1. Un’organizzazione denominata Rivoluzione Democratica (cfr. sollevazione.blogspot.com) ha convocato a Chianciano per il 22 e 23 ottobre 2011 un incontro nazionale con parola d’ordine: Fuori dal debito! Fuori dall’Euro! Voglio qui riportare il mio contributo (sia pure non richiesto), data l’importanza del tema in questione.

2. Le possibilità concrete di ottenere a breve ed a media scadenza questi due obbiettivi (che condivido nell’essenzialità) sono pressoché nulle. E dicendo nulle intendo proprio dire nulle. In una simile situazione, non potendoci aspettare risultati anche solo parziali a scadenza ragionevole, è il come si devono impostare le rivendicazioni che diventa decisivo. Se esse infatti si impostano male o in modo inappropriato, presto o tardi se ne avranno le conseguenze. Farò fra poco il grottesco esempio del Movimento detto No Global, partito un decennio fa con grandi speranze e finito nel nulla e nel ridicolo. Le cause di questo esito poco glorioso devono essere approfondite.

3. Il settembre 2011 l’Unione Sindacale di Base (USB) è sfilata a Roma con rivendicazioni qualitativamente diverse da quelle della CGIL, Di Pietro, di Vendola, di Bersani e della stessa FIOM. E’ stato posto il problema della cancellazione del debito e della uscita dall’eurozona. Si tratta pur sempre di un’organizzazione che rivendica di avere circa 250.000 membri, e quindi di una forza piccola, ma reale. Si tratta di una relativa novità nella scena politica italiana, in cui l’Unione Europea è fino ad oggi rimasta un feticcio intoccabile, dall’estrema destra all’estrema sinistra “visibili”.

4. Nel numero di settembre 2011 di  “Le Monde Diplomatique” (edizione italiana) è uscito un fondamentale articolo dell’economista francese Frèdèric Lordon intitolato “La deglobalizzazione ed i suoi nemici”. Questo testo è importante, perché pone con chiarezza i problemi fondamentali. Rimandando ad esso il lettore, ne svolgerò con autonomia un mio commento personale.

5. Così come la imposta Lordon (e la intendo io) la de globalizzazione non ha nulla a che vedere, e non è quindi una ripresa, di ciò che per un decennio è stato chiamato Movimento No Global. La debolezza strategica del Movimento No Global era di non essere affatto no global (al di là dei riti pittoreschi di piazza, dai lamenti pecoreschi ritmati alle simulazioni del black bloc), ma di essere un movimento no global di estrema sinistra, e cioè una caricatura ultra-global. La stragrande maggioranza delle sue rivendicazioni (per non cadere nell’autarchia, nel protezionismo, nello stato nazionale, eccetera, tutte cose viste a priori come di “ultradestra”) erano ricavate da una radicalizzazione di ultra-sinistra del paradigma neoliberale in politica e neoliberista in economia. Estensione in tutto il mondo dei “veri” diritti umani, abolizione delle frontiere, libera immigrazione, “superamento” del meschino orizzonte della sovranità dello stato nazionale, retorica contro i dittatori (distinti in semplicemente corrotti, ed in corrotti ed anche sanguinari), giovanilizzazione e femminilizzazione dei valori sociali, mitologia del progresso, eccetera. Un programma che sembrava stilato dalle stesse oligarchie liberali. In campo “marxista”, Negri e Hardt scrissero una trilogia che propagandava questa concezione liberista rovesciata (ma un dado rovesciato è sempre un dado), e non a caso questa trilogia divenne popolare presso i due estremi sociali apparentemente antitetici ed in realtà complementari del capitalismo, i centri sociali in basso e l’aristocrazia accademico-universitaria di sinistra in alto.

6. In Italia abbiamo vissuto una variante particolarmente pittoresca e provinciale del movimento no global, con il picconatore Bertinotti che sosteneva che con la globalizzazione spariva l’imperialismo. Il fatto che questa colossale sciocchezza potesse essere presa sul serio segnala la desertificazione del pensiero critico per opera degli apparati ideologici post-moderni mediatici ed universitari. Ed il fatto che il successore più astuto e rigoroso di Bertinotti, il poeta barese Vendola, abbia elettoralmente svuotato sia i “merli” di Ferrero sia i “passeri” di Diliberto, mostra come il non avere preso sul serio in tempo le sciocchezze porta poi a conclusioni distruttive. Quali lezioni trarre dagli esiti grotteschi del movimento no global dieci anni dopo?

7. La prima e pressoché unica lezione consiste nel capire che la sacrosanta lotta alla globalizzazione non può e non deve essere ripetuta e riproposta sulla base ideologica del movimento no global. Lordon chiarisce che i cantori del vecchio movimento no global (ad esempio l’organizzazione Attac, che ha definito la deglobalizzazione un concetto semplificato e superficiale) comincino già ad alzare le barricate, paventando poi “contaminazioni” con il protezionismo dell’eterna “destra”. Fa eccezione l’economista francese Jacques Sapir, che a mio avviso ha impostato le cose nel modo più radicale e anche meno estremistico ed avventuristico possibile: si tentino pure tutte le soluzioni possibili dentro l’euro e l’unità europea, ma se per caso fallissero, allora deve diventare “pensabile” anche l’uscita dall’euro.

8. Inutile dire che una simile prospettiva possibile, anche se posta solo come eventualità praticabile nel caso che tutte le altre opzioni “riformatrici” fallissero, viene virtuosamente rifiutata dal centro e dalla destra liberale. Il fatto è che ormai il liberalismo classico non esiste nemmeno più, divorato dal passaggio dalla sovranità politica alla governance economica. Ma anche la sinistra (con quella appendice patetica ed inutile chiamata “estrema sinistra”) la rifiuta, temendo virtuosamente che “un conflitto di classe venga trasformato in un conflitto di nazioni” (Jean Marie Harribey).

Ecco, questo è lo scoglio. Il voler negare il dato nazionale, rimuovendolo virtuosamente, aveva già portato Attac a passare dalla “anti-globalizzazione” al cosiddetto “altermondialismo”. Ma l’altermondialismo per ora non esiste, ed è una utopia futuribile come il comunismo o il comunitarismo universale. Ma il dato nazionale non significa automaticamente razzismo, protezionismo assoluto, autarchia totale o decrescita virtuosa agro-pastorale, anche se viene ovviamente così diffamato dai cantori (interessati) della cosiddetta irreversibilità della globalizzazione.

La globalizzazione è emendabile? Il futuro è ignoto, ma si può già rispondere: per ora, nelle attuali condizioni geopolitiche ed economiche, no. I quattro elementi intrecciati insieme (le sfide della globalizzazione, il giudizio dei mercati, il vincolo dei debiti, la sovranità delle agenzie di rating) ci fanno rispondere di no. E quindi bisognerebbe trarne le conseguenze.

9. Per ragioni che sarebbe lungo e noioso spiegare, mentre mi sono estraniato (e sono stato estraniato) dal dibattito italiano, sono invece attivo e presente nel dibattito greco (articoli, interviste, interventi, eccetera). Ora, tutti conoscono la situazione della Grecia, e di come il problema del debito e dell’eventuale uscita dall’euro sia in Grecia particolarmente acuto ed attuale, molto più che in Italia, dove è ancora per ora largamente “teorico” e virtuale. In Grecia è possibile studiare come in un laboratorio le conseguenze immediate del dibattito sul debito.

Il commissariamento della Grecia, che ha comportato la sua totale perdita di sovranità, ha comportato anche la completa distruzione di tutte le conquiste “socialdemocratiche” conseguite dopo la caduta della giunta dei colonnelli del 1974 (metapolitefsi), svuotando quasi quaranta anni di storia della Grecia moderna. Così come l’Italia dell’agosto 2011 è stata “commissionata” dal duopolio Draghi-Napolitano (un banchiere ed un ex-comunista riciclato), così la Grecia è stata commissionata da una “giunta economica” costituita da tutti partiti (destra, sinistra e centro) favorevoli alla sottomissione ai diktat della banca Centrale Europea e della Germania in primo luogo. A questo punto, come reagire?

Da quanto ho potuto capire partecipando al dibattito, ci sono stati fondamentalmente due modi. In primo luogo la rivendicazione di una autonomia nazionale è stato subito incorporata nel ribellismo ultra-comunista di estrema sinistra, che invita all’abbattimento del capitalismo. In secondo luogo, un modo più patriottico e nazionale, incarnato dal grande musicista Mikis Theodorakis e dal suo movimento, che non porta in piazza bandiere rosse ma soltanto bandiere azzurre greche, e lo fa per non dividere ideologicamente il popolo, che al di fuori di una ristretta oligarchia soffre indipendentemente dalle sue opinioni politiche, filosofiche o religiose.

Nonostante abbia amici soprattutto fra i “sinistri” greci, devo dire che a mio avviso la linea giusta è quella di Theodorakis. Il  popolo non deve essere diviso ideologicamente, ma unito in nome della sovranità nazionale e di quella che Lordon e Sapir chiamerebbero deglobalizzazione. Cerchiamo di tirarne la conseguenze “italiane”. Anche in Grecia Theodorakis è stato accusato di essere “rosso-bruno”, di lasciare spazio alla destra, di essere ambiguo, eccetera. Accuse completamente false. Theodorakis ha le carte in regola, sia per la Resistenza (1941-1944), sia per la guerra civile (1946-1949), sia per il “lungo inverno” dell’autoritarismo successivo (1949-1967), sia per l’opposizione alla dittatura dei colonnelli (1967-1974). E’ solo la stupidità settaria che non ha le carte in regola, né in Grecia né in Italia.

10. Passiamo ora all’Italia. Se le considerazione fatte fino ad ora sul fallimento dei no global e degli altermondialisti, sulla deglobalizzazione (Lordon, Sapir), sulla corretta impostazione “nazionale” (non nazionalistica) di Theodorakis in Grecia, eccetera, sono corrette, che cosa fare in Italia?

In primo luogo, non lasciare spazio ai deliranti che dicono che “bisogna fare come in Tunisia”. Gli italiani se ne guarderebbero bene. Dalla Tunisia si scappa e si scapperà ancora a lungo, perché non c’è pane e non c’è lavoro (il che non significa che non fosse ovviamente sacrosanta la rivolta contro Ben Alì!). In questo momento una (non auspicabile) rivolta di tipo tunisino porterebbe soltanto alla fuga del puttaniere Berlusconi ed ad un governo degli “onesti”, e cioè dei funzionari del FMI e della BCE, che porterebbero a termine i programmi di liberalizzazione totale.

In secondo luogo, non bisogna in nessun modo attaccare al programma della deglobalizzazione (perché è ovvio che lo sarebbe sia l’uscita dall’euro che dal debito) i tradizionali (e deliranti) programmi di estrema sinistra, attraverso massimalistiche adunate di refrattari. Mi spiace scendere sui nominativi e sul personale, perché non sarebbe stata questa la mia intenzione. Ma che cosa ci fanno Rizzo, Ferrando e Babini dei CARC? I CARC vogliono la dittatura del proletariato. Ferrando vuole fare come in Tunisia, e lasciamo stare per carità di patria le sua posizioni sulla Libia e sulla Siria, in cui uno scontro tra masse divise da una guerra civile è stato magicamente trasformato in scontro tra le masse unite ed i dittatori burocratico-capitalisti. E Badiale? A mia conoscenza Badiale vuole la decrescita, programma del tutto legittimo, ma che è una fuga in avanti attaccare alla deglobalizzazione. Trattandosi di una sorta di “intergruppi” di estrema sinistra, il solo modo in cui molti vedono l’anticapitalismo, a mio avviso il fallimento è inevitabile. A breve scadenza, fallirebbe anche se ci fossero Gesù, Maometto, Marx e Lenin. Ma almeno porrebbe le basi per una lotta di lunga durata. Così  avremo il solito intergruppi estremistico urlante.

A dire queste cose, si passa necessariamente per rompiscatole e guastafeste, ma in definitiva è meglio parlare che tacere.

 

Torino, settembre 2011

 

* Costanzo Preve, filosofo e studioso del marxismo, è frequente contributore a “Eurasia”

 


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