1. François de La Rochefoucauld sosteneva essere l’ipocrisia un omaggio che il vizio rende alla virtù. Cambiando invece radicalmente cornice, registro e statuto teorici, Niccolò Machiavelli annoverava, tra le virtù del Principe, la capacità di farsi simulatore e dissimulatore, ove ciò sia funzionale alla conservazione del potere (a sua volta diretta alla stabilità e potenziamento dello Stato, ecc.) . Ed il poeta barocco Torquato Accetto, nel suo trattatello Della Dissimulazione Onesta, di cui si sono rilevate le ascendenze anche nell’opera del sommo pensatore fiorentino, avrebbe propugnato – secondo un’inconsueta interpretazione politica di quel testo – la necessità, nelle “cose” politiche, di essere accorti e prudenti sulla base del calcolo dei rapporti di forza esistenti in quel dato momento, alla ricerca del momento opportuno, del kairos in cui agire, sottomettendo così l’impulso alla ragione.
Ma tutto questo solamente per sottolineare come qui si riconosca senza riserve l’importanza della prudenzia (proprio nell’accezione machiavelliana del termine, e quindi non in senso assoluto, poiché, quando la prudenza diventa regola assoluta, trasmoda in paludosi attendismo ed inerzia), unitamente alla forza, per aspirare, in modo non velleitario, alle “grandi fortune” nell’agire politico. Ma, appunto, “nell’agire”, ossia nel bel mezzo dell’attuazione di un dato progetto. Quando invece si intende analizzare fatti di rilevanza politica ed in genere pubblica, e lo si pretende fare in quella veste di osservatore esterno che nel nostro attuale assetto sociale trova incarnazione per lo più nella figura del giornalista d’inchiesta, allora la necessità dell’ipocrisia dovrebbe venire meno.
E ciò per lasciare spazio ad una ricognizione della realtà non soltanto priva di imbellettature ma anche, per quanto possibile, non limitata a quegli aspetti che servono a confermare, o a suggerire, l’esattezza di una propria convinzione, bensì capace di vedere anche circostanze idonee a confutare o quantomeno a rendere problematica, relativa, non perentoria tale convinzione. Non certo perché ho il gusto per la “complessità” in sé. Semmai, ho interesse alla decostruzione di discorsi in base al loro stesso principio di funzionamento, cercando di mostrarne lacune ed aporie, tanto più quando tali discorsi si ammantano della patina dell’Evidenza (perché accade che sovente l’evidenza è soltanto il nome con cui si designa l’applicazione pigra, seppure comprensibile per l’economia nel dispendio di energia mentale che essa consente, di schemi cognitivi dettati dall’abitudine o dalla convenienza sociale).
2. Ecco, il servizio principale della puntata del programma televisivo Report trasmessa domenica 21 novembre 2010, mi sembra abbia invece esibito un concentrato di quella stessa ipocrisia da cui pure si compiace essere esente, il tutto calato in una narrazione tanto sovraccarica di “fatti” quanto, però, omissiva ed allusiva negli snodi cruciali. Vediamo.
Intitolato “La famiglia Finmeccanica”, il servizio ha trattato dell’indagine penale condotta dalla Procura di Roma la quale, coinvolgendo talune attività di questa holding industriale, ha portato sinora all’arresto, tra gli altri, di Lorenzo Cola, presunto consulente economico di Pierfrancesco Guarguaglini, presidente ed amministratore delegato di Finmeccanica. Più in particolare, ed in estrema sintesi, l’ipotesi investigativa degl’inquirenti capitolini s’incentra sulla costituzione di “fondi neri” effettuata (anche) a favore di Finmeccanica mediante il trasferimento del 51% delle quote sociali della Digint S.r.l. (il cui 49% è invece di proprietà di Finmeccanica) da una fiduciaria lussemburghese ad altro soggetto (Mokbel, già arrestato nell’ambito di altra indagine), il quale le avrebbe acquistate con denaro di provenienza illecita versato al citato Lorenzo Cola, quale incaricato di Guarguaglini.
Un dato è balzato subito agli occhi: nel corso del servizio non si è indicata alcuna prova regina del coinvolgimento di Guarguaglini. Ci si è inebriati con una girandola di nomi, interviste pregne di considerazioni banali e però suggestive (di una suggestività da feuilleton, invero, che irradiava dalla sfilata del corteo composto da Soldi-Armi-Servizi segreti-Potere), e tuttavia, oltre l’affermazione per cui Cola è stato arrestato per riciclaggio, non si è potuti andare.
Cosi, per colmare la lacuna, si è puntato tutto sull’insinuazione e sull’analogia.
3. Sull’insinuazione. Muovendo dalla premessa che Cola, accusato di riciclaggio, è consulente di Guarguaglini, si è lasciato intendere che allora dominus dell’attività supposta illecita altri non potrebbe essere che Guarguaglini. Non prendendosi minimamente in considerazione, tuttavia, che, anche ammesso che Mokbel abbia trattato e concluso la cessione della Digint con Cola, quest’ultimo, per come sembra presentarsi, ben potrebbe avere gestito in proprio l’operazione con Mokbel stesso; oppure – altra ipotesi – condotta dietro sollecitazione della Ernst & Young, che ha inteso proporla a Finmeccanica tramite, appunto, Cola, che avrebbe così assunto la veste di collaboratore della menzionata banca d’affari d’origine statunitense. Proprio a questo proposito, Report intervista un dipendente di quest’ultima, tal Giuseppe Mongiello, il quale esclude che Cola ne fosse consulente. Eppure lo stesso Mongiello dichiarò, secondo quanto riportato dai quotidiani nel luglio 2010, che la maggioranza (il 51%) delle quote della fiduciaria lussemburghese che, come visto, controllava a sua volta la Digint (con il 51%), erano state intestate provvisoriamente alla propria moglie, in attesa di una loro ulteriore cessione. Dunque, una banca d’affari che non propone e promuove un’operazione di cessione societaria ma che avrebbe svolto soltanto servizi di consulenza dietro richiesta di Cola, e che tuttavia giunge ad intestarsi (addirittura tramite la moglie di un suo dipendente) le quote societarie oggetto dell’operazione stessa, come fosse interessata in prima persona alla stessa. La questione avrebbe quantomeno meritato un approfondimento degno della leggendaria diligenza degli eroici giornalisti di Report; ma così non è stato.
Ancora. Parte delle quote della finanziaria lussemburghese sono state acquistate da Nicola Mugnato, uno dei tecnici progettisti di un software della Digint particolarmente efficace ed evoluto, ed attualmente direttore generale della Digint stessa. Il giornalista di Report, intervistandolo, gli domanda sconcertato se sia normale e non preoccupante che i suoi soci della fiduciaria lussemburghese fossero occulti. Il tutto a voler enfatizzare ulteriormente l’anomalia dell’intera operazione. Eppure, quando nel gennaio 2010 la Repubblica pubblicò un articolo sulla Digint, menzionando anche l’esistenza di una fiduciaria lussemburghese che ne aveva il controllo, siffatta circostanza non sembrava certo uno scandalo, mentre il fuoco dell’articolo era tutto condensato nell’interesse di Finmeccanica, per il tramite del “nuovo fiore all’occhiello” (così veniva definita nell’articolo la) Digint, al settore della gestione delle intercettazioni per conto delle Procure. Pertanto, è solo ora ed in questo preciso contesto narrativo che il fatto che i soci della fiduciaria fossero, appunto, “schermati”, acquista la sua valenza evocativa. Per contro, valutata la cosa alla luce della pratica degli affari, ed in altro contesto, tale circostanza non era poi così sconvolgente (ed infatti tono e contenuti del citato articolo di Repubblica del gennaio 2010 non erano minimamente improntati allo scandalo).
4. Il procedimento analogico è stato, poi, come accennato, l’altro strumento usato per compensare carenze di elementi che inchiodino Guarguaglini. A tale strumento si è fatto ricorso nei passaggi effettivamente tra i più suggestivi (e suggestivamente speciosi) del servizio.
Il primo passaggio è rappresentato dall’intervista a Pacini Battaglia, finanziere noto per il suo massiccio coinvolgimento nelle vicende di “Tangentopoli”. Costui conferma che nel 1995 aveva costituito con Guarguaglini, che all’epoca era amministratore delegato della Oto Melara, una serie di società lussemburghesi che avrebbero dovuto ricevere una serie di commesse da Finmeccanica, così da valorizzarle per poi rivenderle, con notevoli plusvalenze, a quest’ultima. In altri termini, secondo Report si tratterebbe dello stesso metodo poi adottato con la Digint. Peccato, però, che Guarguaglini, nel 1995, era, come detto, amministratore delegato di Oto Melara, mentre a Finmeccanica giungerà soltanto nel 2002. Difatti, Pacini Battaglia è vago sul punto, asserendo che l’operazione sarebbe stata completata o con l’arrivo di Guarguaglini in Finmeccanica oppure perché “era molto amico della Finmeccanica”. Ma sul punto l’indomito intervistatore non ritiene di incalzare Pacini Battaglia, soddisfatto, evidentemente, dell’effetto evocativo indubbiamente generato dall’auto-abbinamento di quest’ultimo a Guarguaglini. Eppure, forse un po’ più di acribia sarebbe stata opportuna, se non altro perché ci si trovava pur sempre al cospetto di colui che ebbe a dichiarare: “Le bugie sono il mio mestiere”. Del resto, non va trascurato che, per la vicenda in parola, Guarguaglini fu bensì imputato ma assolto perché il fatto non sussiste. Peraltro, nel servizio viene precisato che intervenne l’assoluzione, ma sostenendo che questa fu ottenuta solo perché il progetto Pacini Battaglia-Guarguaglini non fu portato a termine. Senza rendersi conto che in questo caso si sarebbe configurato allora quantomeno il tentativo, e quindi la condanna. Ma allora non ha alcun senso logico affermare – come invece fa Gabanelli intervenendo dopo l’intervista in questione – che “nel ‘96 avevano scoperto i magistrati e oggi confermato dallo stesso Pacini Battaglia” proprio il sopradescritto progetto. Proprio perché ciò che è stato rigettato dal giudice, ossia il contenuto della tesi accusatoria, non può essere oggetto di alcuna conferma da chicchessia, tantomeno da un coimputato (assolto) quale Pacini Battaglia.
Il secondo passaggio è rappresentato dall’intervista ad un (anonimo) direttore dell’ufficio vendite di un’impresa produttrice di armi. Quest’ultimo rivela che, nel settore, tutte le imprese, per ottenere commesse, versano tangenti a funzionari e politici locali mediante la mediazione di agenti locali. Ergo, anche Finmeccanica sarebbe partecipe dello stesso meccanismo. Perfetto, nulla da obiettare; trattasi di per sé di spunto interessante. Tuttavia, in una trasmissione giornalistica seria, ossia tale da non procedere soltanto a tesi ma da esplorare quelle diverse linee di sviluppo che nel suo svolgimento essa stessa ha avuto il merito e/o la fortuna di lasciare intravedere, si sarebbe dovuto collegare quello spunto all’episodio costituito dall’acquisto da parte della Finmeccanica, in data 22 ottobre 2008, della DRS Technologies Inc., società statunitense avente un ruolo strategico nel settore della tecnologia degli armamenti e tra le prime fornitrici delle forze armate e dell’intelligence USA.
Perché, applicando la regola di condotta suggerita dal suddetto anonimo direttore dell’ufficio vendite, ne viene necessariamente che qualche agente locale avrebbe intermediato e versato tangenti ad alti funzionari del Pentagono e/o politico di elevato livello (conformemente al grado d’importanza dell’affare) per l’acquisto della menzionata società statunitense. Peccato, perché sarebbe stato interessante estendere la valorosa inchiesta giornalistica anche in territorio statunitense per l’approfondimento di siffatto aspetto, d’indubbia rilevanza. Né può sostenersi che Report non avesse presente l’esistenza dell’avvenuto acquisto della DRS, dal momento che il programma si chiude proprio con il riferimento ad esso. Ma è riferimento che serve soltanto per far dire a Gabanelli che Guarguaglini, pagando la DRS 3 miliardi e mezzo di euro, ha gravato i suoi successori di un debito ingente da estinguere sino al 2022. Singolare impostazione, peraltro: si valuta un affare di questa portata economica (ed a volerne tacere quella strategico-politica), non quale investimento patrimoniale di Finmeccanica in immobilizzazioni, generatore o meno di reddito futuro (semmai era questo l’aspetto da stimare), bensì quasi come un debito personale di Guarguaglini, che lo stesso avrebbe scaricato sui suoi successori-persone fisiche. Bocciata in ragioneria, e per di più nei suoi fondamentali, dottoressa Gabanelli.
Ma, soprattutto, ritengo avrebbe meritato sviluppo su un piano più generale la regola (enunciata dal menzionato anonimo direttore dell’ufficio vendite e che si potrebbe definire) del “così fan tutte” (le imprese produttrici d’armi). Ma qui credo che l’omissione non dipenda soltanto da mala fede (che pure è probabile ci sia) o da un deliberato intento denigratorio (che pure non può escludersi) degli autori del servizio. L’omissione è per sistema; per l’abito mentale che normalmente indossa, ma come una vera e propria seconda pelle, la generazione, germinata eminentemente dalla seconda Repubblica, dei c.d. giornalisti d’inchiesta che “vanno contro il potere”. E qui si giunge a toccare il punto che più mi preme sottolineare in questo intervento: quello dell’ipocrisia e del suo immancabile additivo, il moralismo giustizialista.
5. Lo si sa ma non lo si dice. Questa è la cifra dell’attività della nominata genia giornalistica. Invece di analizzare il funzionamento reale di un meccanismo, l’impulso principe è quello di sfogliare innanzitutto il codice penale, dopodiché, una volta rinvenuti qui i paradigmi per l’esame del meccanismo, amputare tutte le componenti di quest’ultimo che fuoriescono dalle fattispecie incriminatici, in quanto reputate irrilevanti. Si induce così, nel fruitore del prodotto della prassi di tale genia, la sensazione di avere colto e di padroneggiare l’intima fisionomia di un disegno supposto criminoso, mentre in realtà si silenzia qualsiasi possibilità di conoscenza delle condizioni che fanno funzionare ed in qualche modo spiegano il meccanismo stesso. Ora, nel caso di Finmeccanica, e più in generale in un settore “merceologico” altamente competitivo quale quello dei sistemi d’arma ed integrati di difesa, la tangente è ineliminabile e strutturale. Essa, anzi, ben può definirsi nei termini di un vero e proprio costo di mediazione. La questione, allora, per essere onesti, non è se tale costo sia lecito o meno, ma se esso sia giustificato e proporzionato sulla base di una valutazione di conformità del mezzo al fine da perseguire. La misura, insomma, è nella cosa stessa. Ed è misura che necessariamente, per sua natura, deve attuarsi nell’ombra, agire ed autoregolarsi nel retroscena, in vista della riuscita dell’intrapresa, e della successiva celebrazione dei suoi risultati, da allestire ed ammannire per la pubblica opinione, opportunamente enfatizzata dai maestri di cerimonia, di vario livello e rango a seconda del prestigio dell’attività. Ebbene, nel caso di Finmeccanica, il tipo e la portata dell’attività da questa svolta richiede, evidentemente, celebrazioni e maestri di cerimonia di massimo livello istituzionale. Come il presidente della Repubblica, ad esempio: “Una grandissima realtà italiana, un punto di forza del sistema Paese che credo meriti il riconoscimento e l’attenzione di tutte le istituzioni in Italia, un Gruppo che si fa onore e ci fa onore ovunque nel mondo” (così Napolitano, il 26 marzo 2008, e dunque appena poco più di due anni orsono, durante la celebrazione del 60° anniversario della costituzione di quella società che poi sarebbe diventata l’attuale Finmeccanica). Detto incidentalmente, sarebbe interessante, qui, poter misurare l’eventuale tasso d’ipocrisia (in realtà scontata, stante tipologia di locutore e di contesto) contenuto in queste parole. In altri termini, sarebbe opportuno verificare quale sia l’idea di “mondo” che si annidava nel cervello di quel locutore istituzionale allorché esaltava i successi conseguiti da Finmeccanica, appunto, nel “mondo”. Ad ogni modo, il meno che si può rilevare è che trattasi di sicuro di un “mondo”, quello teatro dell’azione di Finmeccanica, non retto dalla chimera del libero mercato e della concorrenza perfetta, bensì da giochi strategici svolgentisi nella sfera economica ed assistiti dall’azione politica (di quelle concatenazioni di potere che attraversano, ma non risolvendosi in, dati centri di comando) dello Stato, che a sua volta si rafforza dalla riuscita dei giochi stessi.
Eppure, Report mostra d’ignorare tutto ciò. Talché, ai due terzi del servizio, lancia l’accusa a Finmeccanica di lesa maestà del sacro principio della concorrenza. In particolare, la holding di Guarguaglini avrebbe prosciugato la concorrenza nell’ambito degli appalti dell’Enav S.p.A., impresa interamente partecipata dallo Stato per la fornitura di servizi relativi al traffico aereo la quale affida l’80% dei lavori senza gara. Ma anche qui, completezza d’informazione avrebbe richiesto di aggiungere, in primo luogo, che l’Enav S.p.A., in quanto opera nei c.d. settori speciali, legittimamente commette opere ricorrendo alla procedura negoziata (la c.d. trattativa privata); e, in secondo luogo, che la Corte dei Conti, sovente citata come una Bibbia dai giornalisti d’inchiesta, ha espresso un giudizio positivo sulla gestione di Enav per l’esercizio 2008 e dei primi mesi del 2009. Ma soprattutto, mi chiedo perché mai lo Stato, avendo la legittima possibilità di potenziare e far lavorare, e dunque arricchire, un’impresa di punta da esso controllata (Finmeccanica), tramite una società di propria esclusiva proprietà (Enav S.p.A.), dovrebbe vietarselo. Sfugge dove sia lo scandalo in ciò.
6. Mi avvio a concludere queste sin troppo lunghe riflessioni con una duplice breve considerazione. La prima riguarda il momento che sta attraversando Finmeccanica e le sue prospettive, dipendenti massimamente da decisive scelte politiche. Com’è noto, difatti, nel prossimo aprile si assisterà al rinnovo del suo organo amministrativo, la nomina della cui maggioranza, ivi compreso del suo amministratore delegato, spetta allo Stato, e segnatamente al Ministro dell’Economia e delle Finanze quale suo azionista di controllo. Si fanno i nomi, quale nuovo amministratore delegato, di Cattaneo (ora a.d. di Terna S.p.A., anch’essa con nomine in scadenza), Gamberale (su proposta, sembra, del “duo Aspen” Temonti-D’Alema), addirittura Profumo (su proposta, sembra, del PD). Ma, al di là dei nomi, ciò su cui occorre appuntare l’attenzione è il “destino” che si intende riservare a Finmeccanica. Ed i segnali, da questo punto di vista, non sono, per la rilevanza che annetto a quest’ultima (ed in genere alle imprese strategiche italiane), confortanti. Così, recentemente Tremonti ha prospettato la necessità di un ripiegamento di Finmeccanica sul mercato interno, con un correlativo ridimensionamento sullo scenario internazionale. E nel settembre 2010, lo stesso Tremonti additava l’opportunità di procedere ad una fusione di Finmeccanica con Fincantieri. A ciascuna delle due prospettazioni, Guarguaglini ha ribattuto facendo notare, rispettivamente, che “Se rinunciassimo alla internazionalizzazione, finiremmo per scomparire” e che “molte delle attività di Fincantieri c’entrano poco con Finmeccanica, quindi credo che ci sarebbero delle difficoltà”. Aggiungo, poi, che potrebbe destare sorpresa l’auspicio di Tremonti per un’”introversione nazionale” di Finmeccanica, quando appena due anni orsono, nel mese di luglio 2008, lo stesso difendeva, contro un Sole 24ore invece critico sul punto, la propria decisione di sottoscrivere, quale azionista di controllo, un aumento di capitale di Finmeccanica al fine di dare adeguato sostegno all’investimento consistente nell’acquisto della citata impresa statunitense DRS Technologies Inc.; laddove la motivazione di tale decisione era proprio quella di dare assistenza ad un’operazione che lo stesso quotidiano della Confindustria aveva “citato tra i successi del made in Italy”. Poi sono venute le indagini penali. Ed ora sembra davvero ci si trovi, da questo punto di vista, in un’altra era geologica.
La seconda ed ultima considerazione mira a sgombrare il campo, ove ve ne fosse bisogno, da un possibile fraintendimento del senso del presente scritto. In particolare, qui non si è inteso fare l’apologia di Finmeccanica. Non intendo, insomma, proiettare su quest’ultima, così come in generale sulle imprese strategiche, alcuna funzione salvifica e palingenetica dei destini nazionali o comunque della maggioranza della “popolazione” italiana. Anzi, si sa bene che, ad esempio, Finmeccanica fornisce, nell’ambito della sua attività, armamenti agli USA così come all’Italia, sostenendole quindi, pro quota, nelle loro politiche rispettivamente imperiali e d’ausilio al Paese ancora dominante seppure in declino. Ma la soluzione non sarebbe certo quella di far sparire o comunque depotenziare uno strumento come l’holding industriale in questione. Perché comunque, nell’eventualità probabile dell’ingresso in un’epoca di deciso multipolarismo, le imprese strategiche sembrano poter svolgere un ruolo di irrinunciabile cuneo che apra la strada all’affermazione di una politica di maggiore autonomia nazionale. Per il momento, quindi, il contributo militare e logistico di Finmeccanica alle guerre imperiali degli USA e della sua asservita truppa italiana, credo costituisca un male necessario, riflesso della fase di transizione geopolitica in cui versiamo. Così come è un riflesso di tale fase l’altra, per molti versi antitetica, direttrice internazionale lungo cui si muove il gruppo imprenditoriale italiano. Sono anni, precisamente, che Finmeccanica giostra pragmaticamente sui vari tavoli dei mercati mondiali. Così, per una commessa magari acquisita negli USA, ve ne sono altre ottenute o comunque in maturazione nel vicino, medio ed estremo oriente così come in Africa, non solo mediterranea. Anche in quest’ambito, si ripete, è possibile ritrovare quel carattere ancipite che sembra connotare le dinamiche intradominanti, interne ed internazionali, della contingenza in cui siamo “gettati”.
*Emilio Ricciardi, avvocato, è specialista del diritto societario
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