Mentre continua con le operazioni per un cambio di regime in Iran, il governo di Obama dà un maggiore peso alla componente dissuasiva, anziché mettere in pratica un attacco preventivo diretto promosso dall’amministrazione precedente. Russia e Cina, in quanto potenze regionali, esercitano la loro influenza nelle vicinanze delle proprie frontiere, invece gli Stati Uniti concepiscono esercitare il loro potere in tutto il mondo. La presenza americana avanza sotto forma di pinza sui margini di quello che definisce il nucleo dell’Emisfero Orientale. L’Asia centrale è uno dei punti deboli nel quale i vuoti di potere latenti alimentano il triangolo di confronto, mentre gli altri giocatori, Iran e Turchia, sono considerati da Washington il primo, come indispensabile per avanzare verso l’Eurasia, e il secondo come ponte tra l’Asia centrale, il Caucaso e i mercati europei.

Il potere economico americano con il suo nucleo, i gruppi dell’alta borghesia monopolista e riproduttrice del capitale, configura mediante le sue convergenze e connivenze storiche con il potere politico, gli obiettivi strategici per la sopravvivenza del loro modello civilizzatore che pensa sia universale. Eredità che proviene dall’impero britannico.

La sua concezione di un destino globale imperialista coincide con la visione del mondo intero come un potenziale teatro di operazioni di guerra, diviso in 6 Comandi di Combattimento regionali, indipendentemente dalla sovranità territoriale dei singoli paesi. La connivenza con il potere politico si manifesta nelle somiglianze e nelle continuità delle successive amministrazioni per quel che concerne le direttrici fondamentali della sua politica estera.

La Dottrina per le Operazioni Nucleari Congiunte (DJNO) del 2005 (1) che è ancora vigente nel governo Obama, definisce quattro obiettivi: assicurare agli alleati e amici degli Stati Uniti fermezza di propositi e capacità per compiere i loro impegni di sicurezza. Dissuadere gli avversari a realizzare programmi e operazioni che potrebbero minacciare gli interessi americani o dei loro alleati e amici. Impiegare l’aggressione e la coercizione dissuasiva, spiegando preventivamente la capacità per un attacco e immediata sconfitta con l’imposizione di severe sanzioni per danneggiare la capacità militare e l’infrastruttura dell’avversario, e infine, sconfiggere decisamente un avversario se viene a mancare la dissuasione.

Una parte importante della dottrina è di fornire degli indizi sull’attuale politica dissuasiva di Washington. Ripone speciale enfasi nella dissuasione strategica, definita come la prevenzione di un’aggressione o coercizione dell’avversario che minacci gli interessi vitali degli Stati Uniti e/o la sua sopravvivenza nazionale. Per questo si cerca di convincerlo a non prendere “incresciose” mosse d’azione, influenzando decisamente sugli artefici di decisioni. E aggiunge, che il fuoco della dissuasione sta nell’influenzare i potenziali avversari per impedire azioni che tentino di pregiudicare gli interessi nazionali degli Stati Uniti. La novità riguardo alla Guerra Fredda, è quella della nuova triade dissuasiva allargata: capacità di attacco nucleare e non integrati; difese attive e passive; e una robusta infrastruttura di supporto composta di ricerca, sviluppo e struttura industriale per impulsare, costruire e mantenere le forze offensive e i sistemi difensivi. I tre, coordinati nel loro insieme mediante il Commando di Controllo (C2), Intelligenza e pianificazione.

Il documento afferma che per sostenere il suo effetto dissuasivo, le forze nucleari americane devono mantenere un visibile e forte stato d’allerta e arruolamento per il combattimento.

Per quanto concerne la strategia politica, il DJNO stabilisce che “… gli Stati Uniti non definiranno in quali circostanze potrebbero impiegare le armi nucleari. Mantenere quest’ambiguità aiuta a creare dei dubbi nelle menti dei potenziali avversari, dissuadendoli da intraprendere azioni ostili …”

In altre parole, durante la fase del mondo dipolare caratterizzata dal faccia a faccia tra due superpotenze, la dissuasione si fondava nella presenza di armi nucleari strategiche con enorme potere distruttivo, pronte per essere utilizzate mediante la triade: missili balistici intercontinentali, sottomarini di bombardamento strategico dotati con missili balistici e cannonieri strategici. Attualmente, questo tipo di dissuasione non è più credibile da parte dei paesi “ribelli” e dagli attori non stabili che si confrontano con gli interessi degli Stati Uniti, precisamente perché l’ampiezza della distruzione e l’inquinamento radioattivo che ne deriverebbe è tale che danneggerebbe regionalmente gli stessi alleati di Washington. Anche se il Pentagono mantiene come uno dei supporti del nuovo trittico il potere nucleare strategico, destinato alle potenze nucleari (in particolare a quella russa), comunque deve fare in modo che l’impiego delle armi nucleari appaia verosimile nei confronti dei suoi nuovi nemici regionali. A tale proposito ha aggiunto i dispositivi nucleari tattici (a bassa potenza esplosiva, equivalente agli esplosivi chimici e meccanici), il cui sviluppo è stato completato durante il governo di G.W. Bush. La nuova dottrina dissuasiva americana (e quella della NATO) include una progressiva e forte pressione sul versante diplomatico, economico e militare, la sua presenza è diventata molto più evidente e sfacciata di quella della Guerra Fredda. La minaccia latente di integrare l’armamento convenzionale con quello nucleare tattico, insieme all’incertezza di quali dei suoi soci sono i reali possessori, se sommata all’avanzamento tecnologico in campo bellico, si plasma in frequenti dispiegamenti e aggressive manovre militari vicine a quelle regioni che il Pentagono considera d’interesse strategico. In questa maniera si spera che gli Stati Uniti “fuori legge”, le entità “terroriste” non statali, ma anche le potenze emergenti e gli altri paesi, considerino che i vantaggi sarebbero molto di meno che le perdite reali, inaccettabili in caso di conflitto. D’altro canto, nemmeno Washington condanna le stragi sulla popolazione civile, al riguardo le ciniche “leggi di guerra” codificate dagli Stati Uniti e i loro alleati per evitare un confronto armato senza restrizioni, definiscono la “guerra Giusta” che convalida il Principio di Proporzionalità, nel quale si stabilisce che le perdite di vite civili e il danno alla proprietà civile devono essere proporzionali ai vantaggi militari diretti che si aspettano di conquistare. E inoltre, siccome nessuna legge internazionale sui conflitti armati proibisce l’uso di armi nucleari, una volta che il presidente abbia dispensato l’esplicito ordine per il suo impiego, resta nelle mani dei comandanti regionali la responsabilità che i danni collaterali non siano eccessivi.

Secondo le grandi centrali mediatiche occidentali, strumenti di guerra psicologica, tra le nuove minacce mondiali che rimpiazzano il comunismo si trova il terrorismo e, se questo dovesse mancare, il narcotraffico e il crimine organizzato. Le minacce declamate da Washington contro la sicurezza nazionale, adottate dai loro soci e amici, passano sotto forma di Stati ribelli che patrocinano il terrorismo internazionale (indicato dalle nuove operazioni psicologiche come estremismo transnazionale), entità non statali narcoterroriste che hanno a che fare con le armi di distruzione di massa. Questa retorica cela altri interessi vitali, quelli che definiscono le regioni in cui gli stati Uniti mostrano avere oggi la loro strategia di dissuasione. Il livello applicato nei confronti dell’Iran si colloca sotto l’aspetto che nel documento DJNO si dichiara come “… Applicare l’aggressione e la coercizione dissuasiva dispiegando preventivamente la capacità per un attacco e una veloce sconfitta e imposizione di severe sanzioni per danneggiare la capacità militare e l’infrastruttura dell’avversario”. Iran è uno dei tasselli chiave che compromette interessi vitali per gli Stati Uniti per quanto concerne il loro rifornimento energetico, nel piano ideologico e geostrategico si spinge verso la Cina e la Russia, Medio Oriente e Asia centrale.

Nei rapporti internazionali intrattenuti dagli Stati Uniti durante la Guerra Fredda, prevalevano i lineamenti ideologici nel quadro dei due blocchi con sistemi socioeconomici escludenti e quasi chiusi tra di loro. I loro obiettivi geostrategici in Eurasia si collocavano nel centro e nel sudest dell’Europa e nell’Estremo Oriente. Il collasso dell’URSS consolidò la proiezione dell’economia capitalista verso regioni quasi inaccessibili nel precedente blocco socialista, ma ebbe come contropartita l’apertura di spazi occidentali a paesi che si sono riconvertiti al capitalismo come lo sono la Cina e la Russia (che sopravvisse alla strategia Brzezinski senza frammentarsi) e che diedero inizio a nuovi processi di sviluppo. In questo modo, nei nuovi rapporti esteri delle potenze regionali cominciò a prevalere la concorrenza economica di fronte all’ideologia, uno dei cui assi è l’accesso e il controllo dei flussi di materie prime essenziali per i processi di sopravvivenza. Da quel momento gli strateghi di Washington focalizzarono nuove aree geografiche d’interessere, tra queste la regione dell’Asia centrale (in particolare il bacino del Mar Caspio) e l’Africa. Un indicatore del primo fu il cambio del comando militare delle forze americane in Asia centrale, del comando del Pacifico (USPAOM), del Comando Centrale (USCENTCOM), compiuto discretamente nel 1999. Un indicatore del secondo è la creazione del Comando Africa (USAFRICOM) nel 2008 (2). Altre regioni d’interesse sono il Mare della Cina meridionale, il Mare Giallo (delle due Coree).

L’osservazione della matrice energetica mondiale mostra la magnitudine di alcuni degli interessi che sono in gioco, e la rilevanza strategica che va acquistando nel futuro l’Asia centrale.

Gli Stati Uniti è il primo consumatore e importatore di petrolio al mondo. Quasi il 60% del petrolio grezzo che utilizza e consuma è di origine extraterritoriale. La maggiore quantità non la importa dal golfo Persico, bensì dal suo vicino Canada, un socio stabile con una riserva petrolifera otto volte maggiore, gli succede l’Arabia Saudita (con una riserva dodici volte maggiore, la più grande del mondo). Importa anche petrolio dal Venezuela (con una riserva 4,6 volte maggiore) e Messico, e in minore scala dall’Iraq (che insieme a Iran costituisce un’altra delle grandi riserve mondiali, rispettivamente cinque e sei volte maggiore di quella americana), da altri paesi del Golfo Persico, dalla Russia (con una riserva petrolifera quattro volte maggiore) e in Africa dalla Nigeria, angola e Algeria (3). Le sue riserve sono insufficienti per il suo sviluppo capitalista, le energie non convenzionali ancora non rappresentano un’alternativa sostitutiva e una riduzione significativa nel consumo della società capitalista per eccellenza non è nemmeno fattibile. Per ottenere idrocarburi, Washington cerca di non dipendere da paesi instabili, poco amichevoli o poco affidabili e stimola “operazioni di stabilizzazione” nelle regioni e la trasformazione di regimi ostili in altri pro americani, questo è il caso dell’Iran e del Venezuela. Cina è il secondo consumatore mondiale di petrolio (nonostante consuma tre volte meno degli Stai Uniti) e dopo il Giappone è il terzo importatore mondiale, importando quattro volte di meno, principalmente dal Golfo Persico, Iran e Asia centrale. Possiede una riserva di petrolio equivalente a ¾ di quella americana, ma la sua domanda cresce sette volte più in fretta.

Per conservarsi come potenza mondiale preponderante, nel medio termine gli Stati Uniti continueranno a dipendere fortemente dalle importazioni di petrolio e, in particolare, nella ricerca di nuove fonti, mentre questo rappresenta il suo combustibile primario (4), dalla crisi petrolifera degli anni settanta, cerca di rendersi indipendente dal petrolio del Medio Oriente. Ed è così che negli anni novanta ha focalizzato il suo interesse verso l’Asia centrale, in particolare il Kazajstan e il Turkmenistan con importanti riserve di petrolio e di gas rispettivamente. Questi due paesi non possiedono coste marittime e per fare in modo che i loro idrocarburi giungano sul mercato globale, devono ricorrere agli oleodotti, attraversando altre nazioni. Washington ha stabilito una rotta dal Baltico per alimentare la sua guerra in Afganistan, usando a tal fine i nuovi governi inclini nella regione del Mar Caspio. Attraverso questo corridoio costeggia Russia e Cina, invia truppe ed equipaggiamento militare verso l’Afganistan, mentre per contro cerca, allo stesso tempo, aumentare e controllare il trasporto degli idrocarburi dal Caspio L’Azerbaigian, che ha già inviato truppe in Afganistan, Iraq e Kosovo, agisce come vedetta d’appoggio militare. L’Uzbekistan, con la presenza delle truppe NATO e mediante accordi di cooperazione con Washington, gestisce il traffico aereo del materiale non militare in quella stessa rotta. Nel Tagikistan ha negoziato la costruzione di una base militare; nel Kirghizistan è riuscito a insediare un’altra base militare sulla frontiera cinese. Sta cercando di aumentare la penetrazione in Turkmenistan mediante l’aiuto e la cooperazione bilaterale ed è riuscito a penetrare negli aerodromi vicini a Iran.

Nell’Asia centrale esistono quattro paesi principali che stanno prendendo parte nella corsa agli idrocarburi: Cina, Russia, Stati Uniti e Iran. In qualsiasi paese nel quale attraversa un oleodotto/gasdotto, questo possiede un controllo sugli idrocarburi che trasporta e, di conseguenza, sull’energia. Non solo possono esigere, ma anche aumentare gli onorari per la circolazione, possono interrompere la somministrazione per cause politiche, economiche, instabilità e conflitti armati. La costruzione di oleodotti transfrontalieri richiede Trattati, e riguarda il piano strategico delle relazioni internazionali di ciascun paese, nel quale oltre al settore statale le potenze intervengono nel sostegno delle loro grandi corporazioni private.

Fino agli anni novanta gli idrocarburi dell’Asia centrale fluivano nei condotti della Russia, che attualmente somministra la maggior parte del gas (90%) e del petrolio all’Europa occidentale. Mosca cerca di difendere questa posizione e la sua connotazione internazionale, di modo che considera apertamente l’Asia centrale sotto la sua sfera d’influenza. Se la Russia prendesse il controllo delle riserve petrolifere di questa e le sommasse alle sue, diverrebbe un diretto rivale del Medio Oriente.

È anche probabile che la Cina veda l’Asia centrale come una zona d’influenza, anche se non lo rende pubblico. Secondo un accordo celebrato con il Kazakistan poco più di un decennio fa, si è appena conclusa la costruzione dell’oleodotto KCP di 3000 km che invia petrolio da quel paese direttamente verso la Cina.

Poiché gli Stati Uniti sono un attore extraregionale, non ha accesso diretto, così esso cerca il modo per fare arrivare gli idrocarburi dall’Asia centrale verso il mercato globale dove ha accesso, senza il controllo della Cina, della Russia e dell’Iran. Quest’ultimo rappresenta il concorrente più debole e con maggiore probabilità a essere neutralizzato. D’altra parte il progetto del Grande Medio Oriente, un’iniziativa dell’amministrazione di G. W. Bush, riguarda l’indipendenza energetica degli Stati Uniti in Medio Oriente, vale a dire, quella di una regione allargata sotto il consenso pro americano che specialmente includeva l’Iran, l’Afganistan, il Pakistan e la Turchia. Tuttavia, il progetto si è visto in parte frustrato dall’esito parziale dell’invasione in Iraq e dal grande ostacolo che rappresenta l’Iran. L’Afganistan è un paese quasi privo di petrolio, tuttavia invaso dagli USA e dai suoi soci della NATO. Una delle cause è l’importanza che esso rappresenta agli occhi degli americani come via energetica, difatti, l’intenzione di Washington è di costruire un oleodotto (TAP) per estrarre il petrolio dal Turkmenistan attraverso il mare di Arabia, attraversando il Pakistan e l’Afganistan, ma il progetto si trova fermo per la guerra che portano avanti i talebani nelle montagne di questo paese. Inoltre, così come l’impero britannico promosse la coltivazione d’oppio nell’India per introdurlo nella popolazione cinese, l’esempio della madre patria non è stato invano, e la pseudo lotta dichiarata dagli USA e dalla NATO contro il narcotraffico nel nord dell’Afganistan, mantiene la produzione e traffico di droghe così come la permeabilità frontaliera delle ex repubbliche sovietiche, di modo che la droga sta penetrando in Russia.

L’Iran sta cercando di guadagnare il maggiore controllo possibile degli idrocarburi in Asia centrale, il che è direttamente proporzionale alla forza e alla leadership che possa ottenere in Medio Oriente e manovrare politicamente a livello internazionale. Nell’attualità e marginalmente dagli Stati Uniti, l’Iran importa gas dal Turkmenistan attraverso il gasdotto KKK il che gli consente di esportare tutta la sua produzione del sud, e serba maggiori progetti nel suo territorio per quanto concerne la stesura di diverse vie energetiche dal Turkmenistan (e Kazakhstan) fino al mare Arabico, o dal Pakistan verso l’India, o verso Turchia. Tuttavia, i progetti sono bloccati dalla sospensione imposta da Washington e dall’influenza che esso esercita sui due paesi dell’Asia centrale. Attualmente non esistono condotti che possano trasportare su grande scala il gas dal Kazakhstan e dal Turkmenistan verso i mercati aperti di cui gli USA hanno interesse. Geograficamente le rotte iraniane del gas sono altamente convenienti rispetto ad altre possibili, dovuto alla capacità di accesso che possiede questo paese nei confronti dei bacini di acqua. Per il momento, si valuta che il trasporto di gas iraniano ha un costo molto inferiore a quello della futura conduttura trans Caspio (TCP) promossa dagli USA, la quale passa attraverso l’Azerbaigian e con la che si spera di ridurre la forte dipendenza dall’Europa, per quanto concerne il gas russo, oltre che bloccare l’Iran.

Per Teheran così come per Mosca, le rotte energetiche, che attraversano i territori dei rispettivi paesi, procurano loro incassi dovuti al pedaggio, compreso i vantaggi che proporziona l’uso politico degli idrocarburi che trasportano, ma disporre dei propri giacimenti diventa fondamentale per la loro forza.

Sin dagli inizi del XX secolo, nell’ambito capitalista il petrolio cominciò a prendere il sopravvento come combustibile nei confronti del carbone. Dopo la I Guerra Mondiale, l’Inghilterra prese il controllo delle riserve petrolifere dell’Iran e diede inizio al saccheggio, insieme a Francia e ad altre potenze colonialiste, con la complicità dei regimi iraniani anglofili. Con l’entrata sulla scena degli Stai Uniti, questi cominciarono a occupare il posto dell’Inghilterra e dei colonialisti, i quali rimasero relegati quando questo paese uscì rafforzato dopo la II Guerra Mondiale. All’inizio degli anni cinquanta, gli iraniani riuscirono a ottenere la nazionalizzazione dell’idrocarburo con il governo di Mossadegh. Immediatamente gli USA capeggiarono un colpo di stato che lo fece crollare, s’impadroniscono del controllo energetico e prendono il posto dell’Inghilterra, facendo fronte all’Unione Sovietica e frenando i movimenti popolari anti imperialisti e nazionalisti. Il regime fantoccio filoamericano instaurato dello scià Reza Pahlevi esportava il petrolio iraniano a Israele, Stati Uniti, Inghilterra e altri paesi occidentali, continuando con l’esazione fino alla Rivoluzione islamica del 1979. Questa fu così importante che squilibrò la strategia di Washington nel contesto dipolare, e accelerò il suo sabotaggio al regime pro sovietico di Afganistan, il che a sua volta fu una delle cause che indusse l’intervento militare dell’URSS in quel paese. Nell’attualità, la Rivoluzione Islamica cerca di portare avanti lo sviluppo nazionale disponendo della ricchezza ottenuta dall’esportazione dei suoi idrocarburi, un pericolo inammissibile per Israele, Washington e soci. Oggi, l’Iran esporta petrolio verso l’Europa, la Turchia, l’India, il Giappone e la Cina.

D’altro canto, l’Iran possiede dopo la Russia una delle maggiori riserve mondiali di gas (il cui punto massimo di produzione globale sostenibile si raggiungerà dopo svariate decadi che il petrolio arrivi al suo picco massimo, che sembra imminente). La Cina serba particolare attenzione nel volere aumentare l’importazione d’idrocarburi dall’Iran. Anche l’India, superando le sanzioni imposte da Washington, ha cercato di costruire un condotto (negoziando persino con il suo avversario pakistano), che è stata severamente disapprovata da Hillary Clinton. A sua volta, le grandi petroliere americane fanno pressioni su Washington affinché si sfruttino gli idrocarburi iraniani, ma anche se Obama solleva l’Ordinanza Esecutiva 12959 di Clinton-Bush che vieta alle multinazionali qualsiasi rapporto con l’Iran, non può toglier di mezzo l’antiamericanismo della Rivoluzione Islamica.

Il fattore ideologico costituisce per gli Stati Uniti una minaccia di non poco conto. Lo stesso Islam si scontra con l’ideologia della mondializzazione angloamericana e con l’americanismo con il quale si pretende trasformare tutto il Medio Oriente. In Iran, la religione islamica condanna come moralmente inaccettabili le armi di distruzione di massa che uccidono indiscriminatamente civili e militar (comprese le armi nucleari). Lo stesso Ahmadinejad ha pubblicamente dichiarato durante la visita di diversi paesi: “… L’Iran non ha mai iniziato una guerra o preteso di possedere una bomba atomica”. Sebbene Teheran arricchisca l’uranio al 20% si troverebbe ancora molto lontano da raggiungere la purezza dell’Uranio 235 (puro almeno il 90%), indispensabile per la reazione a catena di una bomba nucleare. L’attuale governo iraniano costituisce una barriera per la globalizzazione angloamericana in Medio Oriente e un pericoloso esempio di paese che osa affrontare la prima potenza militare del mondo. Washington ha bisogno di finire con l’influenza islamica regionale di Teheran in Medio Oriente, anche se non molto in Asia centrale, poiché questa non possiede molti vincoli storico-culturali come s’ipotizza ed entrambi gli islamismi sono etnicamente diversi. Nonostante quello che recita la propaganda occidentale, è complesso e poco probabile che nelle attuali condizioni un islamismo possa trascinare l’altro.

Per quanto concerne l’offensiva militare diretta da Washington contro l’Iran, è parte del piano delle fazioni neocon e sioniste del governo di G. W. Bush. Verso la fine d’agosto del 2007 si scatenò una forte tensione quando Bush predisse improvvisamente la possibilità di un olocausto nucleare in Medio Oriente per causa del programma atomico d’Iran, accusandolo in maniera forte di fomentare il terrorismo internazionale, agire contro le truppe americane in Iraq e finanziare Hamas e Hezbollah. Alcuni giorni dopo avvenne l’incidente del bombardiere B-52, il quale era equipaggiato di sei missili cruise stealth (invisibili ai radar) AGM-129 dotati di testate nucleari, sorvolò senza autorizzazione del Pentagono dalla base aerea Minot (Dakota del Sud) fino alla base Barksdale (nella Louisiana) che costituisce la testa di ponte per i bombardieri in Medio Oriente (e dove partì nel 2003 l’offensiva contro l’Iraq, “colpire e terrorizzare”). Esistono informazioni che si è trattato di una operazione occulta, la quale fu frustrata dall’interno, diretta per coinvolgere e colpevolizzare l’Iran e così iniziare un attacco nucleare diretto. Sembra che siano stati coinvolti i seguaci dell’allora vicepresidente Cheney. Dopo che il Dipartimento di Difesa avesse dichiarato l’incidente come “di un errore nella catena di comando”, sei effettivi della Forza Aerea collegati al caso morirono in circostanze poco chiare.

Una guerra guidata dagli inglesi, dagli americani, dagli israeliani e dalla NATO contro l’Iran potrebbe assumere le caratteristiche di una resistenza di lunga durata con una importante componente irregolare. Affinché non divenga una nuova fangaia, Washington previamente dovrà diminuire l’intensità dei suoi conflitti in Iraq e assicurarsi di non rimanere “solo” in Afganistan. Per quanto concerne il primo aspetto, Obama ha annunciato la fine della missione di combattimento e l’inizio della ritirata, che in realtà è un simulacro, poiché si assicura la permanenza strategica con circa 50.000 soldati addestrati per operazioni contro i terroristi, le brigate di combattimento ribattezzate sotto il nome di brigate di assistenza e di consulenza sono presenti in decine di basi militari operative, e stanno arrivando nuove ondate di mercenari (denominati contrattisti). Tutto indica la recrudescenza delle operazioni nascoste e d’intelligenza. In ogni caso, Obama ha definito politicamente il conflitto.

I dirigenti iraniani hanno dichiarato recentemente che “… l’Iran non è l’Afganistan né tantomeno l’Iraq. Quando la nostra Rivoluzione Islamica stava appena nascendo, ci imposero una guerra dall’Iraq appoggiata dagli USA e dalle altre potenze occidentali, persino dai paesi della regione. Tutti aiutarono al regime di Saddam Hussein con logistica e armi tecnologicamente avanzate. Noi abbiamo resistito, la guerra durò otto lunghi anni ed ebbe il saldo di oltre un milione di morti distribuiti in entrambi i bandi, ma siamo riusciti a sconfiggere le pretese imperialiste e abbiamo ottenuto la vittoria. Oggi, la nostra rivoluzione possiede 30 anni ed è un giovane forte. Siamo più preparati di prima. Negli ultimi 200 anni l’Iran non ha mai dato inizio a una guerra, ma se gli Stati Uniti e il regime sionista la volessero iniziare oggi, coloro che la finiranno non saranno proprio loro. L’Iran si trova al 100% preparato per la resistenza. Tra gli altri, ha a disposizione più di 20 milioni di miliziani mobilitati e preparati per rispondere a un attacco (il 30% della popolazione)”.

La capacità di risposta asimmetrica da parte di quello che fu l’impero persa necessiterà neutralizzare il sabotaggio, bombardamento e attacchi missilistici sul Golfo Persico: l’embargo anche temporaneo dello stretto di Hormuz, il porto navale in cui si raccoglie la V Flotta (in Bahrain) e Qatar (l’arricchita enclave americana), agli ordini del sottocomando dell’USCENTCOM in Dubai, e sui campi petroliferi dell’Arabia Saudita.

Per Washington non è di meno valutare il peso dei compromessi internazionali di Teheran con gli attori rilevanti in Asia, come Russia, Cina, Kazakistan, la sua vicinanza come osservatore dell’Organizzazione di Cooperazione di Shangai, i suoi rapporti con le altre ex repubbliche sovietiche come Turkmenistan e persino Georgia e Azerbaigian, oggi vicine agli USA, i suoi accordi energetici con la Turchia e l’appoggio contro il secessionismo del Kurdistan e i rapporti con l’America latina, Brasile e Venezuela.

In materia nucleare, sarebbe appropriato e perfino necessario per Teheran disporre di armi di distruzione di massa, non esistono seri indizi di un loro possesso, nonostante le congetture che sono state compiute, simili a quelle del grande inganno iracheno. Sarebbe politicamente controproducente che sotto una prospettiva unilaterale e aperta, Obama autorizzi l’utilizzo di dispositivi nucleari strategici, secondo la dottrina DJNO “… L’uso di armi nucleari rappresenta una escalation significativa rispetto alla guerra convenzionale e può essere causata da qualche azione, evento o minaccia. Tuttavia, come in ogni azione militare, la decisione per la sua applicazione è governata dall’obiettivo politico che si vuole raggiungere”. E aggiunge “… Questa scelta coinvolge molte considerazioni politiche che cozzano sull’utilizzo dell’arma nucleare, i tipi, il numero delle armi e il metodo d’impiego … La reazione internazionale verso il paese o entità non statale che per la prima volta impieghi armi di distruzione di massa è una considerazione politica importante. Anche se il belligerante che dia inizio a una guerra nucleare può riscuotere tutto il biasimo internazionale, non esiste nessuna legge internazionale che proibisca alle nazioni l’impiego di armi nucleari in un conflitto armato”.

Il documento è permeabile per quanto concerne l’utilizzo di armi nucleari, il che è credibile poiché l’inquinamento radioattivo su grandi aree si può evitare con l’uso di armi nucleari tattiche (di bassa intensità) in luogo di quelle strategiche. Queste manovre atomiche sviluppate sotto il governo di G.W. Bush, non violano il Trattato di non Proliferazione Nucleare (poiché non proibisce lo sviluppo di nuovi tipi di armi). La grandezza dei danni collaterali dovuti alla radioattività è equivalente a quella degli esplosivi convenzionali e si localizza in un raggio di circa un chilometro e anche minore. In una offensiva a discrezione, questi dispositivi combinati con il resto della gamma di armi non nucleari, passerebbero per inavvertiti. Il loro utilizzo sul campo di battaglia, dopo aver ricevuto l’ordine presidenziale, è autorizzato ai comandanti quando lo credano opportuno e possono essere lanciati, ad esempio, contro le grandi concentrazioni di forze terrestri o anfibie, bersagli molto difesi, installazioni di comando sotterranee, arsenali, fabbriche di materiale strategico. Il costo politico del primo paese che attualmente faccia uso dell’armamento nucleare può essere messo a carico di paesi terzi mediante qualche astuzia, come l’Iran, oppure assunto da Israele perché, anche se fosse presentato come una presa d’iniziativa unilaterale, realmente non lo sarà poiché, da un punto di vista bellico, per affrontare con probabilità di riuscita l’Iran, Israele dovrebbe fare affidamento all’appoggio di soggetti del calibro degli Stati Uniti e della NATO per le operazioni di combattimento.

Negli obiettivi di Washington c’è certezza in un cambio di regime in Iran, ma c’è anche incertezza su come si potrà agire. In altre parole, la convenienza tra un attacco militare e l’implosione indotta, rappresenta una disgiuntiva probabilistica complessa per Obama dovuto alla molteplicità di parametri, le mutevoli condizioni internazionali, il profilo democratico e i rapporti di forza, la situazione di recessione interna e di disoccupazione che sta attraversando gli Stati Uniti e le prossime elezioni parlamentari dove il suo partito può perdere la maggioranza nel Congresso. Le guerre politiche per la destabilizzazione, aizzando il confronto tra settori interni (come le rivoluzioni colorate nei Balcani) erano già iniziate in Iran con l’amministrazione Bush, anche se non raggiunsero i risultati attesi. Nella progressiva escalation aggressiva e coercizione dissuasiva, Obama ha aumentato l’embargo internazionale a livello politico mediante la diplomazia e la guerra psicologica di diffamazione con i mezzi di comunicazione, dove il sionismo gioca un ruolo fondamentale nella ricerca di alleati tra i paesi, a livello militare con convegni, presenze di forze e spiegamento di contingenti armati negli undici paesi che circondano l’Iran, che formano anche parte dell’assedio nei confronti della Russia e della Cina. Sul versante economico, Washington ha incrementato l’applicazione di nuove sanzioni mediante le istituzioni internazionali e collaborazioniste che manipola. Con tutto questo è riuscito a raggiungere certa tolleranza da parte dei settori neocon, sionisti e mercanti del complesso militare-industriale. Nel prossimo gradino, probabilmente ha intenzioni di preparare le condizioni per la “specialità” americano-israeliana: assassinii di leader principali per produrre una reazione a catena e l’implosione della Rivoluzione iraniana molto prima delle elezioni del 2013.

Ma il cambio di regime in Iran cagionato dall’implosione o dall’effetto armato diretto o indiretto tracciato dagli USA e assecondato da Israele, Inghilterra e Unione Europea, forma parte di una strategia di un’importanza ancora maggiore. Washington non esibisce la visione di un ordine multipolare come quella della Cina nel quadro della cosiddetta globalizzazione economica. Recentemente Obama ha suggerito a Beijing di formalizzare un disonesto G2 (che Cina ha rifiutato), in realtà Washington ha evidenziato la sua concezione verso una sorta di G1 nel quale condurrà la multipolarità globale, vale a dire, non sembra avere intenzione di perdere il suo primato mondiale. Alcuni giorni fa Hillary Clinton ha manifestato nel Council on Foreign Relations (CFR): “… Gli Stati Uniti possono, devono e hanno la volontà di essere leader in questo nuovo secolo. Le complessità e i collegamenti del mondo attuale hanno condotto verso un Nuovo Momento Americano, un momento nel quale la nostra leadership globale è essenziale, anche se spesso dobbiamo muoverci sotto nuove forme” (5). Difatti, il costante interesse per il mantenimento e l’aumento del vantaggio assoluto nel campo militare suggerisce che non tollererà competitori alla pari, siano essi amici o nemici, come l’Europa Occidentale o, rispettivamente, la Cina e la Russia.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, l’avanzata strategica degli Stati Uniti sull’Emisfero Orientale il cui nucleo è il territorio continentale di Eurasia, avvenne in occidente, dall’Europa, e in Oriente, dal Giappone. Nell’attualità, l’avanzata prevede il passaggio attraverso l’Asia centrale e la regione sudest composta dal Mare della Cina.

È risaputo che un potenziale conflitto bellico contro l’Iran scavalcherebbe facilmente le sue frontiere. Potrebbe causare scosse belliciste nelle regioni circostanti della Penisola Arabica, nel Levante Israele, Siria, Libano, Palestina (Gaza), in Iraq e Afganistan (Pakistan), in Turchia, nel Caucaso, Asia Centrale, nel Nord Africa, Somalia e Sudan, tra gli altri. Inoltre, si spera una ripercussione generalizzata nella misura in cui si vedrebbero colpiti i flussi di idrocarburi. Per gli Stati Uniti e la NATO si tratta di una eccellente opportunità il fatto di aumentare preventivamente la loro presenza e dissuasione militare, almeno per quanto concerne le regioni petroliere mondiali strategiche, e oltre a quello che denomina l’arco d’instabilità, dove si trovano i paesi che non aderiscono alla demonizzazione di Teheran. Rendere più profondo, in questa forma, l’accerchiamento nei confronti del Venezuela e la regione dei Caraibi, come anche nel Mare della Cina e in Indonesia. In Africa, aumentare la sua presenza nel Golfo della Guinea, preventivamente il Brasile ha concordato con il governo di Namibia l’insediamento di una base militare in quel paese. Circondare militarmente l’Iran diventa utile a Washington per proiettare le sue forze, armando le regioni strategiche, in primo luogo, nei confronti della Cina e della Russia e, in seguito, dell’India e del Brasile.

Storicamente il fattore di superiorità sul piano militare è un contrappeso rivelatore di fronte agli svantaggi presenti in altri campi, come quello economico.

La dissuasione nei confronti dell’Iran con lo spiegamento militare che ciò implica, pretende difendere una delle zampe di Washington in Medio Oriente, Israele, sopportare i collaborazionisti regionali, persino quelli che operano su due versanti come l’Arabia Saudita. I progressivi “assedi” militari del Pentagono in Eurasia producono degli effetti sull’espansione cinese. Tuttavia, di fonte alla costante vendita d’armi a Taiwan e le sfacciate esercitazioni militari combinate nel Mare Orientale e Meridionale della Cina, Beijing ha annunciato il missile Dong Feng 21D con la capacità di poter affondare una portaerei e una portata di 1500 kilometri, ed è probabile che in caso di conflitto applichi la dottrina di Guerra Senza Restrizioni, la cui prima regola afferma: “Non esistono altre regole”. Hanno anche l’effetto di avvertire a Russia e controllare l’Europa; sebbene sotto alcuni aspetti, Medvedev, a differenza del nazionalismo di Putin, tende più verso un pragmatismo conciliatore (che fa riferimento a Chubais, l’ideologo russo del liberalismo economico degli anni novanta) che beneficia gli Stati Uniti. Il freno frapposto da Mosca appare segnando, nella sua nuova politica estera, il territorio con la “sfera di zone d’influenza privilegiate”; così l’ha annunciato recentemente con l’installazione di missili antiaerei S-300 in Abjasia e Osezia del sud, entrambe separatiste della pro-atlantista Georgia.

L’imminente minaccia di attacco militare nei confronti dell’Iran potrebbe rispondere alla definizione di cui fa menzione la dottrina DJNO: “… Sconfiggere in forma decisiva un avversario nel caso in cui dovesse fallire la dissuasione”. Ma anche formare parte della dissuasione che il medesimo documento sostiene.

Note:

(1)   Doctrine for Join Nuclear Operations, Join Publication 3-12. Final Coordination (2), 15 March 2005.

(2)   USPACOM è il Commando del Pacifico (United States Pacific Command). USCENTCOM, è il Commando Centrale (United States Central Command) che interviene in Medio Oriente e USAFRICOM, il Commando di Africa (United States Africa Command). Questi sono 3 dei 6 comandi militari unificati in cui il Pentagono ha unilateralmente diviso tutto il pianeta.

(3)   Energy Information Administration, http://www.eia.doe.gov/

(4)   Gli Stati Uniti producono la maggior parte della loro energia consumando in primo luogo petrolio (39%) segue il gas naturale (23,5%) e carbone (22%).

(5)   “A Conversation with U.S. Secretary of State Hillary Rodham Clinton”, Richard N. Haass, Council on Foreign Relations, September 08, 2010.

*(edizione speciale per ARGENPRESS.info)

(traduzione di V. Paglione)


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