Claudio Mutti, Imperium. Epifanie dell’idea di Impero, Genova, Effepi 2005, pp. 130.
Recensione di Enrico Galoppini
Questa raccolta di saggi di Claudio Mutti è particolarmente raccomandata a coloro che hanno le idee un po’ confuse su ciò che nella sostanza dev’essere un Impero. Se, difatti, esso svolge essenzialmente una funzione equilibratrice – a tutti i livelli – nello spazio che lo delimita, non si può certo pensare che un Impero si estenda solo su popolazioni accomunate da un’unica visione del mondo o religione. Comune, sarà, invece, la visione spirituale traducentesi in una comune scala di valori, ma variamente espressa dalle popolazioni dell’Impero.
L’Eurasia, che è teatro delle vicende storiche e metastoriche trattate dallo studioso parmense, è, com’ebbe a dire Giuseppe Tucci, caratterizzata da una essenziale “unità spirituale”. Ma per svolgere la sua funzione equilibratrice, l’Impero deve appunto estendersi su tutto il continente eurasiatico, e per tal via viene a risolversi tutta una serie di dicotomie frutto di un autentico dis-ordine, quali la conflittualità tra autorità spirituale e potere temporale, tra “Oriente” e “Occidente”. Le contraffazioni dell’idea di Impero, al contrario, mirano a procrastinare quella che si profila come un’autentica lacerazione nell’Ordine principiale della manifestazione, con tutte le conseguenze nefaste che ne conseguono.
I personaggi che qui vengono presi in esame realizzarono entità geopolitiche autenticamente imperiali, o tentarono di realizzarle: Giuliano Imperatore, Attila, Alessandro il Grande, Federico II, Mehmet II.
Il primo, qualificato da una storiografia partigiana come “l’apostata”, promosse un enoteismo solare in grado di fungere da antidoto contro le tendenze esclusiviste dei seguaci dei culti semitici, della cui tradizione tuttavia l’Imperatore non disconosceva la legittimità, tanto che del dio dei Giudei egli riconosceva la “potenza”; ai cristiani, invece, Giuliano contestava di essersi allontanati dalla loro tradizione, e particolarmente interessanti sono i passi dedicati al Kulturkampf rivolto contro quelli fra costoro che disprezzavano la visione religiosa degli antichi: “Chi crede una cosa e ne insegna un’altra, si comporta in maniera sleale e disonesta” (dalla circolare De professoribus, p. 30).
Nel capitolo dedicato ad Attila – Flagellum dei, Servus Dei – vengono svolte interessanti considerazioni sul significato dell’azione guerriera, ed opportunamente si sfata il trito luogo comune della “barbarie orientale”.
Alessandro presenta poi particolari agganci con la tradizione islamica: l’esegesi lo identifica col Dhû l-Qarnayn coranico, ma il macedone, nel suo spingersi alle estremità dell’Oriente e dell’Occidente, è anche colui che ha realizzato quelli che il tasawwuf (l’esoterismo islamico) chiama inbisât (ampiezza) e ‘urûj (esaltazione), il che lo pone sul piano del Profeta dell’Islâm, protagonista dell’isrâ’ (viaggio notturno – ‘orizzontale’ – al Tempio ultimo) e del mi‘râj (ascesa fino al punto più prossimo a Dio raggiungibile da un essere umano). Si capisce così che il vero imperatore è sia Rex che Pontifex, ed in ciò equivale al califfo dell’Islâm, che è amîr (comandante: funzione regale) e imâm (direttore della preghiera: funzione sacerdotale).
L’istituzione del califfato fu d’altra parte il modello del grande Hohenstaufen, il quale “attribuiva all’Impero non soltanto un’origine divina, m anche uno scopo supremo: la salvezza stessa degli uomini” (p. 82). Secondo Claudio Mutti, dopo l’estensione della sua autorità anche su Gerusalemme (1229), “l’Impero federiciano sembra dunque recuperare, anche se in una misura poco più che simbolica, quella dimensione mediterranea ed eurasiatica che caratterizzò le grandi sintesi imperiali a partire dall’epoca di Alessandro Magno” (p. 89).
A sottolineare il fatto che l’Imperium è una categoria dello spirito, e pertanto non è esclusiva prerogativa di una razza, etnia o religione, l’Autore prende in esame il caso del sultano ottomano Mehmet II (“il Conquistatore”). Nel saggio significativamente intitolato Roma dopo Roma viene esaminato il trapasso di autorità e di poteri che trasferiva agli Ottomani l’eredità dei Cesari bizantini dopo la presa di Costantinopoli nel 1453. Coscienti del significato di tale evento – ovvero il possesso della sede dell’Impero – gli ottomani si qualificarono come unici imperatori “romani” (Qaysar-i Rûm), negando il titolo ai loro avversari; secondo Giorgio Trapezunzio (1466), “imperatore è colui che a giusto titolo possiede la sede dell’Impero, e la sede dell’Impero Romano è Costantinopoli. Chi dunque possiede di diritto Costantinopoli è imperatore” (cit. da p. 106).
In poche ma efficaci pagine, l’Autore ben illustra come la conquista ottomana di Costantinopoli si configurò come l’unica possibilità di sopravvivenza per una civiltà millenaria, ed “in tal modo, il cristianesimo orientale poté vivere per secoli in un clima favorevole, al riparo delle correnti devastatrici della modernità, sicché la cultura bizantina poté continuare a fiorire, dopo il 1453, entro i confini dell’«Impero romano turco-musulmano»” (p. 114).
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