione… In questo senso, la sconfitta subìta dal giustizialismo deve essere una lezione e un’esperienza, ahimé assieme a molte altre, per tutti i paesi che vogliono liberarsi e rimanere liberi.
Bisogna considerare la lotta di liberazione dei paesi del Sudamerica come una lotta globale, a livello continentale. In questa lotta, ogni paese è solidale coi suoi vicini, presso i quali deve trovare appoggio. La prima necessità per questi paesi è unirsi, integrarsi. Il secondo punto consiste nel realizzare l’alleanza effettiva col Terzo Mondo, così come noi, i miei collaboratori ed io, la preconizziamo da vent’anni! È questa la via che bisogna indicare al popolo sudamericano; non solo ai dirigenti, ma anche alla massa popolare, che deve rendersi consapevole della necessità di questa lotta contro l’imperialismo. Unificare il continente e liberarlo dalle influenze straniere, allearsi al Terzo Mondo per partecipare alla lotta antimperialista su scala mondiale: sono questi, dunque, i primi obiettivi. In seguito, potrà svilupparsi il processo di liberazione interna: il popolo otterrà il governo che quotidianamente reclama e che gli viene continuamente rifiutato; di qui la successione di dittature effimere e di governi fantoccio instaurati in seguito a macchinazioni, mai in seguito ad elezioni, per cui il popolo viene tenuto prima sotto un dominio e poi sotto un altro. È questo il processo che il mio libro vuol far capire alle masse popolari.
Esiste nell’America del Sud una classe sociale, una borghesia, che collabora sistematicamente con gli Stati Uniti?
Disgraziatamente sì! Nel nostro paese è assai netta sia la divisione tra il popolo e un’oligarchia fondata sulla ricchezza e sulla nascita, sia quella che separa il popolo e la nuova borghesia “d’affari” che si sviluppa rapidamente. In ogni industriale che si arricchisce, sonnecchia un oligarca potenziale. Questa oligarchia domina il paese, ma non bisogna sottovalutare l’ampiezza della lotta di un’immensa massa popolare che esige la propria libertà. È questo il movimento che noi abbiamo avviato, in una certa misura, nei dieci anni di governo giustizialista. Il giustizialismo è una forma di socialismo, un socialismo nazionale, che corrisponde alle necessità e alle condizioni di vita dell’Argentina. È naturale che questo socialismo abbia trascinato la massa e che in nome di esso siano esplose le rivendicazioni sociali. Esso ha creato un sistema sociale del tutto nuovo, del tutto diverso dal vecchio liberalismo democratico che dominava il paese e si era messo senza vergogna al servizio dell’imperialismo yankee.
In Europa, gli Americani hanno corrotto tutte le tendenze politiche: dall’estrema destra all’estrema sinistra. Vi sono collaborazionisti, venduti agli Stati Uniti, sia tra i socialisti sia tra i cattolici sia tra i liberali. Gli Americani riescono a comprare tutti i partiti. Si verifica il medesimo fenomeno anche in America Latina?
Esattamente. Gli Americani usano la stessa tecnica in ogni parte del mondo. Prima di tutto, cominciano con la penetrazione economica, per il tramite dell’oligarchia di cui parlavo poc’anzi, la quale vi trova un interesse sostanziale… Poi è la volta delle pressioni politiche, più o meno dirette, in tutti i settori politici. Così, se non possono comprare e controllare le forze politiche nazionali, gli Americani tentano di farle esplodere e di dividerle. La CIA è maestra nell’organizzare le provocazioni. Raggiunti questi obiettivi, si rivolgono verso gli ambienti militari, nei quali penetrano in diversi modi, il più efficace dei quali è l’uso generoso della mazzetta. È così che hanno agito in Viet Nam; alcuni loro “consiglieri militari” si occupavano principalmente di assoldare dei generali la cui integrità morale non era certamente a tutta prova e che non hanno rifiutato l’offerta di considerevoli vantaggi economici (assegnazioni massicce di azioni di società straniere, per esempio, oppure nomine alla direzione generale di società). Guadagnati questi uomini alla causa dell’imperialismo americano, resta solo da organizzare il colpo di Stato militare che instaurerà una dittatura: è il caso dell’Argentina, ma è stato così anche in Brasile e in Ecuador e da qualche tempo è così in Perù e a Panama. Il metodo è sempre il medesimo. In una prima fase, una volta che la situazione è nelle loro mani, gli Americani cominciano ad accaparrarsi tutte le ricchezze economiche del paese, imbavagliando sistematicamente tutte le forze politiche e sociali dell’opposizione. Questo è il meccanismo in Sudamerica, in Asia, in Europa e altrove.
C’è di più. In Europa, gli Americani sono riusciti a controllare dei movimenti il cui scopo ufficiale è l’unificazione europea! A Bruxelles, i movimenti europeisti paralleli al Mercato Comune sono stati oggetto di un’infiltrazione tale, che adesso proclamano che “bisogna fare l’Europa con gli Americani”. Questa è evidentemente un’idiozia, perché l’unificazione europea, come abbiamo più volte spiegato su “La Nation Européenne”, comporta la partenza degli Americani. Ma questi ultimi sono talmente abili, che sono riusciti addirittura a prendere in mano la tendenza europeista per meglio soffocarla, per farla fallire meglio! Ma torniamo all’America Latina. Alcuni governi non cercano di resistere alla penetrazione americana?
Praticamente no, perché ci troviamo in una fase di dominio quasi totale. Certo, ci sono alcuni governi che non sono contaminati dalla cancrena americana. Ma nel generale contesto di sottomissione, dato il carattere derisorio ed aleatorio, in quanto isolato, delle misure da loro adottate per fronteggiare questo imperialismo, essi non riescono a mettere insieme una vera opposizione. D’altra parte, tutti i movimenti rivoluzionari antimperialisti sono perseguitati in Sudamerica e in particolare in Argentina. E ciò vale per tutto il mondo, perché in genere tutti paesi sono più o meno dominati, direttamente o indirettamente, dall’influenza imperialista, si tratti dell’imperialismo americano o di quello sovietico. Entrambi, in fin dei conti, sono d’accordo per una spartizione del mondo “in via amichevole”.
Secondo Lei, perché i Russi hanno (apparentemente) abbandonato ogni attività rivoluzionaria in America Latina? Non è che i Russi abbiano stipulato un accordo tacito con gli Americani, promettendo loro di non fare niente in America Latina in cambio dell’impegno americano a non intervenire in un’altra parte del mondo?
Certamente! È lo stesso fenomeno al quale si assiste in Europa. A Jalta i due “supergrandi” hanno diviso il mondo in due zone d’influenza: una ad est della Cortina di Ferro, l’altra ad ovest. È così che l’occupazione della Cecoslovacchia, come quella dell’Ungheria nel 1956, è avvenuta con l’assenso degli Americani. Reciprocamente, lo sfruttamento economico e il controllo politico dell’Europa occidentale da parte degli Americani sono possibili solo con il consenso dei Russi. Jalta ha diviso il mondo in due riserve di caccia ad uso delle due potenze imperialiste; Russi e Americani sono legati dai trattati firmati a Potsdam. Questa divisione venne stabilita per evitare ulteriori motivi di conflitto tra i due imperialismi. A Jalta e a Potsdam, Stalin impose la sua volontà a due uomini di Stato quasi moribondi, Roosevelt e Churchill. Da allora, la conferenza di Jalta e i trattati di Potsdam hanno forza di legge permanente e sono entrati a far parte del diritto pubblico internazionale. L’occupazione della Cecoslovacchia è la conseguenza diretta di Jalt e di Potsdam. Nessuno che sia in buona fede lo può negare.
Chi può opporsi a questo stato di cose? Il Terzo Mondo. Ma il Terzo Mondo è diviso, è ancora soltanto un concetto astratto e una speranza per tutti coloro che aspirano alla libertà. La questione della liberazione dei nostri paesi si risolverà solo a lungo termine. È questione non di una, ma di più generazioni. Il nostro compito consiste nel preparare queste nuove generazioni, che dovranno lottare per la liberazione con tutte le loro forze. In Argentina, il movimento giustizialista, il movimento peronista, comprende il 90% della gioventù. Ciò è fondamentale, perché la gioventù rappresenta l’avvenire e la nostra azione è orientata verso il futuro. Noi vecchi abbiamo fatto il nostro dovere.
Adesso passiamo la bandiera ai giovani.
Lei ritiene che la liberazione della sola Argentina o del solo Cile siano destinate all’insuccesso. Secondo Lei, i diversi movimenti di liberazione devono agire simultaneamente, e su scala continentale. Lei è dunque un fautore risoluto dell’integrazione?
Sì, perché credo a un certo determinismo storico. Il mondo è sempre stato sotto la sferza di un imperialismo. Oggi abbiamo la disgrazia di dover lottare contro due imperialismi complici. Ma la potenza degli imperialismi segue una curva parabolica: una volta raggiunto il punto più alto dell’asse delle ordinate, il culmine della curva, la decadenza comincia. Secondo me gl’imperialismi sono già entrati nella fase della decadenza. Abbiamo visto che non possono essere rovesciati o distrutti dall’esterno, a meno che non avvenga l’integrazione di tutti i mezzi di lotta e di tutte le forze coinvolte. Ma questa union sacrée è lunga e difficile da realizzare e ciò consente agl’imperialismi di vivere giorni felici. Tuttavia c’è un pericolo che li minaccia: essi marciscono dall’interno e questa corruzione è già alquanto avanzata, nel Nordamerica così come in Russia. Bisogna servirsi di ciò per far precipitare il processo di degrado. Per giungere allo scopo, una lotta isolata sarebbe vana, per quanto eroica possa essere.
Io penso che noi stiamo arrivando a una fase della storia dell’umanità che sarà contrassegnata dal declino delle grandi potenze dominatrici. Siamo giunti al termine di un’evoluzione umana che, dall’uomo delle caverne fino ai giorni nostri, è avvenuta mediante l’integrazione. Dall’individuo alla famiglia, alla tribù, alla città, allo Stato feudale, alle nazioni attuali, si arriva all’integrazione continentale. Attualmente, al di fuori di alcuni colossi (USA, Russia, Cina), un paese da solo non rappresenta una grande forza; nel mondo di domani, in cui l’Europa si integrerà, così come si integreranno l’America e l’Asia, le nazioni isolate di piccole dimensioni non saranno più in grado di sopravvivere. Oggi, per vivere coi mezzi della potenza, bisogna aggregarsi ad un blocco già esistente, oppure bisogna crearlo. L’Europa si unirà o soccomberà. L’anno 2000 vedrà un’Europa unita o dominata. Ciò vale anche per l’America Latina.
Un’Europa unita avrebbe una popolazione di 500 milioni di abitanti. Il continente sudamericano ne conta già più di 250. Blocchi come questi sarebbero rispettati e contrasterebbero efficacemente l’asservimento agli imperialismi, che è la sorte dei paesi deboli e divisi.
Lei pensa che l’opera di agitazione intrapresa da Fidel Castro sia utile alla causa latinoamericana?
Assolutamente sì. Castro è un promotore della liberazione, Egli si è dovuto appoggiare a un imperialismo perché la vicinanza dell’altro minacciava di schiacciarlo. Ma l’obiettivo dei Cubani è la liberazione dei popoli dell’America Latina. Essi non hanno altra intenzione se non di costituire una testa di ponte per la liberazione dei paesi continentali. Che Guevara è un simbolo di questa liberazione. Egli è stato grande perché ha servito una grande causa, fino ad incarnarla. È l’uomo di un ideale. Molti grandi uomini sono passati inosservati perché non avevano una causa nobile da servire. In compenso uomini semplici e normali, che non erano predestinati a un tale ruolo e non erano dei superuomini ma semplicemente degli uomini, sono diventati dei grandi eroi perché hanno potuto servire una causa nobile.
Ha l’impressione che i Sovietici impediscano a Castro di svolgere una funzione importante in America Latina? E che trattengano Castro per impedirgli di oltrepassare un certo livello di agitazione?
Perfetto. Questo ruolo, d’altronde, i Russi non lo svolgono solo a Cuba, ma anche in altri paesi. Guevara, dopo aver compiuto la sua missione a Cuba, era andato in Africa per entrare in contatto col movimento comunista africano. Ma i responsabili di questo movimento avevano ricevuto l’ordine di respingere Guevara. Guevara dovette abbandonare l’Africa, perché lì erano all’opera i Russi: in Congo, un conflitto contrapponeva i due imperialismi concorrenti. Le due opposte tendenze da loro rappresentate possono, in certi momenti, unire le loro forze per difendere la stessa causa: quella dell’ordine vigente. È logico, perché difendono l’imperialismo, non la libertà dei popoli!
Che cosa ne penserebbe di instaurare una rete mondiale di informazioni e di relazioni tra tutte le tendenze che lottano contro gl’imperialismi russo e americano e di mettere in comune un certo numero di sforzi politici?
Bisogna considerare che l’unificazione deve essere l’obiettivo principale di tutti coloro che combattono per una stessa causa. Dico unificazione, e non unione o associazione. La cosa necessaria è integrarsi. Noi avremo presto l’occasione di agire, e per un’azione efficace bisogna essere integrati e non semplicemente associati.
Lei dunque ritiene che si debba andare molto lontano, molto più lontano della semplice connessione, nell’alleanza tattica coi nemici dell’imperialismo americano. Con Castro, con gli Arabi, con Mao Tsetung se è necessario? Lei pensa che il nemico sia tanto potente, tanto invadente, che bisognerà mettersi tutti insieme per venirne a capo, avendo la cura di lasciare in ombra le differenze ideologiche?
Io non sono comunista. Sono giustizialista. Ma non ho il diritto di volere che anche la Cina sia giustizialista. Se i Cinesi vogliono essere comunisti, perché dovremmo volere “renderli felici” ad ogni costo, contro la loro volontà? Essi sono liberi di scegliere il regime che preferiscono, anche se diverso dal nostro. Ciascuno è sovrano per quanto concerne le sue faccende interne. Ma se i Cinesi lottano contro il medesimo dominio imperialista contro il quale lottiamo noi, allora sono nostri compagni di lotta. Mao stesso ha detto: “La prima cosa da distinguere è la vera identità degli amici e dei nemici. Dopo, si può agire”. Io sono un fautore delle alleanze tattiche, secondo la formula “i nemici dei nostri nemici sono nostri amici”.
Secondo Lei, il Mediterraneo orientale potrebbe diventare, nei mesi a venire, teatro di un importante conflitto?
Ritengo che la situazione dell’Europa non sia mai stata così pericolosa come adesso. Tutto quello che l’Europa ha fatto per evitare di essere nuovamente un campo di battaglia in un prossimo conflitto rischia di essere vano. Con le basi sovietiche in Africa, la flotta russa nel Mediterraneo, le 125 divisioni del Patto di Varsavia di fronte a una NATO indebolita che non sarebbe in grado di sostituire un moderno esercito europeo, l’Europa potrebbe essere invasa in poche settimane, se i Russi lo decidessero. È certo che la polveriera del Vicino Oriente potrebbe originare un conflitto che sarebbe quasi impossibile limitare, un conflitto di cui l’Europa potrebbe essere una delle prime vittime, nel suo attuale stato di divisione.
In questa ottica, Le sembra che la Palestina possa diventare un secondo Viet Nam, con una guerra inizialmente localizzata?
Sì, perché il Vicino Oriente ha un’importanza strategica grandissima. È il ponte fra due continenti che si risvegliano: l’Asia e l’Africa. È per questo che, dietro la lotta fra Israele e i paesi arabi, gli Americani e i Russi combattono una lotta accanita che ha come scopo il possesso di questo punto strategico.
La ringrazio. Ho terminato con le mie domande. Desidera fare una dichiarazone su qualche argomento particolare?
Leggo regolarmente “La Nation Européenne” e ne condivido interamente le idee. Non solo per quanto concerne l’Europa, ma il mondo. Un solo rimprovero: al titolo “La Nation Européenne” avrei preferito quello di “Monde Nouveau”. L’Europa da sola, in futuro, non avrà tutte le risorse sufficienti per soddisfare le proprie esigenze. Oggi, interessi particolari si difendono spesso in luoghi molto lontani. L’Europa deve pensare a ciò. Essa deve integrarsi, certo, ma integrandosi deve mantenere degli stretti contatti con gli altri paesi in via d’integrazione. L’America Latina in particolare, che è un elemento essenziale che si deve alleare all’Europa. Noi Latinoamericani siamo Europei, e non di tendenza americana. Personalmente, io mi sento più francese, più spagnolo o più tedesco che americano. Il vecchio ebreo Disraeli aveva ragione quando diceva: “I popoli non hanno né amici né nemici permanenti; hanno interessi permanenti”. Bisogna associare questi interessi, anche se sono geograficamente lontani, affinché l’Europa continui ad essere la prima potenza civilizzatrice del mondo.
* La presente intervista, che il Generale Peròn rilasciò a Jean Thiriart il 7 novembre 1968 a Madrid, apparve originariamente su “La Nation Européenne” (Paris-Bruxelles), n. 30, febbraio 1969, pp. 20-22, accompagnata da un servizio fotografico e da un profilo biografico di Peròn. Una traduzione italiana, non integrale, fu pubblicata su “La nazione europea” (Milano-Parma), luglio 1969, pp. 1-4. I concetti che emergono nelle domande e nelle risposte di questa intervista si trovavano già anticipati sul n. 22 de “La Nation Européenne” (novembre 1967), dedicato in gran parte alla rivoluzione cubana e all’America Latina. “Da quando Fidel Castro prese il potere, il 1 febbraio 1959, – si legge in una nota redazionale – Cuba è la punta di lancia della lotta rivoluzionaria contro l’imperialismo americano in America Latina e costituisce perciò una minaccia permanente per gli USA, una minaccia tanto più fastidiosa in quanto sono falliti nel modo più ridicolo i tentativi della CIA di rovesciare il castrismo”. Sullo stesso numero, in un articolo che riproponeva fin dal titolo (Plusieurs Viet-Nams) una nota parola d’ordine guevariana, Jean Thiriart aveva scritto: “Se Cuba e l’Algeria rappresentano dei polmoni rivoluzionari per noi nazionalisti europei, è altrettanto evidente che L’Avana ed Algeri un polmone economico possono sperare di trovarlo soltanto in Europa. Non solo l’Unione Sovietica non ha la potenza economica e manca di respiro sufficiente in questo settore, ma essa non si sogna nemmeno di compromettere, in nome dei “princìpi” della rivoluzione, i profitti realizzati a Jalta. A Cuba cominciano ad accorgersene, finalmente! (…) Bisogna che ad Algeri e a Cuba si rendano conto che anche un paese ricco come è l’Europa può essere sfruttato dagli Americani. Algeri e Cuba devono cogliere le contraddizioni interne tra il capitalismo americano e il capitalismo europeo (o una parte consapevole di quest’ultimo) e trarne le conclusioni politiche”. Mentre Thiriart poneva così in risalto l’importanza fondamentale dell’apertura di un fronte europeo che andasse ad aggiungersi alle lotte di liberazione del Terzo Mondo, l’ultima risposta dell’intervista di Peròn prospettava la futura inevitabilità di un’integrazione dell’Europa stessa in una dimensione territoriale più ampia. Qualche anno più tardi, Thiriart svilupperà e definirà questa intuizione disegnando lo scenario geopolitico di un Empire euro-soviétique de Vladivostok à Dublin.
C.M.
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