L’operazione militare turca nel nord della Siria, seguita al parziale ritiro nordamericano dall’area, porta il conflitto nel Paese levantino ad un nuovo livello. Se tale operazione fosse esclusivamente limitata alla chirurgica eliminazione di taluni gruppi terroristici curdi e si svolgesse nel rispetto della linea stabilita dai colloqui di Astana, il suo potenziale destabilizzante potrebbe essere assai più ridotto di quanto si possa pensare. Tuttavia, diversi indicatori lasciano presagire il contrario.
Il ritiro statunitense dalla Siria nordorientale era stato già annunciato nel dicembre 2018. In quell’occasione, “Eurasia” pubblicò un articolo dal titolo La ritirata strategica degli USA dalla Siria, in cui venivano delineate le potenziali dinamiche geopolitiche che una simile operazione avrebbe comportato. Nello specifico, si riconosceva che l’apertura a determinate aspirazioni subimperialiste della Turchia ed il recupero di Ankara nel novero degli alleati dell’“Occidente” potessero rappresentare nuovamente una prospettiva allettante per Washington.
Di fatto, come riportato nell’articolo citato, sin dal marzo dell’anno passato il Comando europeo degli Stati Uniti (EUCOM), sotto il quale ricade la “giurisdizione” su Turchia e Israele, aveva iniziato a mostrare non poche perplessità sull’effettiva realizzazione (e utilità) di uno Stato curdo in Siria. Al contrario, aprire la strada alla Turchia per una nuova operazione militare (la terza sul territorio siriano) avrebbe consentito agli Stati Uniti di ottenere il massimo vantaggio strategico possibile da una situazione divenuta estremamente complicata: ovvero, prolungare ad oltranza la destabilizzazione della Siria; favorire una potenziale ricomparsa dello Stato Islamico e minare il processo di pacificazione messo in atto a partire dai colloqui di Astana.
Va da sé che Washington, lasciando trapelare una certa divisione all’interno della NATO, ha dichiarato di non aver affatto dato il nulla osta all’offensiva turca. Tuttavia, il fatto che forze nordamericane stiano cercando di ostacolare la strada alle truppe siriane dirette a nord, verso Manbij e Ayn al-Arab (nota col nome di Kobane), lascia qualche dubbio sul fatto che non vi sia stata alcuna coordinazione tra i vertici militari turchi e statunitensi[1]. Un fattore che lascia poche speranze anche sulla reale natura dell’azione turca. Questa, infatti, lungi dall’essere esclusivamente mirata contro i gruppi legati al PKK (Partiya Karkerên Kurdistanê – Partito dei Lavoratori del Kurdistan) o alla costruzione di una (teoricamente temporanea) fascia di sicurezza al confine con la Siria profonda 30 km e lunga 480 km, ha l’obiettivo di garantire nuovo spazio di azione alle milizie variamente collegabili alla galassia islamista rinchiuse nella sacca di Idlib, le quali, non a caso, stanno accompagnando l’esercito turco nella sua avanzata sul suolo siriano. Dunque, l’obiettivo di Ankara è quello di arrivare ad un nuovo giro di colloqui del processo di Astana con un’ampia parte di territorio siriano sotto suo diretto controllo.
A ciò si aggiungano, a prescindere dalla minaccia di sanzioni alla Turchia ed al quanto meno ipocrita (se non più presunto che reale) blocco delle esportazioni europee di armamenti, i potenziali effetti (forse da taluni desiderati) che potrebbe produrre il coinvolgimento diretto di un membro della NATO in un conflitto contro uno Stato retto da un governo ritenuto “nemico dell’Occidente”. È cosa nota (seppur ignorata da molti analisti di geopolitica) che a partire dal gennaio 2018 è attiva in Turchia l’operazione NATO “Active Fence”, volta all’incremento della difesa aerea ed alla protezione del territorio turco da un potenziale “lancio di missili dalla Siria”. In particolare, Germania, Spagna, Italia, Olanda e USA hanno schierato le loro batterie missilistiche lungo il confine turco-siriano[2].
Per ciò che concerne la minaccia di sanzioni da parte dell’Unione Europea, è bene tenere a mente che oltre il 70% dei prestiti alle aziende turche provengono dalle banche europee e che molte aziende europee hanno delocalizzato la produzione in Turchia. Allo stesso tempo, la decisione italiana di bloccare l’esportazione di armi ad Ankara è completamente priva di senso se si considera che è l’Italia stessa a produrre armi all’interno dei confini turchi attraverso il gruppo Leonardo-Finmeccanica. Quindi, pare evidente che le presunte misure sanzionatorie non possono che rimanere sul mero piano propagandistico.
Ma c’è un altro fatto da tenere a mente. Dal momento del primo annuncio di ritiro statunitense sono trascorsi circa dieci mesi, in cui gli effettivi nordamericani sul suolo siriano non solo non sono diminuiti, ma sono addirittura aumentati. Tale aumento ha riguardato essenzialmente forze “mercenarie” (che hanno raggiunto il numero di 3500 unità) utilizzate al preciso scopo di saccheggiare le risorse petrolifere della Siria nordorientale e di addestrare le cosiddette Forze Democratiche Siriane (in larga parte composte da miliziani curdi) a svolgere il medesimo lavoro[3].
A questo proposito è importante riportare un altro fatto poco noto in “Occidente”. Nel luglio di quest’anno il quotidiano libanese Al-Akhbar aveva diffuso la notizia che l’uomo d’affari israeliano Mordechai Kahana (lo stesso che organizzò le trasferte siriane del senatore repubblicano John McCain) avrebbe fatto da tramite con le milizie curde e le forze di occupazione nordamericane per favorire la vendita (naturalmente illegale) del petrolio siriano ad Israele[4]. Inutile dire che, se ciò fosse vero, gli Stati Uniti avrebbero ampiamente violato la Convenzione di Ginevra che sancisce espressamente il divieto di saccheggiare le risorse di un Paese militarmente occupato.
Ad oggi, è difficile stabilire con certezza quali proporzioni assumerà il ritiro nordamericano. Taluni parlano di mille unità che verranno dislocate momentaneamente in Iraq; altri riducono il numero ad un centinaio di effettivi delle forze speciali che verranno spostati in altre località siriane[5]. Ciò che appare evidente è che non vi sarà alcun ritiro totale delle truppe nordamericane in Siria. Il ritiro statunitense è semplicemente limitato alle aree sottoposte all’operazione turca “Primavera di Pace”.
Il Segretario alla Difesa Mark T. Esper, infatti, ha fatto sapere che gli Stati Uniti non abbandoneranno in alcun caso la base di Al-Tanf, situata in un corridoio di fondamentale importanza strategica che collega Damasco a Baghdad. Donald J. Trump ed il suo consigliere per le questioni mediorientali (nonché genero) Jared Kushner non hanno spinto in alcun modo per il ritiro totale nordamericano. Ed entrambi sono persuasi del fatto che il mantenimento di truppe nell’area, a prescindere dalle roboanti affermazioni propagandistiche del Presidente, sia cruciale per la sicurezza di Israele e della Giordania e come deterrente per l’espansione iraniana in Siria[6].
Dunque, nel rispetto di una prassi consolidatasi sotto l’amministrazione Trump, gli Stati Uniti, ancora una volta, stanno semplicemente cercando di ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo, salvaguardando ed accrescendo, al contempo, la reputazione “antisistemica” del loro Presidente che sul mito dell’inesistente scontro con il cosiddetto “deep state” ha costruito parte delle sue fortune.
Questo “massimo risultato”, come già sostenuto, è la destabilizzazione ad oltranza della regione. E poco conta se la costruzione del pivot geopolitico curdo (centrale tanto nel piano sionista partorito da Odet Yinon nei primi anni ’80 quanto nel progetto “Grande Medio Oriente” dell’amministrazione Bush)[7], considerata l’attuale situazione di crisi del sistema egemonico statunitense, passa momentaneamente in secondo piano.
Lo scenario siriano, per quanto in scala ridotta, ben rappresenta l’attuale panorama geopolitico globale, con gli Stati Uniti, in grave deficit di potenza, costretti al mero contenimento strategico, ad azioni di sabotaggio ed allo spregiudicato utilizzo dei propri “alleati” tattici per evitare di perdere con troppa rapidità la sfida contro le forze multipolari.
In questo senso, l’accordo raggiunto tra l’Esercito arabo siriano e le forze curde era ampiamente previsto dal Pentagono che già da tempo era a conoscenza della sforzo russo di mediazione tra le parti[8]. Esso, infatti, pur rappresentando una svolta ed una ulteriore riconquista di territorio da parte di Damasco, potrebbe comportare una nuova recrudescenza del conflitto e, addirittura, portarlo ad un livello ancora più rischioso. Allo stesso tempo, pur favorendone l’intervento in modo velato, esporre la Turchia ad un potenziale fallimento in Siria non è affatto una soluzione che al Pentagono viene disdegnata.
Mosca, alla pari di Teheran, è ben conscia del potenziale destabilizzante dell’operazione turca ed ha reagito in modo gelido all’iniziativa di Ankara[9]. Tuttavia, il Ministro degli Esteri Lavrov, pur sottolineando l’assoluto appoggio a Damasco, ha già costruito le basi per una possibile soluzione diplomatica che cerchi di soddisfare gli interessi di tutte le parti coinvolte.
Ora, sul comunque nefasto ruolo curdo nel conflitto siriano è bene fare alcune precisazioni. Sul finire degli anni ’70 del XX secolo il Presidente siriano Hafiz al-Assad aveva garantito il proprio sostegno al PKK curdo e concesse asilo politico al suo capo Abdullah Öcalan, che assunse l’impegno di non fare alcuna rivendicazione sul territorio siriano[10].
Di fatto, fino al 1962, la popolazione curda presente in Siria era ridotta più o meno a 160.000 persone. Lo stesso progetto di creazione di uno Stato curdo patrocinato da Woodrow Wilson al termine della Prima Guerra Mondiale era limitato ad aree oggi comprese all’interno dei confini turchi. E, più o meno nel medesimo periodo, la Commissione King-Crane, che si recò in questa regione al preciso scopo di valutare la fattibilità di un simile progetto, si mostrò molto prudente sulla possibilità che gli Armeni potessero vivere all’interno di uno Stato curdo, essendo a conoscenza del ruolo che proprio i Curdi avevano svolto nel genocidio della popolazione cristiana della regione[11].
Con l’inizio del conflitto armato con il PKK, la Siria ha dovuto accogliere oltre un milione di rifugiati curdi dalla Turchia. Oggi, la presenza curda sul territorio siriano ammonta a circa due milioni di persone. Questi, nel contesto dell’attuale conflitto, dopo essersi inizialmente schierati dalla parte del legittimo governo di Damasco, hanno ceduto alle lusinghe degli Stati Uniti che avevano bisogno di un punto d’appoggio sul territorio siriano a seguito della progressiva capitolazione del cosiddetto “Stato Islamico”. Così facendo, si sono garantiti un’espansione territoriale senza precedenti in aree storicamente prive di presenza curda e, al pari di quanto avvenuto in Iraq, hanno effettuato brutali campagne di “pulizia etnica” contro la popolazione araba o di “curdizzazione” degli Assiri cristiani della Siria settentrionale. Senza considerare la costruzione di canali privilegiati per l’invio di miliziani gihadisti verso la regione di Deir ez-Zor, protagonista dell’eroica resistenza guidata dal generale Issam Zahreddine.
La mano che oggi Damasco tende ai Curdi (comunque cittadini siriani) è rivolta semplicemente a mantenere inalterata l’integrità dello Stato, nel momento in cui il Presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha sostenuto la necessità di rivedere l’accordo di Adana del 1998 (che sanciva il reciproco rispetto dei confini tra i due Paesi) al preciso scopo di garantire ad Ankara quella politica regionale di potenza che le era stata promessa sin dai tempi dell’amministrazione Obama.
NOTE
[1]Si veda US troops allegedly prevent Syrian Army from entering Kobani, www.southfront.org.
[2]Attualmente sono presenti sul territorio turco una batteria italiana ASTER SAMP/T ed una batteria di Patriot spagnola. Si veda http://www.esercito.difesa.it/operazioni/operazioni_oltremare/Pagine/Turchia-Operazione-Active-Fence.
[3]Si veda US is looting oil fields in Northeastern Syria, www.southfront.org. I giacimenti di idrocarburi sono diffusi su tutto il territorio siriano ma il 90% di quelli in effettivo grado di funzionare si trovano nelle aree occupate dalle truppe nordamericane.
[4]Si veda Arab paper reveals Syrian Kurds oil privilege to Israeli businessman, su www.farsnews.com.
[5]Si veda US withdrawal in Syria is only a small number of special operators, says Trump administration, www.militarytimes.com.
[6]Si veda Trump orders withdrawal of US troops from Northern Syria, www.nytimes.com.
[7]Entrambi i progetti prevedevano la parcellizzazione del Vicino Oriente lungo linee etnico-confessionali, in modo tale da facilitare la classica strategia del divide et impera.
[8]Già nel febbraio del 2016 venne aperto a Mosca un ufficio di rappresentanza delle Unità di difesa popolari curde (YPG – Yekîneyên Parastina Gel). E Mosca ha sempre sostenuto la necessità del dialogo tra Damasco e le forze curde che rifiutano il terrorismo.
[9]Il Presidente russo Vladimir Putin, al recente vertice dei Paesi ex-sovietici tenutosi ad Ashgabat in Turkmenistan, a questo proposito, ha lasciato intendere che la Turchia, a suo modo di vedere, non sia in grado di controllare il possibile risorgere dello Stato Islamico. Per questo motivo ha denunciato la potenziale destabilizzazione che potrebbe produrre l’operazione “Primavera di Pace”. Si veda Poutine en Asie centrale dénounce la déstabilisation islamiste de l’intervention turque en Syrie, www.histoireesociete.wordpresse.com.
[10]Öcalan rimase in Siria fino al 1998 quando venne firmato l’accordo di Adana tra il Presidente turco Suleiman Demirel ed il suo pari grado siriano Hafiz al-Assad. Tale accordo, nato a seguito della minaccia turca di scatenare una guerra totale alla Siria che ospitava i vertici del PKK come forma di rappresaglia per l’ostilità di Ankara nei confronti dei progetti di costruzione delle dighe sull’Eufrate e per le rivendicazioni sull’Hatay, garantiva il riconoscimento reciproco dei confini.
[11]Si veda The King-Crane Commission Report, August 28, 1919, consultabile su www.hri.org.
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