Presentiamo di seguito l’intervento pronunciato da Giacomo Guarini [primo a sinistra nella foto], ricercatore presso l’IsAG, alla conferenza “Dopo la Primavera: dalle rivolte arabe ai nuovi assetti globali”, svoltasi a Fontenuova (RM) il 26 novembre scorso presso la Biblioteca Provinciale. L’evento è stato organizzato dall’associazione culturale Millennium in collaborazione con l’IsAG e Fuoco Edizioni.
Buonasera a tutti,
ringrazio anzitutto gli organizzatori per avermi dato possibilità di essere qui con voi a discutere della tematica proposta: lo sviluppo delle cosiddette Primavere arabe e i nuovi assetti globali che ne derivano.
Proverò a dividere la mia esposizione in tre parti:
– una panoramica descrittiva delle rivolte nell’area mediterranea, che è quella che ha goduto di grande attenzione mediatica in ‘Occidente’ con i rivolgimenti in Tunisia ed Egitto prima, i disordini libici cui ha fatto seguito il ben noto intervento militare esterno nel paese, la crisi siriana che va evolvendosi in forme sempre più acute;
– cenni a quelle ‘Primavere’ quasi del tutto ignorate dalle nostre parti, che hanno coinvolto i paesi della penisola araba;
- cenni ai nuovi possibili assetti regionali e globali, anche alla luce dell’atteggiamento che le grandi potenze vanno assumendo nell’area.
Una prima precisazione: la decisione di trattare separatamente i rivolgimenti in corso nell’area mediterranea e nella penisola araba non scaturisce da mero criterio geografico ma nasce da più profonde implicazioni. Di fatto, le rivolte dell’area mediterranea sono state oggetto di grande attenzione mediatica e incisive risposte politiche; i rivolgimenti della penisola non hanno invece avuto pressoché alcuna eco significativa né sul piano mediatico né sul piano politico internazionale.
“Primavere” mediterranee
Comincio dunque con alcuni cenni agli sviluppi delle rivolte nei paesi mediterranei, trattando di Tunisia, Egitto e Siria (il caso libico sarà di specifica pertinenza del correlatore Di Ernesto).
Tunisia: è stato il primo paese nel quale il malcontento popolare è esploso in forme incontenibili. Estesosi dall’entroterra verso la capitale costiera Tunisi, renderà vane le violente repressioni di Ben Alì, presidente del paese dal 1987, che sarà infine costretto alla fuga in Arabia Saudita. Alla sua dipartita seguiranno ancora scontri di piazza a più riprese, dovuti soprattutto all’insofferenza del popolo per governi provvisori caratterizzati ancora da una forte presenza di membri del vecchio establishment. Nuove elezioni avranno luogo il 23 Ottobre, inizialmente previste per la fine di Luglio.
L’esito elettorale porterà ad una vittoria quasi scontata del partito definito “islamico-moderato” Ennahda che conquisterà 90 seggi su 217 con circa il 41% delle preferenze espresse. Rachid Gannouchi è il leader della forza politica uscita vincitrice dalla competizione.
Il paese all’indomani delle competizioni elettorali: Gannouchi sembrerebbe al momento assumere funzione equilibratrice fra le istanze più radicalmente islamiste e quelle più laiche del paese. Da un lato ha riconosciuto legittimità politica alla formazione islamista radicale Ettahir, la cui partecipazione alla competizione elettorale era stata esclusa dal governo di transizione. D’altro canto, l’assetto istituzionale si è consolidato sulla base del legame con partiti di estrazione laica quali l’Ettakatol e il Congresso per la Repubblica (in merito alla designazione rispettivamente del presidente dell’Assemblea costituente e del Capo dello Stato ad interim) e di rilievo è stato l’ammiccare al modello turco ed alla figura di Erdoğan, la cui formazione politica richiama chiaramente le radici islamiche ma ripudia quello che definiremmo “fondamentalismo”. Indicativo della volontà di Gannouchi di emergere come leader moderato dalla competizione è stato anche l’aver posto l’accento sulla grande partecipazione politica femminile nelle stesse file di Ennhada, nonché il ripudio di provvedimenti proibizionisti nella vita civile ispirati a ragioni confessionali.
Egitto: l’11 Febbraio Mubarak, dopo aver tentato alcune riforme cosmetiche in seno all’establishment, si vedrà costretto a lasciare il potere in seguito ad indomabili proteste, nonostante – anche qui – l’intervento di forze di repressione governative e para-governative. Il potere è delegato provvisoriamente al Consiglio supremo delle forze armate. Attualmente, anche a seguito dell’approvazione di modifiche costituzionali, l’art. 56 della costituzione provvisoria prevede la prerogativa eccezionale per le stesse forze armate di adottare atti normativi. E possiamo dire che proprio il potere del Consiglio militare rappresenta ancora oggi un forte fattore di impedimento alla pacificazione sociale (non l’unico, per la verità, considerando i casi di violenza inter-religiosa che continuano a manifestarsi nel paese) dal momento che Piazza Tahrir al Cairo, assurta a simbolo della mobilitazione popolare contro Mubarak, ha continuato anche dopo la caduta dello stesso ad essere popolata in segno di protesta e proprio in questi giorni assistiamo a manifestazioni ‘oceaniche’ come quelle di Febbraio. Elezioni non hanno ancora avuto luogo (il primo turno si svolgerà il 28 Novembre), ma il fermento socio-politico di questi mesi non ha fatto che dimostrare la grande forza di cui gode un movimento come quello dei Fratelli Musulmani, confermata anche dalla capacità di mobilitazione nelle proteste di cui abbiamo fatto cenno. Dovrà dunque passare del tempo, prima di poter assistere ad una più chiara ridefinizione dei rapporti di forza fra i soggetti politico-sociali provenienti “dal basso” (presso i quali, le componenti islamiste assumono grande peso) e “dall’alto” (il Consiglio militare, la cui presenza nelle istituzioni è ancora forte).
I rivolgimenti in Egitto e Tunisia, elementi comuni di riflessione:
– Abbiamo assistito alla caduta di regimi pluridecennali, autocratici, ‘laici’ (1), appoggiati dall’ ‘Occidente’.
– In entrambi i paesi forti spinte alla rivolta sono nate da malcontento sociale. Disoccupazione, aumento dei prezzi dei beni di prima necessità (fenomeno per il quale si è diffusamente denunciata l’influenza delle speculazioni finanziarie), cleptocrazia sono stati tutti elementi che hanno giocato un importante ruolo come scintilla dei fenomeni di destabilizzazione.
– La caduta dei regimi ha lasciato il posto ad un fermento politico dalle forti connotazioni religiose, già carsicamente radicato nel tessuto sociale. Un elemento – la componente islamista – che pure se in forme diverse ritroveremo anche nella crisi siriana di cui andremo a parlare e in quella libica di cui dirà Di Ernesto.
– Si è detto come i governi di Ben Alì e Mubarak godessero di solidi rapporti con i paesi occidentali, per quanto le stesse relazioni fossero soggette ad alti e bassi. Tuttavia non può tacersi il ruolo che ha giocato nelle rivolte un fattore controverso quale la presenza di attivisti ed ong caratterizzati da legami diretti o indiretti con l’ ‘Occidente’ e con gli USA in particolare. Si pensi a quelle rivelazioni di Wikileaks diffuse nei giorni dell’infiammare delle proteste egiziane, le quali facevano riferimento a legami fra diplomazia USA e attivisti egiziani volti a favorire un regime change nel paese. Vi sarebbe molto altro da dire su questi legami, per alleggerire la trattazione preferisco farlo per immagini più che per parole:
I legami diretti o indiretti fra movimenti ed ong di protesta e governo USA sembrano dunque rispettare la strategia delle cosiddette “rivoluzioni colorate”, applicata in particolare nei Balcani, nell’Est Europa ed in Centro Asia e consistente nel promuovere cambi di regime favorevoli a Washington proprio mediante il massiccio finanziamento di gruppi e movimenti locali finalizzati al sovvertimento non-violento di governi autocratici o presunti tali. Certamente vi è nel contesto ‘egizio-tunisino’ una grande anomalia, data dal fatto che qui non si è agito contro governi ostili agli USA, tutt’altro. Tenteremo in conclusione di accennare ai possibili motivi di simili scelte strategiche.
Siria: rappresenta sicuramente lo scenario più delicato al momento nell’area mediterranea, suscettibile di brusche e sconvolgenti evoluzioni nel breve periodo. Si è cominciato a parlare di Siria in relazione alle rivolte arabe nel mese di Marzo, con i primi disordini di Deraa. Per lungo tempo i principali media panarabi (Al-Jazeera e Al-Arabiya) ed occidentali hanno esclusivamente trattato delle violente repressioni governative, spesso in verità anche riportando notizie e testimonianze audiovisive di dubbia – quando non nulla – attendibilità. Con questo non si vuole negare la violenza delle repressioni governative, soprattutto in particolari frangenti, ma si vuole mettere in luce un aspetto della crisi parecchio trascurato dai media nel corso dei mesi e solo ora parzialmente emerso. A fare da contraltare alle notizie di violenze arbitrarie su pacifici manifestanti, infatti, vi è la versione del governo siriano, che ha denunciato sin dall’inizio un “complotto dall’estero” e l’azione di terroristi autori di attentati contro i militari e contro i civili. Diverse testimonianze audiovisive sono state riportate al riguardo dalle tv di Stato. Negli ultimi giorni, invece sta acquisendo certa visibilità l’ “Esercito Siriano Libero”, che ha rivendicato diversi attentati a luoghi di rilevanza politica e militare. Per simili fatti, dunque, anche la stampa occidentale è giunta infine a fare riferimento esplicito alla realtà di una guerra civile nel paese. Da rilevare anche che il governo ha proposto e promulgato diversi provvedimenti di riforma sin dall’inizio della crisi (apertura del web, riforme istituzionali finalizzate al pluripartitismo, amnistia per gli autori di disordini, fine dello stato di emergenza in vigore da decenni, etc.) ma questi non sono mai stati posti alla base di un dialogo fra le parti, a causa del rifiuto pregiudiziale dei ‘ribelli’ che hanno presto alzato la posta, chiedendo non più determinate riforme, ma un immediato ed incondizionato regime change. Ultimo elemento che vorrei mettere in luce è il sostanziale sostegno di cui Assad sembra di fatto godere presso larghe fasce della popolazione e – elemento degno di nota – presso le minoranze religiose, fra cui quella cristiana. Il timore espresso da diversi esponenti di quest’ultima è che l’attuale pace confessionale e rispetto religioso garantiti politicamente, verrebbero meno a causa del forte radicamento islamista degli oppositori governativi.
La crisi siriana nel contesto internazionale: la crisi in corso vede il governo in serie difficoltà e semi-isolato internazionalmente. Con accuse basate su una condotta repressiva del governo contro le istanze del popolo, le prime dure critiche sono arrivate dall’ ‘Occidente’. La Turchia – negli ultimi tempi impegnata in un riavvicinamento a Damasco, sancito da importanti forme di cooperazione strategica – ha avuto negli ultimi mesi un atteggiamento di crescente ostilità, sfociato nella minaccia di intervento ‘umanitario’ degli scorsi giorni, per di più accolta favorevolmente da esponenti dei Fratelli Musulmani siriani, anche qui in opposizione al governo costituito. Abbiamo poi la Lega Araba, che si è visto aver agito politicamente contro la Siria con la sospensione della membership nell’organizzazione ed elaborando sanzioni da applicare. A difendere il governo di Assad resta la Russia, per la quale la Siria ha una funzione strategica troppo importante come sbocco sempre ricercato nei “mari caldi”, dal momento che le è garantito l’accesso al porto di Tartus. Anche la Cina avrebbe interesse a difendere il paese da un eventuale intervento ‘umanitario’, soprattutto dopo che la risoluzione ONU 1973 per la Libia è stata interpretata a puro arbitrio delle forze intervenute. Per ora però le sue reazioni sono parse abbastanza tiepide. L’Iran resta infine uno strenuo difensore della Siria, trovando in essa un alleato vitale, un punto di riferimento fondamentale nella regione, come lo è d’altronde anche per la milizia islamico-sciita libanese di Hezbollah, nonché come elemento di raccordo fra quest’ultima e lo stesso Iran.
Le ‘Primavere’ ignorate: la penisola araba
Anche la penisola araba è stato centro di disordini di non indifferente portata, eppure questi sono stati sistematicamente ignorati dai nostri media, a parte forse certi riferimenti allo Yemen. In Arabia Saudita vi sono state tensioni soprattutto nella parte orientale del paese, a maggioranza sciita (della stessa confessione religiosa dell’Iran, a differenza dell’establishment saudita radicato nella tradizione del sunnismo wahabita) e particolarmente tesa è stata ed è la situazione in Bahrein; è noto a chi ha seguito con più attenzione i fenomeni in corso nel mondo arabo che il governo saudita è intervenuto con carri armati nella piccola isola per facilitare la repressione delle proteste pacifiche di civili disarmati. Da rilevare che in questi due scenari la rivolta coinvolge sostanzialmente la popolazione di confessione sciita in paesi dove l’assetto istituzionale è di forte ispirazione sunnita e l’orientamento confessionale si riflette anche nella vita civile e sociale, causando forti discriminazioni. La Repubblica Islamica dell’Iran ha fortemente simpatizzato con simili proteste, per comunanza confessionale, ma anche perché si tratta di spine nel fianco del regime saudita e dei suoi alleati, con i quali l’Iran è in competizione per l’egemonia regionale.
‘Occidente’ e monarchie del Golfo: un progetto strategico comune? Perché, tuttavia, queste proteste non hanno avuto la stessa risonanza ed impatto di quelle ‘mediterranee’ precedentemente trattate? Proviamo a rispondere. Le cosiddetta petro-monarchie del Golfo costituiscono un fondamentale serbatoio energetico per l’ ‘occidente’, USA in primis e per questi ultimi vi è anche una valenza strategica fondamentale. Si pensi alle varie basi militari USA ivi dislocate (si parla di più di 40.000 truppe statunitensi presenti nel Golfo), le quali hanno anche una importante funzione di accerchiamento dell’Iran, nemico comune agli USA e ai paesi peninsulari. Insomma, simili esigenze di grande interesse strategico hanno evidentemente portato ad allontanare l’attenzione dalle rivolte in corso in questi scenari; tuttavia dobbiamo far riferimento anche ad altre esigenze strategiche di più immediata contingenza e –aggiungo – cruciali per comprendere l’evolvere dei sommovimenti in corso. Mi riferisco ad una sostanziale convergenza strategica – pur fra inevitabili divergenze di second’ordine – fra i più influenti paesi dell’area (Arabia Saudita e Qatar in primis) da un lato e gli USA (seguiti a ruota dagli altri paesi occidentali) dall’altro, nel promuovere la caduta dei governi costituiti nel Mediterraneo o quantomeno nel sostenere le forze politiche successivamente insediatesi. L’aiuto sostanziale di questi paesi arabi in tal senso si è avuto su più fronti:
– Copertura mediatica: Al-Jazeera ed Al-Arabiya sono due emittenti rispettivamente facenti capo all’emiro del Qatar e alla famiglia dei Saud, al potere in Arabia Saudita (anche se la sede dell’emittente è negli E.A.U.). E’ noto ormai come simili emittenti abbiano letteralmente taciuto i pur rilevanti sommovimenti in corso nella penisola araba mentre abbiano intensamente sponsorizzato quelli nell’area mediterranea, arrivando spesso a storture – quando non a vere e proprie menzogne – per promuovere la caduta dei regimi mediterranei.
– Sostegno finanziario: concretizzatosi in più forme, soprattutto da parte saudita e qatariota; si pensi all’impulso agli investimenti e ai prestiti al ‘nuovo’ Egitto e alla ‘nuova’ Libia. Ma meriterebbe una trattazione a parte la questione del sostegno agli stessi movimenti politico-religiosi sunniti operanti nell’area. Per inciso, si noti come massicci fondi siano stati invece stanziati per finalità inverse (garantire la sopravvivenza dei regimi politici al potere) nel Golfo ed in paesi alleati. L’Arabia Saudita, ad esempio, si è impegnata a stanziare una quantità enorme di denaro (130 miliardi di dollari, pari al 36% del suo pil) per promuovere riforme sociali interne e salvare sé stessa, ma anche ingenti risorse destinate ai governi amici destabilizzati dalle rivolte grazie al Consiglio di Cooperazione del Golfo.
– Appoggio militare e para-militare: Qatar e E.A.U. hanno dato il loro sostegno all’operazione militare in Libia. In particolare il Qatar ha anche lavorato nelle operazioni più delicate, quale la dislocazione di truppe speciali a terra che ha permesso la presa di Tripoli. Riguardo alla destabilizzazione in corso in Siria, anche analisti occidentali – tutt’altro che sospetti di simpatie baathiste – ipotizzano il sostegno indiretto dei sauditi ai gruppi armati antigovernativi, contando sull’appoggio di Hariri dal Libano e sulle frontiere porose dell’Iraq, nonché sulla collaborazione dell’alleato giordano.
- Attività politica: la Lega Araba ha mostrato piena ostilità nei confronti di Gheddafi ed Assad mentre – ovviamente – nessun provvedimento di sanzione è stato preso nei confronti dei governi della penisola a causa delle repressioni attuate (in base ai rapporti di forza in seno alla Lega, la cosa avrebbe significato accusare sé stessi).
Conclusioni
Abbiamo visto come i sommovimenti nell’area mediterranea (Egitto, Tunisia, Libia e Siria) stiano vedendo come attori protagonisti in primo luogo forze islamiste (tendenti all’oltranzismo o a posizioni moderate a seconda dei luoghi); fra queste, i Fratelli Musulmani parrebbero rappresentare la forza più dirompente, che emerge in paesi ‘laici’ dove aveva sempre subìto forti forme di contenimento o effettiva repressione.
I paesi del Golfo hanno dato un sostanziale sostegno a simili fermenti, scommettendo sul forte ascendente politico che potranno avere sulle forze politiche emergenti ispirate all’islamismo sunnita. Hanno invece taciuto, contenuto e represso ogni forma di dissenso nella propria area di riferimento.
I paesi occidentali, USA in testa, hanno contribuito alla caduta di regimi pure ad essi legati (Tunisia, Egitto) e promosso parimenti un cambio politico di regimi ad essi ostili (Libia, Siria in corso).
La domanda che sorge spontanea è: perché l’egemone USA ha assecondato un generale stravolgimento degli assetti mediterranei, anche quando questo ha coinvolto governi tutto sommato affidabili e ad essi legati?
Diverse risposte possono provarsi a dare sulle finalità di tale scelta e possiamo individuare scopi strategici a valenza regionale e globale:
1. A livello regionale: l’appoggio alle “Primavere” ha portato alla caduta di regimi ‘fidati’, i quali però erano causa di forte malcontento presso la popolazione e di certa preoccupazione presso gli stessi USA (vedi i crescenti legami con la Cina). La loro caduta ha portato ad un rilancio d’immagine, con il quale gli USA hanno potuto presentarsi come sensibili alle istanze democratiche delle popolazioni; l’instabilità ivi creatasi ha inoltre permesso di rendere le frontiere di Tunisia ed Egitto con la Libia ancora più porose, favorendo operazioni militari contro le forze di Gheddafi nel conflitto libico; infine il ‘caos’ propagatosi ha irrimediabilmente turbato importanti processi di autonoma integrazione mediterranea che rischiavano di estromettere pericolosamente gli stessi USA dall’area (partnership italo-libica, fronte Roma-Ankara-Mosca, progetto di gasdotto Iran-Iraq-Siria).
2. La particolarità della crisi siriana: abbiamo visto in queste settimane la Siria e l’Iran nel mirino. La caduta del regime di Assad rappresenterebbe nell’area sicuramente un evento dagli effetti imprevedibili. E tuttavia rappresenterebbe un colpo fortissimo inferto all’Iran (di cui è saldo alleato) e di un certo fastidio anche per la Russia. Inoltre – come accennato – è proprio la possibilità che forze sunnite islamiste rimpiazzino il Baath al potere ad allettare le mire dei sauditi e dei loro alleati nella lotta regionale per l’egemonia contro il bastione sciita di Persia. La caduta del regime siriano è in effetti un obiettivo più vicino e probabile che non lo scontro diretto con l’Iran, il quale rappresenta in ogni caso il nemico ultimo nell’area per sauditi e statunitensi (2).
3. Finalità a valenza globale: i fenomeni di destabilizzazione in corso compromettono sicuramente la forza della penetrazione di nuovi attori globali emergenti, Cina in primis, nel Vicino Oriente e possono collocarsi in un contesto di ricercata ostruzione da parte USA dell’accesso alle più importanti aree strategiche del globo ai nuovi competitori internazionali; si veda l’attività del comando militare statunitense per l’Africa (Africom), per la quale anche diversi analisti occidentali sottolineano l’importante funzione di contenimento e sbarramento della emergente presenza cinese nel continente africano; così come i recenti moniti di Obama alla Cina, durante la sua visita in Australia, in merito alla presenza nel Pacifico.
Abbiamo visto come il cerchio si stia stringendo sul grande nemico iraniano con pressioni contestuali e ancor più pericolose sull’alleato siriano. L’indebolimento della potenza iraniana potrebbe dare nei progetti USA linfa vitale alla loro penetrazione eurasiatica, a scapito grandi rivali continentali cinese e russo. La porta per una simile avanzata sarebbe costituita dall’area centroasiatica; identificata dal grande stratega statunitense Brzezinski (attuale consigliere dell’amministrazione Obama) come “Balcani eurasiatici”. Trattasi di un’area ricca di risorse e tuttavia lungi dall’essere sotto pieno controllo delle grandi potenze continentali (Russia e Cina, appunto), nonché polveriera di conflitti etnico-religiosi suscettibili di esplosione (non a caso è stata creata un’organizzazione di cooperazione – quella di Shanghai – che ha come primo scopo la sicurezza e la stabilità dell’area). In un simile scenario, un forte impegno degli USA volto a far leva sul fattore islamista nonché su frizioni etniche, potrebbe portare a creare una vasta zona di frattura nell’area centroasiatica, in grado di colpire duramente la stabilità dei due giganti asiatici anche perché suscettibile di facili sconfinamenti entro i loro confini interni (vedi le aree di crisi russa a considerevole presenza musulmana e lo Xinjiang cinese). Una lunga fascia di destabilizzazione che darebbe dunque non pochi pensieri ai grandi rivali eurasiatici degli USA.
In ogni caso, tornando al contingente e al nostro scenario di riferimento, vi sono al momento l’incognita siriana e quella iraniana. Un intervento armato in Iran vorrebbe dire scatenare un conflitto di imprevedibili proporzioni e conseguenze ma in effetti i recenti rumors su di un intervento militare sono stati talmente amplificati da far pensare più ad una volontà di fare pressione su Cina e Russia che non a reale volontà bellica, almeno nel breve periodo. Tuttavia anche l’intervento in Siria sarebbe probabilmente foriero di conseguenze e reazioni tutt’altro che circoscritte entro i suoi confini come – in un certo senso – può essere stato nel caso libico; non ha torto Assad quando paventa conseguenze disastrose per tutto il Vicino Oriente in caso di attacco al proprio paese. Vi è da constatare che l’establishment occidentale ha dimostrato in questi mesi tutto fuorché senso della misura e quindi un conflitto a breve, soprattutto in Siria, non può totalmente escludersi, tanto più se sulla questione siriana ci si potrà avvalere di una ‘procura’ turca. Determinante sarà la reazione di Russia e Cina, che già hanno fatto abortire tentativi di risoluzione al riguardo in sede ONU. I due paesi hanno spesso dimostrato molta cautela, evitando di fare “muro contro muro” con gli USA su questioni che non riguardavano le proprie immediate pertinenze territoriali o interessi vitali. La Cina, in particolare, cerca di potenziare al massimo il proprio sviluppo economico, rimandando nel tempo uno sforzo più strettamente politico a livello internazionale. Sinora, l’atteggiamento di Pechino è stato dunque di attesa: si è ritenuto da parte sua non proficuo sviluppare contrapposizioni frontali con gli USA, sulla base del fatto che la superpotenza è in fase di declino evidente. Inutile dunque rispondere in maniera frontale, quando il tempo potrà da solo portare ulteriori frutti amari al grande rivale americano.
Tuttavia, si fa vicino il momento in cui diventa necessario che un pur saggio atteggiamento attendista venga a confrontarsi in misura politicamente più assertiva contro l’aggressivo attivismo militare, politico e finanziario della potenza egemone. Sulla questione siriana la Russia sembra pronta a questo e ha già dato dei segnali con una serie di atti politici e ‘para-politici’. Vedremo allora quanto sarà forte la volontà degli USA e dei paesi ostili alla Siria (Turchia in primis) ad intraprendere nuove tragiche avventure belliche nella regione – o anche solo ad alzare in maniera indiretta il livello di destabilizzazione e conflittualità interne – e se nel caso la Cina e la Russia saranno disposte a lasciare di nuovo carta bianca alla sclerotica aggressività di una potenza incapace di accettare la crisi strutturale che l’attraversa e il conseguente declino.
NOTE
- Simili contesti culturali sono caratterizzati da un forte permeare dell’espressione religiosa nella vita civile e sociale. Per questo, se si parla di “regime laico”, non si intende di certo un modello istituzionalmente ispirato al laicismo francese, ma in ogni caso delle realtà politiche che hanno contenuto – quando non violentemente soppresso – le espressioni politico-sociali più radicalmente legate all’ispirazione confessionale.
- In merito a i punti 1) e 2) il tempo limitato non ci permette di analizzare approfonditamente la questione dei “giri di valzer” diplomatici che hanno caratterizzato la Turchia con l’incalzare degli avvenimenti, così come l’ancor più complessa e delicata posizione di Israele nei fenomeni in corso, meritevole di autonoma trattazione.
INDICAZIONI BIBLIOGRAFICHE
Si rimanda per approfondimenti a “Capire le rivolte arabe” di Pietro Longo e Daniele Scalea (Edizioni Avatar, 2011), prima pubblicazione dell’Istituto di studi geopolitici ISAG.
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