Tra gli altri innumerevoli contraccolpi, la caduta dell’Unione Sovietica sortì indubbiamente l’effetto di rinsaldare l’asse Washington-Tel Aviv, dettato dall’esigenza statunitense di imporre una testa di ponte alleata ed affidabile nella regione e dalle pressioni esercitate dalla potente lobby israeliana sul Congresso e sull’esecutivo di Washington. Istituzioni come l’American Israel Public Affairs Committee e la Conference of Presidents of Major Jewish Organization assunsero, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, un peso soverchiante che comportò una netta distorsione della politica estera statunitense in direzione filoisraeliana.
Il processo di consolidamento della posizione dominante degli Stati Uniti procedette di pari passo con l’infiltrazione, all’interno delle amministrazioni che si successero, di un numero sempre maggiore di funzionari sionisti garanti degli interessi israeliani. Il successo registrato da questo processo di infiltrazione è dovuto all’intuizione dello storico ebreo Benzion Netanyahu – padre di Benjamin Netanyahu ed ex assistente di Vladimir Jabotinsky, autorevole membro del movimento terrorista Irgun nonché esponente del cosiddetto “sionismo revisionista” – che fin dagli anni ’50 operò con grande dedizione per creare i presupposti non solo economici, ma anche culturali che rendessero inscalfibile il legame tra Washington e Tel Aviv e garantissero in tal modo ad Israele un ampio margine di manovra in politica estera. Le dimensioni e la capillarità che questo fenomeno raggiunse negli anni conferiscono una connotazione fortemente eufemistica all’iscrizione dell’attività filo-israeliana interna agli organi dominanti statunitensi nel novero delle semplici operazioni lobbistiche.
Martin Indyk, ebreo di origine inglese, dopo aver svolto l’attività di consulente per la comunicazione internazionale del primo ministro israeliano Yitzhak Shamir, raggiunse gli Stati Uniti dove nel 1982 ricoprì l’incarico di Deputy Research Director dell’American Israel Public Affairs Committee e fondò, tre anni dopo, il Washington Institute for Near East Policy (WINEP). Tale istituto acquisì sufficiente autorevolezza e peso politico per condizionare consistentemente le decisioni delle amministrazioni e del Congresso, in specie dopo la pubblicazione del rapporto Building for Peace: An American Strategy for the Middle East, uno studio animato da forti sentimenti filoisraeliani destinato ad orientare gran parte della politica estera americana. Ben sei coautori del rapporto entrarono nelle fila dell’amministrazione statunitense retta dal presidente George Bush senior. Coerentemente con le indicazioni contenute nel rapporto, gli Stati Uniti appoggiarono la linea oltranzista mantenuta da Israele nel corso della Conferenza di Madrid, fondata sull’irriducibile ostilità nei riguardi dell’OLP di Yasser Arafat.
L’inclinazione filoisraeliana degli Stati Uniti si radicalizzò sotto l’amministrazione Clinton, all’interno della quale ben undici coautori del rapporto redatto nel 1992 dal Washington Institute for Near East Policy sulle relazioni tra Washington e Tel Aviv finirono per occupare incarichi di rilievo. Tra di essi spiccano i nomi di Madeleine Albright (che si afferma prima come ambasciatrice all’ONU e poi come segretario di stato), di Les Aspin (segretario alla difesa), di Anthony Lake (Consigliere per la Sicurezza Nazionale) e di Dennis Ross (inviato speciale in Medio Oriente). L’influenza che il Washington Institute for Near East Policy è in grado di esercitare sulle scelte politiche statunitense è dimostrata dal fatto che numerosi membri del consiglio di amministrazione dell’istituto finirono per ricoprire incarichi di governo. In questo elenco figurano i nomi di Walter Mondale, Lawrence Eagleburger, Richard Perle, Alexander Haig, Warren Christopher, Robert McFarlane, James Woolsey, Edward Luttwak e di tantissimi altri esponenti del WINEP.
I progetti escogitati dalla componente filoisraeliana interna all’entourage di Clinton, l’omicidio, il 4 novembre del 1995, del primo ministro Yitzhak Rabin ad opera di un ebreo ortodosso e la successiva ascesa del Likud culminata con l’elezione di Benjamin Netanyahu costituiscono le tappe progressive che concorsero a far fallire il sedicente “processo di pace” con i palestinesi. Non appena insediato, il primo ministro Netanyahu varò la “Nuova strategia di Israele per il 2000”, eloquentemente intitolata Clean Break: A New Strategy for Securing the Realm[1]. Questa strategia rappresenta il frutto degli sforzi profusi da un gruppo di analisti statunitensi che riuscirono poi ad entrare – da Richard Perle a David Wurmser, da James Colbert a Douglas Faith – a far parte dell’organo dirigenziale del presidente George Bush junior. In base alle direttive contenute in tale documento, Israele intraprese una politica estremamente muscolare incardinata sul concetto di “pace attraverso la forza”, che depennò implicitamente dal novero delle possibilità – pur assai flebili – la restituzione dei territori occupati e la distensione dei rapporti con le autorità palestinesi. La svolta ambita da Netanyahu sarebbe dovuta scaturire dall’avvicinamento simbiotico di Israele agli Stati Uniti, dall’incremento della capacità persuasoria dell’Israel lobby e dall’imposizione di un nuovo “nomos della terra” capace di legittimare eventuali interventi militari israeliani nella regione. L’obiettivo fondamentale rimase però quello, perseguito con ostinazione anche da Yitzhak Rabin e da Shimon Peres, di promuovere la formazione di un’alleanza strategica tra Israele, Turchia, Giordania ed Iraq finalizzata a isolare l’Iran e ad accerchiare la Siria in modo da sottrarre il Libano all’influenza di Damasco.
Conformemente a ciò, nell’aprile del 1996 Israele scatenò l’operazione “Grapes of Wrath”, comprendente una serie di bombardamenti a tappeto sulle città di Balbek e Tiro che provocarono la morte di numerosi civili oltre alla distruzione di case e infrastrutture. Il massiccio dispiegamento di forze disposto dal governo di Tel Aviv non si rivelò tuttavia sufficiente a sconfiggere la resistenza libanese guidata da Hezbollah, i cui miliziani, appresa la grande lezione di Sun Tzu – conoscere il nemico[2] – e pertanto consci delle tattiche israeliane, anticiparono le mosse di Tsahal (l’esercito israeliano) e inflissero forti perdite mediante sofisticate operazioni di guerriglia. Pochi giorni dopo, Peres perse le elezioni a scapito di Netanyahu.
Con l’ascesa di George Bush junior la politica estera condotta dagli Stati Uniti slittò ulteriormente in favore di Israele, contestualmente ai piani ideati dai principali esponenti del Project for a New American Century[3]. Il fatto che un numero esorbitante di neoconservatori – Elliot Abrams, William ed Irving Kristol, Robert Kagan, John e Norman Podhoretz tanto per citarne disordinatamente alcuni – vanti origini ebraiche influì sensibilmente sull’evoluzione dei rapporti degli Stati Uniti con Israele.
Alla luce di queste vicissitudini molti dei problemi rimasti irrisolti – dall’insabbiamento della Road Map all’inasprimento dei rapporti con l’Iran, dal fallimento del processo di pace al divide et impera applicato nei confronti del fronte palestinese – trovano la loro motivazione e spiegano la relazione di privilegio che gli Stati Uniti intrattengono con Israele, sulla quale John Mearsheimer e Stephen Walt esprimono il seguente, lapidario giudizio:
«Se gli ebrei americani non si fossero organizzati e non fossero riusciti ad ottenere per conto di Israele l’appoggio di influenti politici, lo Stato ebraico non sarebbe mai stato costituito. Però, gli interessi degli Stati Uniti e di Israele non sono mai stati coincidenti; e le attuali politiche del governo israeliano sono in contrasto con l’interesse nazionale americano e con alcuni dei fondamentali valori degli Stati Uniti. Sfortunatamente, negli ultimi anni l’influenza politica e la capacità di intrattenere pubbliche relazioni della lobby hanno scoraggiato i leader statunitensi dal perseguire politiche mediorientali tese a promuovere gli interessi americani e a proteggere Israele dai suoi stessi peggiori errori. L’influenza della lobby, in sintesi, è stata dannosa per entrambi i paesi»[4].
Ad ogni modo, la Siria rappresenta un tassello fondamentale della strategia adottata dal governo israeliano, modellata in base agli imperativi indicati all’interno del Clean Break: rendere sicuro il confine settentrionale di Israele ed instaurare una strategia fondata sulla potenza militare. All’interno di tale documento si legge, infatti, che «La Siria sfida Israele sul suolo libanese. Un approccio efficace, con cui gli americani potrebbero simpatizzare, prevede che Israele acquisisca l’iniziativa strategica lungo i suoi confini settentrionali impegnando Hezbollah, Siria e Iran»[5].
Colpire le infrastrutture del Libano costituisce un aspetto essenziale di questo progetto, così come «Distogliere l’attenzione di Damasco facendo leva su elementi dell’opposizione libanese per intaccare il controllo siriano del Libano»[6]. L’attacco israeliano al Libano del 2006 e la Rivoluzione dei Cedri, fiorita sul cadavere di Rafik al-Hariri (la cui uccisione, attribuita a gran voce ad Hezbollah, acquisisce un significato molto preciso alla luce dei principi stabiliti nel Clean Break), trovano quindi una perfetta collocazione strategica. L’obiettivo finale di questo ambizioso progetto è chiaramente quello di disarticolare il fronte nemico, rompendo l’alleanza tra Beirut, Damasco e Teheran all’altezza della Siria, attraverso il riciclo del “modello salvadoregno” elaborato negli anni ’80 sotto la supervisione di John Negroponte, che provocò una proliferazione di squadroni della morte capaci di disseminare di stragi gran parte dell’America centrale (Honduras, Nicaragua, Salvador).
Il nodo cruciale dell’intera vicenda viene indicato dall’ex direttore del Mossad Efraim Halevy, il quale osserva che «Assad deve dimettersi. Ma per Israele, la questione cruciale non è se cade, ma se la presenza iraniana in Siria sopravviverà al suo governo. Recidere il laccio che lega l’Iran alla Siria è essenziale per la sicurezza di Israele. E il rovesciamento di Assad deve comportare tassativamente la fine dell’egemonia iraniana sulla Siria. Il mancato raggiungimento di questo vitale obiettivo priverebbe la caduta di Assad di ogni significato»[7]. Per questa ragione, « Con la caduta del regime l’intero equilibrio delle forze nella regione subirebbe un cambiamento epocale. Il terrorismo supportato dall’Iran verrebbe visibilmente contenuto; Hezbollah perderebbe il suo fondamentale canale siriano verso l’Iran e il Libano potrebbe tornare ad una normalità a lungo dimenticata, i combattenti di Hamas a Gaza si vedrebbero costretti a pianificare un futuro senza armi ed addestramento iraniani; e i cittadini iraniani potrebbero, una volta ancora, sollevarsi contro il regime che ha inflitto loro tali dolori e tante sofferenze»[8].
Al netto della consueta retorica a buon mercato, il nocciolo della questione sollevata da Halevy emerge con estrema chiarezza. Per appoggiare le posizioni assunte dai più ferventi interventisti, Israele deve prima assicurarsi che la caduta del regime di Bashar al-Assad comporti la rottura del legame che unisce Damasco a Beirut. Ciò provocherebbe il conseguente isolamento di Hezbollah, capitalizzato il quale Washington potrebbe dedicarsi alla definitiva implementazione della cosiddetta “strategia dell’anello dell’anaconda”, il progetto elaborato dalla Commissione Trilaterale che mira a saldare tutti gli anelli che compongono la catena del rimland attraverso la partizione del pianeta in tre macroregioni geoeconomiche (Stati Uniti, Europa, estremo Oriente-Pacifico), in modo da ostruire lo sbocco ai mari caldi inesaustamente auspicato dalla Russia, potenza centrale della massa continentale eurasiatica. Dal momento che l’Iran costituisce il potenziale presidio meridionale dell’Eurasia nonché l’anello fondamentale attraverso il quale Mosca, che con Teheran mantiene una solida alleanza strategica, può estendere la propria influenza verso il Vicino e Medio Oriente, per gli Stati Uniti l’isolamento della Repubblica Islamica non può che rappresentare un obiettivo di primaria importanza.
L’elezione di Barack Obama produsse rilevanti ricadute sui rapporti tra Stati Uniti ed Israele, che aveva trovato in Bush un interlocutore di rara disponibilità e assai bendisposto ad accogliere le richieste avanzate da Tel Aviv. Il più “pesante” sponsor dell’attuale presidente americano non occupa alcun incarico di governo e risponde al nome di Zbigniew Brzezinski, che in passato non ha mancato di opporsi ad Israele e di esprimere aspre critiche sull’operato dei governi di Tel Aviv, sulla potente Israel lobby e sull’atteggiamento – definito “maccartistico” – dell’establishment ebraico nei confronti dei critici di Israele. Nel corso di un’intervista rilasciata nel settembre 2009, Brzezinski non esitò a richiamarsi pubblicamente alle gerarchie internazionali e ai rapporti di forza planetari per riaffermare il primato indiscusso degli interessi statunitensi su quelli degli alleati, specialmente nel passo in cui sostiene che qualora i caccia israeliani si permettano di sorvolare lo spazio aereo iracheno per attaccare l’Iran senza l’autorizzazione di Washington, gli Stati Uniti non dovrebbero esitare ad intercettarli o ad abbatterli, così come l’esercito israeliano non aveva indugiato dinnanzi alla possibilità di affondare la nave USS Liberty nel giugno 1967, in piena Guerra dei Sei Giorni[9].
I metodi impiegati da Barack Obama riguardo all’Iran, inizialmente orientati a provocare un cambio di regime attraverso pressioni esterne e finanziamenti agli oppositori, riflettono le idee di Zbigniew Brzezinski, che nutre nei confronti dell’attuale dirigenza israeliana un profondo disprezzo dovuto agli agganci russi del ministro Avigdor Lieberman (nato nell’ex Unione Sovietica e leader del partito Yisrael Beytenu, il cui bacino elettorale è costituito in massima parte da ebrei russi immigrati in Israele). Ma nel corso dei mesi si è verificata una escalation che ha portato Obama ad adottare una linea politica sempre più dura, che rispecchia la conflittualità intestina vigente tra i vari centri di potere statunitensi. Uno di essi è sicuramente l’America Israel Public Affairs Committee (AIPAC), di cui fanno parte senatori ed alti esponenti della politica statunitense. Dinnanzi ai membri di questa potentissima lobby ebraica appositamente riunita, il primo ministro israeliano Netanyahu affermò solennemente che «Nessuno di noi può permettersi di aspettare ancora a lungo. In quanto primo ministro di Israele, non permetterò mai che il mio popolo viva nell’ombra dell’annientamento»[10]. Si tratta di un duro colpo, che sferrato dal capo del governo israeliano assume un significato ben preciso. Specialmente alla luce del fatto che, nel corso della medesima riunione, Netanyahu rievochi addirittura lo spettro della Shoah leggendo alcuni passaggi di una lettera, risalente al 1944, attraverso la quale il Dipartimento della Guerra statunitense aveva declinato l’offerta dei caporioni sionisti internazionali relativa al bombardamento di un tratto ferroviario che conduceva al campo di concentramento di Auschwitz. Il primo ministro israeliano intendeva stigmatizzare la “mollezza” di Barack Obama accusandolo, attraverso il parallelo con la Shoah, di portare avanti una linea politica analoga a quella propugnata dai suoi predecessori, che non avrebbero fatto abbastanza per impedire lo sterminio degli ebrei.
L’oltranzismo guerrafondaio propugnato dai dirigenti israeliani risponde, seppur in parte, alla necessità di indebolire la posizione del vituperato Obama e favorire l’ascesa alla Presidenza statunitense (le elezioni si terranno nel novembre 2012) del candidato repubblicano Mitt Romney, sionista dichiarato che con Netanyahu condivide una lunga esperienza lavorativa presso il gruppo Bain Capital e che mantiene contatti diretti con gli esponenti di quella classe politica che Stati Uniti ed Israele hanno in comune. Ciò provocherebbe la saldatura del legame tra Washington e Tel Aviv in maniera analoga a quanto era accaduto sotto l’amministrazione di George Bush junior, dominata dai neocons. In ambito interno, Netanyahu ha allargato la propria maggioranza di governo stringendo un accordo con Shaul Mofaz, caporione del partito centrista Kadima. Mofaz è un ex capo di Stato Maggiore dell’esercito israeliano, come lo sono stati il ministro della difesa Ehud Barak e il ministro degli affari strategici Moshe Yaalon. Blindando il proprio esecutivo attraverso l’alleanza con il partito Kadima ed affidando al suo segretario l’incarico di vicepremier, Netanyahu ha modo di rafforzare la presenza di esponenti militari nel governo. Con l’eccezione di Barak, sono proprio i militari – Gaby Ashkenazi, Meir Dagan, Yuval Diskin – ad esprimere le maggiori riserve nei riguardi dell’intervento diretto contro l’Iran, e l’accordo con Mofaz – che ha espresso anch’egli forti perplessità al riguardo – potrebbe compromettere la realizzazione degli scenari da incubo prefigurati da Netayahu.
I militari prediligono altri “metodi”, molto meno rischiosi dell’attacco ma non per questo meno efficaci. Sotto la direzione di Meir Dagan, uno dei principali oppositori all’opzione militare, il Mossad predispone e mette in pratica il “Decapitation Programme”, un’operazione volta al sabotaggio del programma nucleare iraniano[11]. Nell’ambito di questa operazione rientrano le fughe di gas tossici, le esplosioni scatenate da materiali difettosi e gli agguati di vario genere che hanno provocato la morte dei fisici ed ingegneri nucleari iraniani Ali Mahmoudi Mimand, Daryoush Rezaie, Majid Shahriari, Hassan Moghaddam, Abbassi Davani e Mustafa Ahmadi-Roshan. Senza dimenticare che nell’agosto 2008 un aereo decollato da Biskek, in Kirghizistan, e diretto a Teheran si schiantò al suolo causando la morte di 44 scienziati iraniani.
Per il primo ministro Benjamin Netanyahu, il ministro degli esteri Avigdor Lieberman e il ministro della difesa Ehud Barak l’attacco all’Iran costituisce tuttavia un’opzione concreta, malgrado essi siano consci del fatto che sferrare un attacco all’Iran non equivarrebbe semplicemente a replicare un’ulteriore “Operazione Babilonia”, lanciata nel 1981 contro gli impianti nucleari iracheni di Osirak. Non solo i siti nucleari iraniani distano circa 1.500 km dagli aeroporti militari israeliani, ma sono molto numerosi, situati in profondità e protetti da bunker che potrebbero resistere alle incursioni degli F-16. Non potendo sperare sull’effetto sorpresa, i caccia israeliani sarebbero inevitabilmente esposti alle difese anti-aeree iraniane, senza contare che Teheran mantiene numerosissime batterie missilistiche puntate contro lo Stato ebraico.
Un ulteriore e niente affatto secondario problema che scaturirebbe inesorabilmente dall’attacco all’Iran è poi costituito dall’aumento esorbitante del prezzo del petrolio. Una escalation militare nell’area del Golfo, combinata alle non poche turbolenze dovute agli attriti tra le linee di faglia che separano i paesi produttori, Stati Uniti ed Europa e che concorrono primariamente a mantenere già elevato il prezzo del petrolio, provocherebbe una ulteriore, brusca impennata del valore di mercato dell’oro nero. A questo riguardo, l’analista Ian Bremmer evidenza che «Escludere troppe quantità di petrolio iraniano per l’approvvigionamento energetico mondiale potrebbe provocare un’impennata dei prezzi tale da minacciare una possibile ripresa, anche se per causare un dissesto finanziario all’Iran. Forse per la prima volta, le sanzioni potrebbero avere “fin troppo successo”, danneggiando chi sanziona tanto quanto chi è sanzionato»[12].
Ciò significa che se da un lato l’elevato prezzo del petrolio contribuisce effettivamente a frenare la crescita economica cinese, dall’altro l’economia statunitense e, di riflesso, quella israeliana non potrebbero in alcun modo sentirsi immuni ai relativi, pesantissimi contraccolpi legati al concretizzarsi di uno scenario simile. Per questa ragione, William Engdahl è portato ad affermare che «Nel momento in cui sarà chiaro che l’amministrazione Obama agisce per prevenire una guerra contro l’Iran aprendo dei canali diplomatici e che Netanyahu utilizza le minacce di guerra semplicemente per valorizzare la sua posizione tattica e contrattare con quell’amministrazione Obama che disdegna, il prezzo del petrolio sarà destinato ad affondare come un sasso nell’acqua, questione di giorni (…). Se rapportati alla debole crescita economica mondiale, specialmente in paesi come la Cina, gli effetti del prezzo del petrolio alle stelle sono estremamente negativi»[13].
È tuttavia impossibile eliminare l’ipotesi relativa all’attacco dal ventaglio delle possibilità, in particolar modo alla luce del comportamento adottato dall’Arabia Saudita, che ha aumentato la produzione petrolifera senza immettere sul mercato il surplus di greggio estratto, in modo da immagazzinare enormi riserve strategiche che si rivelerebbero fondamentali qualora dovesse verificarsi l’aggressione all’Iran. Gli Emirati Arabi Uniti, dal canto loro, hanno inaugurato un fondamentale oleodotto che, collegando i giacimenti di Abu Dhabi con lo sceiccato di Fujairah (presso il confine con l’Oman), permetterà l’esportazione di 1,5 milioni di barili giornalieri aggirando lo Stretto di Hormuz, passaggio obbligato per il petrolio del Golfo Persico. Alleggerendo il peso strategico dello Stretto di Hormuz, gli Emirati Arabi Uniti contribuiscono a far venir meno una delle principali ragioni capaci di ostacolare un eventuale aggressione all’Iran.
A gettare ulteriore benzina sul fuoco interviene l’analista israelo-statunitense Richard Silverstein, molto ammanicato con gli apparati di difesa israeliana, il quale ha descritto un presunto piano d’attacco[14] fornitogli da una (altrettanto presunta) fonte interna all’esercito israeliano. Tale piano contemplerebbe l’utilizzo di sofisticate tecnologie tese a mettere fuori uso i sistemi di comunicazione iraniani che collegano gli apparati dirigenziali di Teheran con i siti nucleari e le installazioni militari in cui sono schierati i missili balistici Shahab III, armati con testate chimiche. Provocando il cortocircuito del sistema attraverso questi atti di guerra cibernetica, Israele conterebbe di impedire all’Iran di coordinare la difesa e di sabotare qualsiasi tentativo di ritorsione. A quel punto Tel Aviv sferrerebbe l’attacco, che prevede il lancio di decine di missili balistici Jericho II armati di testate convenzionali, che dovrebbero sostituire quelle atomiche per le quali questa tipologia di missile era stata appositamente congegnata. I Jericho II sarebbero inoltre dotati di specifici penetratori, necessari a raggiungere i bunker sotterranei iraniani. Il piano d’attacco disvelato da Silverstein non presenta alcuna novità rispetto a quelli già fatti appositamente trapelare dalle forze israeliane. Si tratterebbe, in sostanza, di lievi rivisitazioni dei piani implementati dagli Stati Uniti nel corso della Guerra del Golfo del 1991 e dell’aggressione alla Jugoslavia del 1999.
I prossimi mesi riveleranno il grado di fondatezza di queste apocalittiche profezie.
[1] The Institute for Advanced Strategic and Political Studies, Clean Break: A New Strategy for Securing the Realm, http://www.iasps.org/strat1.htm.
[2] Sun Tzu, L’arte della guerra, Arnoldo Mondadori, Milano 2003.
[3] Project for a New American Century, http://www.newamericancentury.org/.
[4] John J. Mearsheimer e Stephen M. Walt, La Israel Lobby e la politica estera americana, Arnoldo Mondadori , Milano 2007.
[5] The Institute for Advanced Strategic and Political Studies, Clean Break: A New Strategy for Securing the Realm, http://www.iasps.org/strat1.htm.
[6] Ibidem.
[7] “The New York Times”, 7 febbraio 2012.
[8] Ibidem.
[9] “The Daily Beast”, 17 settembre 2009.
[10] “Huffington Post”, 8 marzo 2012.
[11] “Daily Telegraph”, 16 febbraio 2009.
[12] “Financial Times”, 6 marzo 2012.
[13] William Engdahl, Why The Huge Spike in Oil Prices? “Peak Oil” or Wall Street Speculation?, http://globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=29803.
[14] Richard Silverstein, Israeli “document” on Iran attack leaked, http://24o.it/links/?uri=http://www.bbc.co.uk/news/world-middle-east-19271083&from=Iran%2C+le+rivelazioni+sull%27attacco+israeliano+svelano+pochi+segreti.
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