Mentre i “mercati” stanno abolendo i diritti sociali ed economici di gran parte dei cittadini europei e impongono le loro decisioni grazie ad un gruppo di tecnocrati che paiono aver relegato i partiti al ruolo di semplici esecutori degli ordini dei “mercati”, in Siria la situazione è sempre più grave e non si vede come possa risolversi. Tuttavia, la recente dichiarazione di Hillary Clinton riguardo alla necessità di cambiare i vertici dell’opposizione al regime di Assad è indice di un mutamento di  indirizzo degli Usa che non sembra affatto irrilevante. Infatti, a giudizio della Clinton, dato che il Cns non può essere più considerato come leader dell’opposizione, occorre una nuova struttura che garantisca gli Usa lasciando fuori gli “estremisti”. Perciò, sempre secondo il segretario di Stato americano, durante i colloqui che si svolgeranno la prossima settimana nel Qatar tra le diverse (e opposte) fazioni dell’insurrezione siriana, gli Stati Uniti dovranno impegnarsi allo scopo di creare «una coalizione più ampia e inclusiva». (1)

Questa presa di posizione della Clinton, anche se non chiarisce bene come si potrebbero estromettere gli “estremisti” allargando la coalizione, è relativamente facile da spiegare. Si sa che in Siria combattono, muovendo da basi situate in territorio turco (e non solo) diverse migliaia di “mercenari islamisti”, organizzati e finanziati dal Qatar, (2) alleato “di ferro” degli Usa, e che si sono resi responsabili di massacri, attentati e ogni genere di efferatezze non solo contro i lealisti, ma anche contro la stessa popolazione civile siriana. Crimini che ormai perfino i media mainstream e organizzazioni occidentali come Amnesty international o Human Rights Watch non possono più nascondere o attribuire al regime di Assad. (Sorprenda però il fatto che proprio in questi giorni stia facendo il giro del mondo, suscitando indignazione anche in ambienti di indubbia “fede atlantista”, un video su esecuzioni sommarie di militari lealisti da parte dei ribelli, giacché non è certo il primo video a mostrare le atrocità commesse dai ribelli). Ovviamente, si può osservare che la Clinton deve tener conto dell’opinione pubblica internazionale e in particolare di quella del proprio Paese, per di più solo a pochi giorni dalle elezioni presidenziali statunitensi. Ma è pacifico che per comprendere appieno il senso delle affermazioni della Clinton si debba pure tener conto che per gli Usa è necessario avere il pieno controllo geopolitico di un’area così delicata come quella del Vicino e Medio Oriente. Ed è quindi alla luce di questa esigenza che si deve leggere la dichiarazione del segretario di Stato americano.

A questo proposito, è innegabile che con l’amministrazione Obama ci sia stato un netto mutamento della strategia degli Stati Uniti, dovuto in primo luogo al fatto che la costruzione di  un equilibrio internazionale incentrato sull’egemonia globale statunitense si era rivelata essere assai al di là delle reali possibilità del gigante nordamericano, vuoi per i limiti intrinseci del sistema tecnico-produttivo e militare degli Usa, vuoi per la crescita di altri “poli di potenza”, che non possono non mostrarsi restii ad accettare i diktat dell’oligarchia atlantista, i cui interessi notoriamente sono rappresentati e tutelati dagli Usa. Si tratta di un mutamento di strategia che, nella sostanza, consiste nel privilegiare un “approccio indiretto”, lasciando notevoli margini d’azione a Ong e perfino a Paesi “subdominanti” quali le petromonarchie dell’Arabia Saudita e del Qatar (fino a non molti anni fa  solo un piccolo Stato ricco di giacimenti di petrolio e di gas naturale, mentre adesso «rappresenta un attore fondamentale nell’ambito della strategia attraverso cui Washington mira ad aprire un profondo “arco di instabilità” nel cuore del Medio Oriente»). (3)

Veramente “decisiva”, sotto questo punto di vista, è stata l’aggressione alla Giamahiria, benché favorita non poco dall’atteggiamento della Russia e della Cina, non preparate a sfidare gli Stati Uniti per difendere il regime di Gheddafi (anche perché evidentemente considerato non essenziale per la loro sicurezza). Di fatto, gli Usa si sono limitati a lanciare contro l’apparato bellico della Giamahiria decine di missili da crociera, consentendo di svolgere il ruolo di protagonisti alle milizie islamiste, appoggiate dal Qatar, e agli anglo-francesi (sebbene gli Usa, tramite la Nato, abbiano messo a disposizione dei propri alleati le indispensabili strutture logistiche, soprattutto per quanto concerne un settore decisivo come quello delle comunicazioni e della guerra elettronica). Eppure, anche per l’inefficienza delle milizie islamiste, non è stato facile sbarazzarsi del colonnello Gheddafi e gli aerei della Nato hanno dovuto compiere migliaia di missioni per distruggere la Giamahiria. (4) Nondimeno, la situazione in Libia non è ancora nelle “mani” delle cosiddette “forze occidentali”, come prova non solo l’assassinio dell’ambasciatore americano Christopher Stevens nei pressi del consolato Usa a Bengasi, o il perdurare di violenti scontri tra le diverse “anime” dei ribelli, ma anche la valorosa resistenza dei lealisti soprattutto a Bani Walid. (5) Ciò a conferma del fatto che, se gli Stati Uniti sono senza dubbio capaci di destabilizzare pressoché qualsiasi Stato o qualunque regione, non sempre riescono a destabilizzare come vorrebbero. Un problema che, lo si dovrà riconoscere, inevitabilmente è molto più complesso e difficile allorquando si deve delegare la funzione di comando a “gruppi subdominanti”.

Peraltro, è improbabile che le bande armate islamiste possano piegare la resistenza di Assad. Non tanto perché il legittimo governo di Assad, riuscendo a tener testa ad una opposizione armata e finanziata da Paesi stranieri che cercano di farlo cadere da oltre un anno e mezzo, ha dimostrato di poter contare su un esercito di leva che è innegabilmente più forte di quello libico (ovvero meglio addestrato, meglio equipaggiato e meglio equipaggiato di quello del colonnello Gheddafi), quanto perché è evidente che la rivolta contro Assad si sta già trasformando in un pericoloso braccio di ferro tra le “forze (filo)occidentali” e i Paesi che sostengono la Siria (Russia, Cina e Iran). Una prova di forza resa ancora più complicata dalla questione del nucleare iraniano, dalla politica di potenza dello Stato sionista, dal nuovo corso della politica turca e dalla rivalità tra sunniti e sciiti, abilmente alimentata dalle petromonarchie del Golfo, che paiono in grado di “manovrare” pure la variegata e multiforme galassia dei Fratelli Musulmani – dall’Egitto alla Siria, inclusi la Palestina e il Libano. Insomma, quello che è certo è che in Siria si è in presenza di una situazione che né gli Usa né i loro alleati possono gestire (solo o principalmente) con gli squadroni della morte, come quelli creati da John Negroponte per seminare terrore in America Latina.

Sembra chiaro quindi che la Clinton, pur consapevole che un maggiore coinvolgimento delle “forze occidentali” in Siria comporterebbe non pochi rischi per l’America e i suoi alleati, abbia voluto precisare che, considerando l’elevatissima posta in gioco, non può non essere Washington a dirigere le operazioni contro Assad, indipendentemente da chi sarà il prossimo presidente degli Stati Uniti. Il che però non significa che gli Stati Uniti, anche se non potranno permettersi di ignorare del tutto le parole del ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, secondo cui in Siria «lo spargimento di sangue proseguirà fino a quando l’Occidente reclamerà le dimissioni del presidente Bashar al Assad», (6) faranno il possibile per spegnere l’incendio che sta bruciando la Siria e che minaccia di propagarsi in tutta la regione. Quel che si può invece ragionevolmente prevedere è che gli Usa non potranno evitare di confrontarsi sia con i propri alleati (compreso naturalmente Israele) sia con i propri avversari sulla questione siriana, dacché è fondamentale per gli Stati Uniti ridisegnare la mappa geopolitica del Mediterraneo in modo tale che non si giunga ad una ridefinizione degli equilibri geostrategici e geoeconomici che possa favorire la nascita di un autentico multipolarismo. (Al riguardo, non si deve nemmeno dimenticare che la “geopolitica del caos” è funzionale unicamente alla politica di potenza degli Usa e al potere di quei “mercati” che dettano legge anche nell’Europa occidentale).

Comunque sia, le prossime settimane dovrebbero dirci fino a che punto Washington sarà disposta a premere sull’acceleratore per impedire che l’egemonia degli Usa venga messa in discussione non solo  dagli avversari ma anche dagli alleati, nell’area mediterranea o in qualsiasi altra zona strategica del pianeta. In questa prospettiva, forse non è nemmeno così importante sapere se sarà Obama oppure Romney il  futuro presidente degli Stati Uniti (benché non si debba sottovalutare la lotta tra i diversi centri di potere negli Usa), (7) mentre sembra assai più rilevante che a Niscemi, in provincia di Caltanissetta, si stia costruendo una centrale “Muos”, ossia un Mobile User Objective System (di proprietà degli Usa) che «servirà a gestire centri d’intelligence, radar, velivoli senza pilota, missili da crociera, cacciabombardieri e altri strumenti di guerra non guerreggiata».(8) Un sistema di comunicazione militare che purtroppo non promette nulla di buono, né per la Siria né per altri Stati, non esclusa l’Italia.

 

 

1.http://www.ilgiornale.it/news/esteri/siria-clinton-tenere-bada-estremisti-851773.html.

2.Vedi ad esempio http://www.turkishnews.com/en/content/2011/12/31/qatar-creates-anti-syria-mercenary-force-based-in-turkey/.

3.Giacomo Gabellini, La Parabola, Anteo Edizioni, Cavriago (Re), 2012, p.239.

4.Ibidem, in particolare pp. 204-216.

5.Vedi http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=44414.

6.http://www.asca.it/newsSiria__Lavrov__bagno_sangue_perche__Occidente_chiede_dimissioni_Assad-1213322-ATT.html.

7.Su questo aspetto è utile anche leggere l’articolo Un sinistro messaggio per i generali (http://www.pierolaporta.it/articolo-a-due-colonne/). Ma anche l’articolo di George Friedman, From Gadhafi to Benghazi (http://www.stratfor.com/weekly/gadhafi-benghazi), pur considerando il punto vista atlantista che caratterizza l’analisi del direttore di Stratfor, è espressione, a nostro avviso, di una lotta che è in atto all’interno della cosiddetta “élite del potere” statunitense e che, con ogni probabilità, sarebbe riduttivo e semplicistico identificarla con lo scontro tra Obama e Romney.

8.http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=44430.

 

 


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