Il 20 novembre 2015, nel decennale della morte di Carlo Terracciano, l’associazione Caposaldo ha organizzato a Bergamo un convegno dal titolo “La Russia nello scacchiere geopolitico globale”. Il testo che pubblichiamo qui di seguito si riferisce all’intervento del direttore di “Eurasia” .

Conobbi Carlo Terracciano trentasei anni fa. Il nostro rapporto, abbastanza regolare, interrotto soltanto dai ritiri conventuali suoi e miei, è durato un quarto di secolo, nel corso del quale abbiamo condiviso diverse attività.
Tra i convegni ai quali prendemmo parte insieme, qui mi limiterò a rievocare il congresso che subito dopo il crollo dell’URSS venne organizzato a Mosca dalle forze politiche dell’opposizione cosiddetta “rosso-bruna”, sotto la presidenza onoraria della signora Sazhi Umalatova, presidentessa del parlamento sovietico disciolto da Eltsin.
Nel febbraio 1993 Carlo Terracciano, Marco Battarra ed io fummo invitati a partecipare al “Congresso dei Popoli Umiliati, contro il Nuovo Ordine Mondiale”, che si sarebbe svolto a Mosca il 2 marzo, nel salone del Palazzo della Stampa di Ulica Pravda. Il convegno era stato indetto dal Fronte di Salvezza Nazionale, all’epoca presieduto congiuntamente da Gennadij Zjuganov (Presidente del Comitato Esecutivo del C.C. del Partito Comunista Russo), dal giornalista Eduard Volodin (Copresidente del Consiglio di Coordinamento delle forze patriottiche) e dal romanziere Aleksandr Prochanov (Direttore del periodico “Den”).
La settimana che trascorremmo a Mosca cominciò lunedì 1 marzo con una visita alla moschea principale della capitale russa, subito seguita da un incontro con le rappresentanze diplomatiche dell’Iraq e dell’OLP. Poi, nei locali della sede del Partito della Rinascita Islamica, partecipammo ad una lunga riunione presieduta da Gejdar Džemal, dirigente del Partito, che per le Edizioni all’insegna del Veltro aveva appena pubblicato Tawhid. Prospettive dell’Islam nell’ex URSS.
Il giorno successivo ebbe luogo il Congresso dei Popoli Oltraggiati, al quale partecipavano numerosi delegati provenienti dai territori della Russia e dai paesi che avevano fatto parte dell’URSS, in rappresentanza di comunità nazionali, movimenti politici, associazioni, organi di stampa ecc. A presiedere era Aleksandr Dugin, direttore della rivista “Elementy” di cui ero redattore fin dal primo numero.
La serie degli interventi venne aperta da Aleksandr Prochanov, il quale identificò il “Nuovo Ordine Mondiale” preconizzato da Bush senior con la versione moderna della Torre di Babele e indicò nella lotta per la restaurazione dell’impero sovietico la fase decisiva nella guerra contro il Nuovo Ordine Mondiale.
Prese poi la parola Carlo Terracciano. “La nostra delegazione – esordì – viene da un paese che da decenni è sottoposto all’occupazione americana. Abbiamo un governo e un parlamento asserviti totalmente agli interessi stranieri: all’alta finanza internazionale, all’imperialismo americano, al sionismo cosmopolita, in una parola al mondialismo”. E proseguì: “Sionismo e imperialismo vogliono distruggere l’anima stessa dei popoli. E voi Russi oggi state provando sulla vostra carne viva la lama sanguinaria di questi criminali: miseria, fame, disonore, corruzione, droga, alcol e criminalità, odi e divisioni nel popolo, tradimento della Patria e abbandono dei popoli ieri amici”. Dopo aver richiamato la necessità di unire tutte le forze antimondialiste in una “grande internazionale dei popoli diseredati della terra, come li definì l’Imam Khomeini”, l’oratore italiano rivolse questo appello ai rappresentanti della nazione russa: “Noi, eredi senza più patria di un Impero che fece la storia civile del mondo antico, chiediamo al popolo che ha raccolto l’eredità storica e spirituale di Roma e di Bisanzio: aiutateci a riscattare insieme il nostro ed il vostro passato! Perché nella tradizione e nella memoria storica ed ancestrale dei popoli è la chiave che apre le porte dell’avvenire”.
Al discorso di Terracciano fece seguito quello di Eduard Volodin, capo redattore del quotidiano “Sovetskaja Rossija” e copresidente del Fronte di Salvezza Nazionale, il quale, individuando alle radici del conflitto interetnico jugoslavo la medesima ispirazione che aveva originato la distruzione dell’URSS, sottolineò la necessità di un impegno dei Russi a combattere in difesa dei popoli minacciati di asservimento dall’imperialismo statunitense.
Fu poi la volta del diplomatico iracheno Abd el Wahhab Hashshan, che citò l’esempio del proprio paese per illustrare la sorte incombente su quanti non accettano le direttive del Nuovo Ordine Mondiale e paventò per la Russia uno sviluppo della manovra già iniziata con la distruzione dell’URSS.
L’argomento fu ripreso dal professor Kobazov, capo della delegazione osseta, secondo il quale era necessario ricostituire in un modo o nell’altro una comunità di paesi analoga all’URSS, allo scopo di salvaguardare le identità dei popoli dell’area ex-sovietica contro le minacce del mondialismo.
Prese allora la parola l’estensore di queste righe, il quale, al termine di un’analisi geopolitica, formulò l’auspicio di un impegno della Russia nella lotta di liberazione del Continente. “Se vuole liberarsi dalle catene del Nuovo Ordine Mondiale – dissi –, la Russia deve aiutare il resto dell’Europa in questa liberazione, contribuendo con le sue possibilità, che rimangono tuttavia enormi, a questa impresa storica”. Nei giorni successivi, il discorso fu riportato integralmente sul “Kayhan” di Teheran.
Toccò poi a un redattore di Radio Tallinn, che illustrò la situazione dell’Estonia in seguito alla secessione dall’URSS: imposizione della russofobia come ideologia ufficiale del neonato staterello baltico e diffusione degli pseudovalori dell’Occidente.
Fu quindi la volta di Gejdar Džemal, il quale sostenne che un’alternativa globale al Nuovo Ordine Mondiale è rappresentata dall’Islam, il quale contrappone un’escatologia autentica alla parodistica concezione mondialista della “fine della storia”. Non solo, ma alla concezione della legge come opportunistico “contratto sociale”, concezione propria del fariseismo mondialista, l’Islam oppone la Legge sacra, nata dalla Rivelazione divina.
In assenza della delegazione serba, Aleksandr Dugin commentò lui stesso la situazione in Jugoslavia, esponendo le ragioni delle diverse parti in lotta (Serbi, Croati, Musulmani) ed auspicando un’intesa tra esse. La stessa impostazione emerse dal messaggio di cui diede lettura un rappresentante dell’Associazione d’Amicizia Russo-Serba. I firmatari del messaggio, il capo del Partito Radicale Šešelj e l’intellettuale tradizionalista belgradese Dragoš Kalajić avevano scritto: “Per lottare contro il programma mondialista, che si trova riassunto sulla stessa banconota stampata dagli USA, bisogna porre fine alle guerre interetniche. Il conflitto in Bosnia non può essere risolto con la vittoria di una parte sulle altre, ma con l’intesa tra le parti”.
L’ospite d’onore del Congresso, la signora Saži Umalatova, presidentessa del parlamento sovietico disciolto da Eltsin, ribadì che tale provvedimento era un fatto illegale e che la restaurazione dell’URSS doveva essere il primo passo verso l’eliminazione dell’influenza americana e sionista nel continente. Americani e sionisti, concluse la signora Umalatova, sono il nemico numero uno dei popoli liberi.
I sionisti, precisò subito dopo Sha’ban H. Sha’ban, redattore capo di un giornale russo-palestinese, “Al Kods”, devono essere combattuti dappertutto, perché non agiscono soltanto in Palestina, ma in tutto il mondo. Il pericolo sionista non minaccia solo i Palestinesi, disse Sha’ban, ma tutti i popoli. La parola d’ordine, dunque, deve essere: “Intifada dappertutto!”
A questo punto parlò il terzo delegato italiano, il redattore di “Orion” Marco Battarra, il quale illustrò i rapporti tra finanza, libero mercato e Stati facendo ricorso a uno studio di “Le Monde”.
Il rappresentante degli Abcazi, Jurij Ancabadze, denunciò il ruolo che Shevardnadze voleva fare svolgere alla Georgia nell’area caucasica. La Georgia, affermò il delegato abcazo, è un corridoio di influenza mondialista, perché la classe dirigente georgiana vuole essere l’avamposto dell’Occidente nella zona.
Dopo aver confermato che effettivamente molti georgiani sono stati agenti del mondialismo nella politica russa e dopo aver sollecitato il sostegno dei Russi ai musulmani dell’Abcazia, Aleksandr Dugin diede la parola a una delegata proveniente da Chişinău, la quale illustrò la situazione della comunità russa della Repubblica Moldava (Bessarabia) in seguito alla secessione.
Intervenne quindi l’ambasciatore dell’OLP, Musa Mubarak. Sionismo e americanismo, disse, sono i due lati del medesimo angolo. Ingerenza nelle faccende politiche altrui e pressione economica sono i due principi basilari dell’azione statunitense. Contro il Nuovo Ordine Mondiale, che si caratterizza in questa maniera, bisogna creare un vero Ordine Nuovo.
Apti Saralejev, delegato ceceno, denunciò la penetrazione sionista nella vita dei popoli caucasici e sostenne il progetto relativo a un’intensificazione degli studi sull’azione sionista.
Infine, Aleksandr Dugin diede lettura della risoluzione finale, cui vennero apportate alcune aggiunte e modifiche suggerite dall’assemblea. Fu creato un comitato permanente, nel quale vennero inseriti anche i delegati italiani.
Il Congresso ebbe ampia risonanza sulla stampa russa; i giornali “patriottici”, in particolare, riferirono per esteso gli interventi dei congressisti. Di una esemplare falsificazione, invece, fu autore il giornalista di Radio Svoboda (l’emittente finanziata dagli USA e nota fuori dalla Russia come Radio Free Europe), il quale nella sua corrispondenza attribuì a me e a Terracciano dichiarazioni che noi non avevamo mai fatte.
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Mercoledì 3 marzo la nostra delegazione fu ricevuta da Šamil Sultanov, politologo e polemologo di fama e redattore di “Den”, che mi intervistò a lungo per il suo giornale.
Nel pomeriggio ci recammo nei locali di “Sovetskaja Rossija”, dove avemmo un lungo colloquio con Eduard Volodin, uno dei firmatari dell’Appello al Popolo dell’agosto 1991. L’incontro terminò con la decisione di istituire a Milano un ufficio stampa del Fronte di Salvezza Nazionale, di cui Volodin era copresidente. Il direttore di “Sovetskaja Rossija”, Valentin Čikin, sottolineò la fondamentale importanza della collaborazione fra tutte le forze antimondialiste. Il rapporto di collaborazione ebbe un ulteriore sviluppo in un documento firmato da Eduard Volodin, Aleksandr Prochanov e Gennadij Zjuganov: dato il nostro “esemplare contributo alla comprensione reciproca tra i popoli russo e italiano sia a livello politico che culturale”, il documento (riprodotto nell’originale e tradotto in italiano a pag. 8 del numero di “Orion” del luglio 1993) riconosceva in noi i rappresentanti politici dell’opposizione russa al governo di Eltsin.
Nella giornata di giovedì ebbe luogo presso l’Associazione Ufficiali un lungo dibattito di natura geopolitica organizzato da Aleksandr Dugin e dal colonnello Evgenij Morozov. Tralascio gli interventi di Dugin e di Morozov ed il mio per riferire il passo culminante del discorso di Carlo Terracciano.
“Attualmente – disse quest’ultimo – la situazione è molto chiara. Nel mondo c’è soltanto un imperialismo: è l’imperialismo talassocratico degli Stati Uniti d’America. E’ il Nuovo Ordine Mondiale. Allora la Russia, la nuova Russia del futuro, deve presentarsi come il paese liberatore dell’Eurasia e del mondo intero contro questo imperialismo. E’ molto difficile, ma il mondialismo non è un blocco unico. Dopo la scomparsa del Patto di Varsavia, Europa e Giappone devono giocare un ruolo molto importante. Secondo la nostra visione, la base della rivincita si fonda sull’asse Berlino-Mosca-Pechino e/o Tokyo. L’importante è che le potenze terrestri non ripetano lo stesso errore del passato: di farsi la guerra tra loro. E’ interesse di tutta l’Eurasia di unificare le forze terrestri contro l’unica potenza talassocratica predominante. Per questo Mosca ha un ruolo essenziale. Dal Nord dell’Eurasia noi possiamo sollevare tutto il Sud del mondo contro l’Occidente americanocentrico”.
Passando a considerare l’area geopolitica mediterranea, Terracciano si soffermò sul “nodo di tutti i problemi” del Vicino Oriente. “Lo Stato sionista – disse – controlla attualmente tutta quest’area con la minaccia incombente della bomba atomica. E’ anche la vera causa degli attacchi americani prima contro l’Iran e poi contro l’Iraq. A questo proposito noi pensiamo che il futuro ‘nemico principale’ dell’America sarà, di nuovo, l’Iran. Per quanto poi riguarda tutto il centro-Asia musulmano, c’è un chiaro tentativo dell’America di spingere il Rimland contro il pivot centrale eurasiatico. Ma è un gioco molto pericoloso anche per gli americani”.
Terracciano concluse così il proprio intervento: “Per finire, consideriamo che sia interesse di tutte le piccole e grandi potenze dell’area unificare le proprie forze contro l’unico nemico del mondo: l’americanosionismo. Quando si potrà cacciare dal Medio Oriente la potenza sionista, avremo fatto un grosso passo per la liberazione di tutto il ‘Vecchio Mondo’. Ma questo per una potenza talassocratica sarebbe la fine. Quando ci sarà una Nuova Russia, però, noi saremo prossimi alla Terza Guerra Mondiale: sarà veramente la guerra definitiva per il controllo del mondo nel prossimo millennio”.
Nella serata Aleksandr Dugin ci accompagnò nello studio del pittore Evgenij Vidilanskij, autore di un incisivo ritratto di Ungern Khan che tutti fotografammo con cura e che fu successivamente riprodotto sulla copertina del numero di “Orion” del mese di aprile.
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Venerdì 5 marzo, nel corso di una seconda visita alla redazione di “Den”, avemmo un incontro con Aleksandr Prochanov, il quale ci spiegò che il suo giornale rappresentava la sinergia delle diverse componenti politiche dell’opposizione, in quanto l’ideale della giustizia sociale e quello della sovranità dello Stato non potevano essere dissociati. Analogamente, proseguì, occorre respingere il tentativo americano di attizzare lotte di religione tra Ortodossi e Musulmani e proporsi come obiettivo finale la restaurazione dello spazio geopolitico eurasiatico, del quale Ortodossia e Islam sono componenti fondamentali.
Alla sera, accompagnati da Gejdar Džemal, accettammo l’invito a cena fattoci pervenire da un gruppo di mugiahidin del Tagikistan. Fu necessaria tutta una serie di precauzioni, poiché i Tagiki vivevano in clandestinità, in quanto erano ricercati dai servizi segreti di Eltsin. Terracciano rimase profondamente impressionato da quell’incontro, del quale riferì ampiamente sul numero di “Orion” del maggio 1993.
“Dopo la cena – scrisse rievocando quell’incontro – l’intervista, la discussione politica, le domande e risposte. Ci aspetteremmo odio, risentimento, furore, forse disperazione per quanto hanno subito. Ed invece eccoli descrivere gli orrori di una guerra civile tra le più cruente con una serenità d’animo, una virile accettazione del destino che lascia turbati noi, più che se inveissero o piangessero sulle loro disgrazie. La loro totale fede religiosa nell’Islàm è una corazza invincibile contro i colpi della sorte, accettata come volere e prova di Allah. (…) Un’altra caratteristica che ci stupisce è la loro profonda preparazione culturale e politica, la loro coscienza delle reali forze in campo, il loro determinato e cosciente impegno di lotta globale al Mondialismo (lo definiscono proprio così) e al Sionismo, ben presente anche in Tagikistan. Conoscono certo più loro la situazione occidentale ed italiana di quanto si sappia noi del Tagikistan!”
La giornata di sabato fu interamente dedicata alla manifestazione organizzata dal Fronte di Salvezza Nazionale nella sala del cinema Udarnik, dove tremila persone si affollarono per festeggiare i protagonisti del putsch di agosto, mentre altre duemila rimasero in piedi nel salone d’ingresso. (A titolo di cronaca: la stampa italiana del giorno successivo parlò, testualmente di “cinquecento persone”).
A margine della manifestazione Terracciano ed io potemmo incontrare alcuni esponenti dell’opposizione, i quali ci pregarono di diffondere il giorno successivo, appena rientrati in Italia, una serie di informazioni che secondo loro potevano servire a sventare il golpe progettato da Eltsin.
Fu così che il 7 marzo diffondemmo in Italia, Francia e Belgio un comunicato, firmato “Ufficio Stampa italiano del Fronte di Salvezza Nazionale”, che esordiva così: “Fonti altamente qualificate dell’opposizione al governo di Eltsin informano che è in preparazione una svolta autoritaria per esautorare il potere del Parlamento”. Il comunicato elencava una serie di informazioni riservate, relative a manovre militari in atto in quei giorni, che rendevano credibile la denuncia del golpe imminente.
Martedì 9 marzo, alla vigilia della riunione del Congresso dei Deputati del Popolo, il Ministro della Difesa, il generale Gracëv, comunicò che le previste manovre militari nella regione di Mosca erano momentaneamente sospese.
Carlo Terracciano fu sempre convinto che il nostro comunicato, divulgando fuori dalla Russia notizie tenute segrete dal governo di Mosca, avesse indotto quest’ultimo a cambiare i propri programmi o quanto meno a rinviarli. Infatti fu solo il 20 marzo che Eltsin ruppe gl’indugi e in un discorso televisivo annunciò la decisione di assumere poteri speciali.

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Carlo ha collaborato con la casa editrice da me fondata e diretta, le Edizioni all’insegna del Veltro, scrivendo saggi d’argomento geopolitico che sono apparsi come prefazioni e postfazioni ad alcuni testi di Karl Haushofer, Stefano Fabei e Jean-Marie Benjamin.
Sono stato testimone dell’impegno di Carlo nel periodo in cui egli approfondì lo studio delle dottrine geopolitiche, impegno che sfociò nella sua collaborazione ad “Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici”. Anzi, fu proprio lui a darmi l’idea di dar vita ad una rivista di studi geopolitici. La proposta me la fece il 29 maggio 2004, a Verona: “Tu sei un editore. Perché non pubblichi una rivista di studi geopolitici?” Tre mesi dopo uscì il primo numero di “Eurasia”. Purtroppo, soltanto nei primi quattro numeri, usciti tra il 2004 e il 2005, si trovano articoli a firma Carlo Terracciano. Si tratta di quattro articoli dei quali farò una sintesi obiettiva, esaminandoli uno per uno e riportandone i passi più significativi.
Dal primo articolo, Turchia, ponte d’Eurasia (“Eurasia” 1/2004, ott.-dic. 2004) traspare l’influenza di due autori particolarmente cari a Carlo: Julius Evola e Adriano Romualdi.
Da buon lettore di Evola, Carlo attribuisce al fattore mitico un’importanza fondamentale. Ricordo che in una conferenza tenuta a Brescia esordì richiamandosi al mito di Europa, la principessa fenicia che fu rapita da Zeus sulla spiaggia di Tiro. In questo articolo invece Carlo esordisce citando due miti d’origine relativi ai popoli turchi. Il primo è quello del bambino sopravvissuto alla strage dei T’u-küe (così venivano chiamati i Turchi nelle fonti cinesi) che, allattato da una lupa come Romolo e Remo, diede origine alle dieci tribù turche. Il secondo mito è quello famoso del lupo grigio che, attraverso deserti e montagne condusse una parte del popolo turco nella nuova patria anatolica.
All’inizio dell’articolo, viene fatto cenno al rapporto fra Prototurchi e Indoeuropei, popolazioni nomadi di cacciatori-allevatori che, scrive Carlo con quel certo pathos un po’ romantico che a volte caratterizza la sua prosa, “correvano libere nell’immenso spazio settentrionale dell’Eurasia, dalle gelate steppe siberiane agli aridi deserti del centro Asia, fino ai contrafforti del Pamir e dell’Altai”. Si intravede qui la lezione di Adriano Romualdi, che nel suo studio su Gli Indoeuropei (Ar, 2004, p. 82) aveva fatto notare come ancora nel sec. X un popolo indoeuropeo fosse presente nel Turkestan cinese.
Ma accanto all’influenza di Evola e di Romualdi, questo articolo sulla Turchia rivela anche altri debiti culturali. Carlo attinge le proprie nozioni sui Turchi dall’opera del grande turcologo Jean-Paul Roux, del quale riporta in esergo un brano che deve essergli sembrato particolarmente significativo. Il brano inizia così: “I Turchi hanno la vocazione imperiale. Essi sono per eccellenza i sovrani della terra”. (Dove il termine “terra” è da intendersi, ovviamente, in relazione a quel dualismo tipicamente geopolitico, “terra-mare”, che per Carlo è un concetto fondamentale). Il brano citato prosegue così: “I loro imperi (…) sono dei mosaici di popoli che essi tentano di far vivere insieme nell’armonia lasciando loro, sotto un potere fortemente centralizzato e dispotico, la loro identità, la loro lingua, la loro cultura, la loro religione, spesso i loro capi”. È facile capire che in questa caratterizzazione degli imperi turchi Carlo ha visto un profilo che si avvicina notevolmente a quello che egli riconosce come il modello ideale di impero.
L’articolo passa in rassegna le vicende storiche dei Turchi Ottomani, che secondo Carlo hanno ereditato la funzione imperiale di Bisanzio; arrivato ai giorni nostri, si sofferma sulla vexata quaestio dell’ingresso turco nell’UE. Secondo Carlo, “la chiusura alla Turchia su base religiosa” (vale a dire “sulla base di una presunta ‘unità cristiana’ dell’Europa”) “è ovviamente pretestuosa, se solo si consideri come l’Albania e la Bosnia (…) siano paesi (…) a grande maggioranza islamica” e che “forti minoranze musulmane (…) sono presenti in Stati come la Macedonia, la Bulgaria, la Moldova, la Serbia (…), per non parlare ovviamente della Federazione Russa. Senza considerare l’immigrazione (…) turco-curda (…) che, solo in Germania, conta un milione e mezzo di lavoratori con le loro famiglie”.
Parimenti pretestuosa è la chiusura alla Turchia fondata su criteri etnolinguistici, poiché, argomenta Carlo, “anche gli Ugrofinni hanno una base linguistica certo non indoeuropea e più vicina ai Turchi; eppure le nazioni moderne che nascono da queste migrazioni sono considerate europee a tutti gli effetti: Finlandia, Estonia, Ungheria”.
La Turchia, secondo Carlo, costituisce un vero e proprio ponte eurasiatico, poiché fonde in un unico Stato “la componente originaria turanica del centro dell’Asia, quella europea, retaggio di 500 anni di storia (ma anche di recenti migrazioni e future aspettative politiche) e la religione e cultura islamica. Sotto il profilo geostrategico la Turchia è “ponte d’Eurasia” per il fatto che costituisce un “anello di congiunzione tra l’Europa e l’area del Golfo Persico e del Vicino Oriente, così strategicamente importante e determinante anche per le economie mondiali, con i suoi giacimenti petroliferi”.
Applicando un criterio tipicamente geopolitico, Carlo afferma che il “destino della nuova Turchia” è, se non determinato, “segnato” dalla stessa collocazione geografica di questo paese. E il destino dell’Europa, aggiunge, “è a sua volta strettamente connesso a quello turco”. Sarà perciò “necessario, indispensabile per l’Europa come per la Turchia riannodare e rinsaldare l’alleanza dell’inizio del secolo scorso”, cioè quell’alleanza che con la Turchia era stata stabilita dagli imperi centrali: l’Austria-Ungheria e il Secondo Reich.
Oggi più che mai, conclude Carlo, la “fortezza turca” è una delle chiavi di volta dell’alleanza eurasiatica.

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Il secondo articolo, intitolato Il Libro, la spada, il deserto (“Eurasia” 1/2005, genn.-marzo 2005) riguarda la diffusione dell’Islam sul continente eurasiatico.
Anche qui troviamo in epigrafe un brano rivelatore del gusto un po’ romantico di Carlo; si tratta di un passo degli Eroi di Thomas Carlyle, nel quale viene sintetizzato il risultato storico dell’azione del Profeta Muhammad, uno dei personaggi scelti dallo scrittore scozzese per rappresentare l’Idealtypus dell’eroe. E il brano di Carlyle fa degnamente il paio con un altro brano celeberrimo, che Carlo riporta nel contesto dell’articolo: sono le parole della nostalgica ammirazione di Nietzsche per la civiltà moresca della Spagna, parole che Carlo qualifica come “struggenti”, perché ne condivide lo spirito, lui che in uno dei suoi numerosi viaggi ha visitato l’Alhambra di Granada.
Ed anche in questo articolo viene rievocato un episodio avvenuto, direbbe Eliade, in illo tempore, un episodio che, se non può essere propriamente definito “mitico”, appartiene tuttavia alla ierostoria: è la vicenda di Agar e di Ismail, ambientata nel luogo centrale della geografia sacra islamica.
Dovendo esaminare il fenomeno della nascita e della diffusione dell’Islam da un’angolatura geopolitica, che in quanto tale sottolinei lo stretto rapporto dell’evento spirituale, culturale e politico con l’ambito geografico, Carlo non poteva non citare la concezione riduzionista, tipica del positivismo ottocentesco, secondo la quale, mentre il politeismo sarebbe la “religione della foresta”, il monoteismo sarebbe invece la “religione del deserto” e l’area dell’espansione islamica coinciderebbe con quella in cui la media della piovosità annua è inferiore ai dieci pollici!
Per quanto propenso a rivolgere un’attenzione particolare al fattore geografico (lui stesso riferisce una definizione del deserto come luogo del risveglio, della luce, dell’impersonalità), Carlo respinge nettamente i luoghi comuni di matrice positivista che assolutizzano il fattore ambientale, giudicandoli frutto di un “determinismo geopolitico inadatto a spiegare grandi costruzioni storiche, politiche, militari e religiose ben più complesse e peraltro sviluppatesi in ambienti urbani”. E questa puntualizzazione mi pare piuttosto importante, perché smentisce quella bizzarra accusa di “marxismo geografico”, cioè di determinismo geografico, che è stata lanciata all’indirizzo del metodo geopolitico rappresentato dalla rivista “Eurasia”.
Ripercorrendo le vicende storiche che videro l’Islam unificare nel giro di poco più d’un secolo lo spazio compreso tra Gibilterra e l’Indo, Carlo mostra molto bene come lo stereotipo dell’Islam quale presunta “religione del deserto” non regga affatto al confronto con la complessità del fenomeno islamico. Ad esempio, egli sottolinea con notevole acume il fatto che “lo scontro fra l’idealizzato Islam meccano e medinese delle origini e quello oramai vittorioso e insediato nelle grandi capitali del Vicino Oriente”, quello scontro che potrebbe essere riduttivamente definito come “lo scontro fra il deserto e la terra fertile dei sistemi potamici irrigui”, abbia dato luogo all’opzione sciita dell’Iran: sarà proprio “la terra indoeuropea dello zoroastrismo”, osserva Carlo, a rivendicare “la linea diretta con il Profeta”, cioè l’eredità privilegiata dell’Islam originario!
L’articolo si conclude con una valutazione dell’importanza dell’Islam per l’Eurasia. L’area storicamente islamica, secondo Carlo, “rappresenta una cerniera, un collegamento ideale, una saldatura tra l’Eurasia a nord, cioè l’Europa con la Russia siberiana fino a Vladivostok, e le altre parti della massa eurasiatico-africana: l’Africa nera appunto, il subcontinente indiano, la stessa Cina, l’Indocina e l’Indonesia. Ovunque infatti, anche in questi territori più o meno estranei al fenomeno dell’esplosione islamica dei primi due secoli dell’Egira, sono presenti forti comunità musulmane. Un patrimonio per l’Eurasia e non certo un pericolo, come vorrebbe oggi la propaganda terroristica occidentalista, sullo stile dello ‘scontro di civiltà’ alla Huntington”.

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Nel terzo articolo, Europa-Russia-Eurasia: una geopolitica “orizzontale” (“Eurasia” 2/2005, apr.-giugno 2005), Carlo affronta alcuni concetti squisitamente geopolitici, instaurando un rapporto dialettico con le tesi esposte da Aleksandr Dugin in un lungo scritto intitolato L’idea eurasiatista e apparso sul primo numero di “Eurasia”.
Aleksandr Dugin prospetta l’Eurasia dei “tre grandi spazi vitali, integrati secondo la longitudine”, tre cinture eurasiatiche che si estendono da nord a sud, nel senso dei meridiani. Tale suddivisione secondo sfere d’influenza verticali, osserva Carlo, costituisce una ripresa delle pan-idee di Karl Haushofer, il quale teorizzava un emisfero orientale – il nostro emisfero – geopoliticamente diviso in uno spazio eurafricano, uno spazio panrusso esteso fino all’Oceano Indiano ma privo dello sbocco al Pacifico e, infine, uno spazio estremo-orientale comprendente Giappone, Cina, Sud-Est asiatico e Indonesia. A questo schema haushoferiano Dugin ha apportato alcune modifiche richieste dalla situazione internazionale odierna, assegnando alla seconda fascia anche il Vicino Oriente e la Siberia fino a Vladivostok.
Carlo, che giudica fondamentale il contributo dato da Dugin alla dottrina geopolitica e alla lotta di liberazione eurasiatica, ritiene necessario allargare la prospettiva dughiniana delle aree verticali, e scrive: “Alle pan-idee ‘verticali’ haushoferiane, che interpretate alla luce dell’assetto internazionale attuale assumono oggi vago sapore neocolonialista (l’esatto contrario delle posizioni anticoloniali del padre della geopolitica tedesca), noi sostituiamo la visione di una collaborazione paritaria e integrata fra realtà geopolitiche omogenee disposte a fasce orizzontali in Eurasia e in Africa”.
Che cosa sia la prospettiva geopolitica orizzontale, Carlo lo spiega fin dalle prime righe di questo studio. “L’Eurasia – egli esordisce – è un continente ‘orizzontale’, al contrario dell’America che è un continente ‘verticale’”. Anzi, tutta quanta la massa continentale dell’emisfero orientale è costituita di unità omogenee disposte in senso orizzontale: “È lo stesso senso di marcia – scrive – seguito dai Reitervölker, i ‘popoli cavalieri’ che corsero l’intera Eurasia fin dai più remoti tempi preistorici, i tempi dei miti e delle saghe dell’origine”.
Traducendo questa visione in termini geopolitici, Carlo prospetta “l’integrazione della grande pianura eurasiatica settentrionale dal canale della Manica allo stretto di Bering”. A questa prima fascia orizzontale si affiancano, in altre fasce orizzontali, le altre unità geopolitiche dell’Eurasia e dell’Africa: il grande spazio arabo del Nordafrica e del Vicino Oriente, il grande spazio trans-sahariano, il grande spazio islamico compreso fra il Caucaso e l’Indo eccetera.
In questa prospettiva, è naturale che l’Europa si integri in “una sfera di cooperazione economica, politica e militare con Mosca”, altrimenti “sarà usata nell’ambito NATO dagli americani come una pistola puntata su Mosca”. La Russia infatti non può pensare di fare a meno dell’Europa, anzi. Da un punto di vista russo “l’unica sicurezza per i secoli a venire non può esser rappresentata che dal controllo sotto qualsiasi forma delle coste della massa eurasiatica settentrionale, quelle coste che si affacciano sui due principali oceani mondiali, l’Atlantico e il Pacifico”.
La necessità dell’integrazione geopolitica di Europa e Russia impone sia agli Europei sia ai Russi la revisione definitiva di certe contrapposizioni. La “contrapposizione ‘razziale’ tra euro-germanici e slavi”, scrive Carlo, “fu uno dei grandi errori della Germania”. Ma anche i Russi devono eliminare i residui di quella eurofobia che, nata dalla giusta esigenza di rivalutare la loro componente turco-tatara, li ha indotti talvolta a contrapporre in maniera radicale la Russia all’Europa germanica e latina, magari confondendo quest’ultima con l’Occidente “atlantico” e, aggiunge Carlo, “con la mentalità razionalista, positivista e materialista propria degli ultimi secoli”.
Invece, incalza Carlo, “se ancora di Occidente ed Oriente si può e si deve parlare, la linea di demarcazione deve essere posta tra i due emisferi, tra le due masse continentali separate dai grandi oceani”, cosicché il vero Occidente, la terra del tramonto, risulterà essere l’America, mentre l’Oriente, la terra della luce, coinciderà col Continente antico: il blocco euroafroasiatico.

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Il canto del cigno di Carlo è un articolo di cinque o sei pagine intitolato I Mediterranei del mondo (“Eurasia”3/2005, ott.-dic. 2005). E’ il più breve tra gli articoli scritti da Carlo per “Eurasia”, ma non sfigurerebbe affatto in una eventuale antologia di scritti geopolitici.
Anche qui le citazioni epigrafiche iniziali sono ben rappresentative del pensiero di Carlo in generale e del contenuto di questo articolo in particolare. La prima citazione, infatti, è una frase di Schmitt relativa a quel dualismo terra-mare al quale Carlo si richiama costantemente, mentre le altre tre citazioni si riferiscono ad altrettanti miti (uno greco, uno giapponese e uno azteco) concernenti i tre “mediterranei del mondo”.
Oltre al Mediterraneo propriamente detto, la cui caratteristica consiste nel “penetrare a fondo nella massa euro-afro-asiatica nel senso orizzontale, quello dei paralleli”, esistono altri due mari che, in quanto situati “in mezzo alle terre”, potrebbero esser chiamati “mediterranei”: uno si trova in Asia, “tra la costa della massa continentale sino-indocinese e la collana di isole che si frappongono al grande Oceano Pacifico”, mentre l’altro è in America ed è formato dal Golfo del Messico e dal Mar dei Caraibi.
Carlo nota una caratteristica che li accomuna tutti e tre: “al centro di questi sistemi marittimi interni vi è sempre un’isola di grandi dimensioni che li divide in due metà pressappoco equivalenti”: rispettivamente la Sicilia, Taiwan, Cuba. Ciascuna di queste isole rappresenta la “chiave di volta” strategica per il controllo del sistema marittimo interno e ciascuna di esse ha rivestito e riveste una grande importanza nelle strategie delle potenze talassocratiche, si tratti dell’Inghilterra o degli Stati Uniti.
Per quanto concerne questa idea di altri mari analoghi al Mediterraneo, Carlo cita espressamente il Dictionnaire de Géopolitique di Yves Lacoste. In realtà, già Friedrich Ratzel aveva definito “mediterraneo” un mare che mette in comunicazione due oceani e aveva individuato, oltre a quello euro-africano, quello australe-asiatico e quello centroamericano. La mancanza di questo riferimento, così come la relativa brevità dell’articolo, sono probabilmente indizi dell’esaurimento delle energie dell’autore, il quale d’altronde si ripromette di sviluppare l’argomento, trattandolo in maniera più approfondita, nel numero di “Eurasia” dedicato alla Cina.
Purtroppo ciò non avverrà. Il medesimo numero di “Eurasia” che ospita l’articolo sui Mediterranei del mondo si conclude con due pagine in memoriam di Carlo delle quali voglio ripetere qui le parole finali, scritte in una lingua che lui amava e talvolta cercava di usare nella nostra corrispondenza: Vale, amice carissime, ave atque vale.


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