C’è del marcio in Libano, e sia detto fuor di metafora. Non serviva la crisi dei rifiuti per dare una rappresentazione plastica della miscela putrescente di corruttela e immobilismo ben nota ai libanesi; tuttavia, l’emergenza ha innescato una mobilitazione dell’opinione pubblica contro un governo fantasma attraverso manifestazioni che, all’ombra dei cedri, non si vedevano dall’uccisione di Rafiq Hariri nel 2005.
Casus belli è stata la chiusura della più grande discarica del paese, alla periferia di Beirut, e la collaterale scadenza del contratto che affidava i servizi di nettezza urbana alla Sukleen, azienda controllata da amici del clan Hariri; e tutto ciò senza che il governo avesse pronta una soluzione alternativa. L’accumularsi dell‘immondizia per le strade della capitale ha, forse per la prima volta, costituito un disagio trasversale a classi e fazioni tale da superare la balcanizzazione sociopolitica fisiologica in Libano.
Ad accogliere e organizzare il malcontento popolare è stato il collettivo “You Stink”; originariamente formato da una dozzina di membri di comune estrazione borghese. Questo movimento, il cui nome rappresenta una duplice e trasparente allusione al puzzo che si solleva tanto dalle strade quanto dai palazzi del potere, è riuscito a radunare fino a 25000 persone in occasione di varie proteste, a partire dalla dimostrazione pacifica del 22 agosto scorso- a cui la polizia ha risposto con idranti, proiettili di gomma e gas lacrimogeni – e da quella della settimana successiva, degenerata in uno scontro violento con le forze dell’ordine che ha lasciato sul terreno un morto e 400 feriti. Il manifesto pubblicato da “YouStink” è perentorio nei quattro punti che lo compongono: dimissioni immediate del ministero dell’ambiente, inchiesta sulle responsabilità nella repressione violenta di cui sopra, soluzione alla crisi dei rifuti, elezioni.
Se nel frattempo, passando per periodiche manifestazioni di cui l’ultima il 14 dicembre, il problema più impellente, e repellente, pare avere trovato una soluzione temporanea con l’apertura di due discariche in altre località del paese (come temporanea è quasi ogni decisione faticosamente partorita dall’esecutivo), è l’ultimo punto del succinto manifesto a gettare una nuova luce su “YouStink”, connotandolo come un organismo a fini politici. Ci troviamo di fronte a “indignados” polemisti futuribili “podemisti” coronati dal successo elettorale, oppure a emuli di Gezy Park destinati a ripiombare nella penombra? Secondo Imad Salamy, professore di scienze politiche presso l’American Lebanese University, “il movimento non solleverà alcuna questione politica di peso, né può portare l’attuale governo alle dimissioni senza offrire un’alternativa. Per non mancare il proprio fine politico, deve essere tanto distruttivo quanto costruttivo”. Ma distruttivo di cosa?
Seppure non sia un’autocrazia come quelle rovesciate dalle cosiddette “Primavere arabe”, il Libano non si qualifica neppure per una democrazia compiuta e funzionante. Il semifallito Stato libanese si caratterizza piuttosto per una peculiare ibridazione di pratiche democratiche, distribuzione settaria del potere e tradizionali centri di detenzione dello stesso, mostrando sì, sullo sfondo di un contesto regionale a tinte mediamente fosche, maggiori concessioni a libertà, pluralismo, partecipazione popolare e iniziativa economica, ma allo stesso tempo soffrendo di istituzioni latitanti, elezioni più eccezione che norma, nepotismo radicato e corruzione, settarismo endemico e perdita del ruolo di faro economico e culturale del Mashreq a vantaggio del Golfo.
Qualche dato tratto dal “Global Competitiveness Index 2014-2015”, stilato dal “World Economic Forum”, basta a tratteggiare un quadro desolante: su 144 paesi presi in esame, il Libano si classifica 144° per fiducia nella classe politica, 143° per corruzione, 142° per pagamenti irregolari e tangenti, 138° per indipendenza degli organi giurisdizionali. A fronte dell’adesione alla “Convenzione ONU contro la corruzione”, quest’ultima assorbe ogni anno il 15% del PIL del paese, una quota considerevolissima che potrebbe andare a finanziare riforme, infrastrutture, aumenti salariali nel pubblico impiego. Il clima di sfiducia verso il governo è poi pienamente giustificato dall’incapacità di quest’ultimo sia di rispondere ai bisogni elementari della popolazione sia di superare le divisioni interne al parlamento, con la contrapposizione tra la coalizione 8 Marzo (nucleo composto dagli Hezbollah di Nasrallah e dai cristiani maroniti guidati dal generale Aoun, supportata dall’Iran, sostenitrice di Assad) e quella 14 Marzo (componente di un’alleanza sunnita con l’Arabia Saudita e con al centro il Movimento del Futuro guidato da Saad Hariri, figlio del defunto premier e a sua volta primo ministro dal 2009 al 2011). Risultato: stallo decisionale con il parlamento che dal 2009, anno delle ultime consultazioni, ha prolungato autonomamente il proprio mandato quadriennale fino al 2017 e, da maggio 2014, non è stato in grado di accordarsi su un nome per il presidente della Repubblica.
Costituzionalizzazione della distribuzione delle cariche pubbliche tra i rappresentati delle 18 confessioni religiose ufficialmente riconosciute e legittimazione indiretta di un nepotismo diffuso nelle sfere del potere (si vedano i clan Hariri e Jumblatt), nell’intera storia del Libano il sistema confessionale è oscillato tra la condizione di collante centripeto indispensabile all’unità della nazione e forza centrifuga che ha portato il paese sull’orlo dell’abisso durante la guerra civile. E appunto una guerra civile pericolosamente vicina quale quella siriana, divenuta nel corso del proprio dispiegarsi un conflitto dalle forti connotazioni settarie, sta esasperando questa divisione interna, i cui riflessi venefici si sono concretizzati con gli attentati e gli scontri intercorsi tra partigiani di Assad e sostenitori dei ribelli siriani a Tripoli e Beirut; come ben esemplificato dalle parole dell’ex-generale Elias Hanna, “Non puoi andare in Siria come Hezbollah, sciita e componente dell’asse iraniano, a uccidere sunniti (segnatamente il fronte ribelle di al-Nusra, affiliato di al-Qaida, nda) e vivere in Libano circondato dai sunniti medesimi”.
L’acuirsi del settarismo è però solo uno dei sintomi di inquietante somiglianza con i prodromi del conflitto che ha insanguinato il Libano tra il 1975 e il 1990, insieme al parallelo tra l’afflusso massiccio di profughi dalla Siria e l’egualmente consistente diaspora palestinese su cui l’esecutivo spesso riversa le responsabilità della propria paralisi (e ciò non del tutto immotivatamente, visto il disinteresse in merito da parte della comunità internazionale), a uno sviluppo geograficamente diseguale e compromesso da un’economia fortemente speculativa, al rischio, indotto dalla supremazia militare di Hezbollah, di una corsa a eserciti personali stile “falange”, favorita da un disarmo a metà che vede gli ex-capi milizia tramutatisi in leader politici ben saldi ai vertici del potere.
Il settarismo influisce prepotentemente anche sul programma di “YouStink” da cui siamo partiti. Se, infatti, la questione dei rifiuti tocca indifferentemente ricchi e poveri, sciiti e sunniti, drusi e maroniti, l’impegno sul piano politico-elettorale, che vede nel settarismo la propria ragion d’essere, non condurebbe forse all’implosione del movimento stesso? Per uscire da questo circolo vizioso, andrebbe trovata una risposta positiva alla domanda che Tarek Osman, giornalista e consigliere politico per il mondo arabo alla European Bank for Reconstruction and Development, ritiene cruciale e ineludibile nell’affrontare il caso Libano: lo Stato libanese può avere una base nazionale, piuttosto che settaria? Sulla base dei decenni passati, la risposta è no. Il Libano, quindi, sembrerebbe destinato alla frammentazione o al federalismo: la prima a creare una costellazione di piccoli stati a base settaria dalle economie troppo piccole o povere per essere attrattive, calata in un’area in perpetua ebollizione e con un rischio conseguentemente alto di ulteriori conflitti; il secondo, impossibile a causa dello squilibrio economico e infrastrutturale tra le varie regioni del paese, a sfociare in una frammentazione di fatto, se non formale, e all’impotenza dello Stato centrale.
Un tentativo di superamento delle divisioni è alla base della cristallizazione di un consenso attorno ala candidatura alla presidenza di Suleiman Frangieh, leader del movimento cristiano maronita „Marada“ affiliato a Hezbollah. Rivendicato da ISIS, l’attentato suicida del 12 novembre scorso in un quartiere meridionale di Beirut roccaforte del partito di Nasrallah ha costituito il catalizzatore che ha accelerato la ricerca di un accordo tra 8 e 14 marzo; un accordo, tuttavia, alquanto insolito, visto che Frangieh, già primo ministro, è amico d’infanzia e sostenitore di Basher al-Assad: qual è quindi la ratio del sostegno accordatogli da Saad Hariri, strenuo critico del regime di Damasco a cui, tra l’altro, attribuisce la responsabilità dell’assassinio del padre Rafiq nel 2005? Alla base ci sarebbe un principio di do ut des che vedrebbe l’affidamento della carica di primo ministro al leader sunnita di Movimento Futuro, al cui peso in parlamento nulla potrebbero i quattro seggi detenuti dalla compagine „Marada“ del futuribile presidente. Come dimostrato dalla storia, tuttavia, il destino del Libano si decide altrove, e in questo frangente la luce verde alla candidatura sarebbe arrivata anche da Arabia Saudita, Iran, Stati Uniti e Francia, poco inclini ad alimentare un ulteriore vespaio in un momento particolarmente turbolento a livello regionale.
L’incognita principale permane, però, all’interno. Con una polarizzazione confessionale esacerbata dalla guerra civile siriana, l’avvallo del vertice del blocco 14 marzo a una presidenza filosiriana non causerà l’implosione stessa delle alleanze interne, essendo l’opposizione a Damasco il nocciolo duro attorno a cui le stesse si erano coalizzate? E ciò, a sua volta, non provocherà una radicalizzazione sunnita potenzialmente distruttiva di un equilibrio interno sul filo del rasoio?
Appunto in questo quadro scoraggiante, il Libano avrebbe estremamente bisogno della trasversalità di interessi promossa da „You Stink“, antidoto a un immobilismo alimentato dai particolarismi. Nell’attesa di un nuovo presidente lungamente atteso, auspichiamo che la spinta innovativa della società civile non venga soffocata dallo spauracchio non così remoto di conflitti interni e di complicazioni internazionali endemici in un Medio Oriente in perenne ebollizione.
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