Per prima cosa, vorremmo che ci spiegasse l’importanza di una “cultura storica” nella corretta comprensione del mondo in cui viviamo e, in particolare, del futuro prossimo venturo che ci attende mentre si moltiplicano i segnali di una guerra devastante, la cui premessa sarebbero gli attuali “conflitti economici e finanziari”. La “futurologia” non è certo una ‘scienza seria’, tuttavia, una solida base di conoscenze storiche, e soprattutto di “lezioni” da trarre dalle vicende del passato (Historia magistra vitae), è fondamentale per non prendere le proverbiali cantonate e non stupirsi ogniqualvolta accade qualche “fatto” spacciato, con la consueta superficialità dei media, come strabiliante “novità” (si pensi ai “pirati somali”, ultima edizione di un fenomeno sempre esistito in varie parti del mondo in periodi di “instabilità”).
Purtroppo, anche la Storia come materia di studio, resa “noiosa” da una pletora d’insegnanti inadeguati, è sparita da quel bagaglio di conoscenze imprescindibili per un uomo che possa dire di disporre di una “cultura” (ma il problema riguarda in fondo tutta la formazione scolastica odierna). Per renderla “noiosa” si va da una Storia concepita come mero esercizio mnemonico ad un’interpretazione monocausale di tipo ideologico: tra chi ha passato la quarantina, alzi la mano chi non è stato torturato a scuola da insegnanti che nella concatenazione delle umane vicende mostravano agli studenti le “magnifiche sorti e progressive” della “rivoluzione proletaria”; oggi, invece, l’insegnamento della Storia serve a puntellare l’illusione che non domini alcuna ideologia, e che la “liberaldemocrazia” (“libero mercato”, “società aperta”, “diritti umani” ecc.) sia l’inevitabile esito del processo storico. Oppure, ad un livello universitario, vi è chi si perde nel particolare, nella ricerca minuziosa di dettagli più o meno insignificanti su ogni vicenda o periodo, senza mostrare agli studenti assetati di conoscenza il minimo comun denominatore di elementi apparentemente così diversi tra loro. Oppure vi è chi, privilegiando la “storia sociale”, quella delle “masse”, non propone più agli studenti, quasi per reazione “antielitaria”, quelle figure di giganti del pensiero e dell’azione ancora familiari in un’epoca in cui l’obiettivo di fondo era l’elevazione della personalità umana. E stendiamo un velo pietoso sia su chi vorrebbe che certi fatti non venissero indagati affatto e su chi ha reso la materia una sorta di necrologio, una contabilità di morti da addebitare all’avversario ideologico, a lode e gloria eterna di un “presente” liberaldemocratico concepito come ‘sospeso’ al di fuori dal tempo e perciò al di fuori di ogni “giudizio storico”.
Insomma, talvolta sia ha l’impressione che i dominanti abbiano una gran paura della Storia e delle “lezioni” che questa può dare. La mia sensazione è che più si è ignoranti al riguardo dei fatti storici ed incapaci di ricavarne un “insegnamento” e più il presente ci diventa incomprensibile. È un’impressione sbagliata? La manipolazione delle coscienze fa leva anche su una diffusa ignoranza al riguardo dei fatti storici?
La tua domanda esige una risposta ad arco allargato, per così dire. Come premessa: oggi, fare storia deve per forza essere sinonimo di fare scandalo.
Il conformismo è, da sempre, nemico della verità e dell’impegno civico. Specie quello che passa nei manuali scolastici e nelle idées reçues. E soprattutto quello che per illegittima difesa di poco nobili interessi e di chiarissimi obiettivi di potere pretende addirittura di venir tutelato dalla legge, sottraendo temi e problemi storici alla discussione e alla ricerca per farne oggetto di immobili dogmi attentar ai quali sarebbe un crimine.
La verità storica non è un dato assoluto né incontrovertibile: essa dipende sempre e comunque dalla ricerca, dal progresso tecnico e metodologico della ricerca, dalla libertà della ricerca. Una componente necessaria di tale libertà di ricerca è la verifica, la revisione, quando è necessario la ritrattazione. Uno storico serio, oggi, deve rivendicare con fierezza il diritto di rimettersi in causa se ritiene di avere sbagliato e di cambiar idea tutte le volte che ciò sia reso necessario dall’evidenza dei risultati delle ricerche. È necessario essere revisionisti in tutto e per tutto, a trecentosessanta gradi. Per parafrasare il grande Shakespeare, se c’è qualcuno che vuol vivere di rendita e aver sempre ragione nascondendo la sua ignoranza e la sua malafede dietro la pretesa che le sue menzogne vengano difese da leggi assurde, che si faccia avanti e che parli: perché è lui che noi sfidiamo.
Ma in queste condizioni oggettivamente sempre più asfissianti, con l’accusa di “revisionista” che pende sempre sul capo di qualche studioso scomodo, può ancora continuare il lavoro di uno storico onesto per prima cosa con se stesso? E a cosa può servire?
Siamo in un periodo di crisi. Che cosa rappresenta, in esso, la storia? Sarà possibile domani la prosecuzione del lavoro dello storico? A che cosa servirà? Ed è poi detto che debba poi “servire” a qualcosa, oppure l’impostare in tal modo la faccenda appartiene alla pervicace mentalità utilitaristica, uno degli ultimi e più odiosi residui della (per fortuna) morente Modernità?
È sempre più comune avvertire, nelle scuole come nella società, il fastidio e l’insofferenza per la storia, “materia inutile”. Certo, la storia non è – come disciplina scientifica, ammesso che lo sia – una scienza pura. Anzi, è piuttosto problematico al giorno d’oggi comprendere chi parla di “uso strumentale” e addirittura di “abuso della storia”: con ciò facendo senza dubbio un discorso legittimo, solo a patto però di mettersi dalla parte degli “scienziati puri della storia”, convinti del suo valore scientifico obiettivo. Ma chi crede a ciò fino in fondo, o sostiene di credervi, appartiene a un gruppo sempre meno numeroso. La storia è per sua natura “scienza impura” e “applicata”, nata non tanto per conoscere quanto per disciplinare la memoria indirizzandola a un suo uso selezionato: opus maxime oratorum, appunto. Non è certo un caso se la storia è stata a lungo, con lo storicismo otto-novecentesco, un esempio di disciplina “obiettiva” che peraltro, nelle scuole, serviva anzitutto quale fondamento della costruzione di un progetto dato di società civile: nella storia dell’Italia unita, le discipline storiche sono state fondamentali, nelle scuole, soprattutto nel periodo postunitario e poi durante il fascismo, per trasmettere modelli (quali le libertà comunali, o la lotta per l’affermazione di valori laici contro l’autoritarismo ecclesiale, o la grandezza dell’antichità romana quale fondamento per le aspirazioni morali e politiche della nuova Italia fascista).
Ma oggi tutto ciò appare molto lontano… come appartenente ad un’epoca – e ad un relativo “sentire” – chiusasi definitivamente.
Ormai, non si crede più che la storia abbia un fine e che possegga un’intrinseca ragione, un “senso” e una “direzione” teleologici. Sarebbe pertanto interessante riaprire anche il dibattito relativo alla cosiddetta “filosofia della storia”. A che punto è, al riguardo, la notte?
La filosofia della storia continua a possedere ancor oggi, secondo alcuni, un sia pur contestato carattere scientifico: vale a dire che si tende a riconoscerle lo statuto di una forma di sapere metodologicamente e razionalmente ordinata, scopo della quale è lo studio della fenomenologia della dinamica degli avvenimenti, delle istituzioni e delle strutture che hanno caratterizzato nel tempo la presenza dell’uomo sulla terra e la riflessione che egli a proposito di quelli ha prodotto ordinando e disciplinando il continuum indistinto della memoria e conferendo a questa e a quelli un senso, o chiedendosi comunque se questa e quelli hanno un senso e una ragione.
In molte culture dell’antichità e in molti sistemi mitico-religiosi ancor oggi viventi, lo sviluppo della storia è stato inteso come in qualche modo collegato, se non soggetto, all’ordine cosmico e/o alla volontà degli dèi. La Bibbia traccia una “storia sacra” del popolo d’Israele e dell’umanità alla luce della Creazione, della Rivelazione e del volere di Dio. Nell’Islam, il cosmo e la storia sono soggetti alla volontà di Dio l’onnipotenza del Quale è non già ordinata – come nell’Ebraismo e nel Cristianesimo, secondo i quali il Creatore si assoggetta ordinariamente alle norme che Egli stesso ha emanato con la Creazione, pur riservandosi il diritto di derogarne quando voglia (per mezzo del miracolo) – bensì assoluta. L’imperscrutabilità del volere divino fa comunque sì che, nelle tre religioni di ceppo abramitico, qualunque tentativo di comprendere il senso e la ragione della dinamica storica sia destinato a fallire. Se Ebraismo e Cristianesimo possono comunque convenire che la storia abbia un senso trascendente, in quanto parte del disegno divino, nell’Islam tale disegno non è affatto necessariamente ipotizzabile, in quanto il carattere fondamentale dell’onnipotenza divina è la più assoluta libertà, che l’esistenza stessa di un piano preordinato potrebbe compromettere. Tutto ciò implica che, in ambito cristiano, sia possibile una “teologia storica”, che – come ben possiamo verificare da Aurelio Agostino a Henri-Irenée Marrou – indaga sul senso della dinamica degli accadimenti umani alla luce appunto del disegno divino. In tale prospettiva, la teologia cristiana ha recuperato molti elementi della filosofia greca e romana relativa all’ordine delle cose storiche, alle età della storia dell’uomo, al concetto (che già troviamo fin dalla filosofia indiana di età vedica) dell’usurarsi e del corrompersi successivo delle differenti ere: ma al mito dell’Eterno Ritorno dell’Uguale, Ebraismo e Cristianesimo (in ciò seguiti dall’Islam) hanno sostituito un’Apocalisse, vale a dire una Rivelazione finale che coincide con la Fine dei Tempi.
Questa visione provvidenzialistica della storia, che ne collega l’intendimento alla teologia, viene compromessa nella storia della Cristianità occidentale sia dalla riflessione sempre più approfondita sul Libero Arbitrio umano, sia dal progressivo conseguimento, da parte della filosofia, di uno statuto di scienza autonoma, non più ancilla theologiae: tale nuova dinamica ha preso avvio dalla scolastica, cioè dal XII-XIII secolo.
La filosofia della storia come ricerca della possibilità d’intendere un senso e una ragione immanenti nella storia è pertanto uno degli elementi che caratterizzano la genesi della Modernità. Spetta con ogni probabilità al Voltaire l’aver parlato per la prima volta di “filosofia della storia”, in un suo scritto del 1765 dal titolo, appunto, La philosophie de l’histoire. Dopo i tentativi di sistemazione settecentesca, dal Condorcet al Vico, e la reazione del Rousseau che negò alla storia qualunque forma di razionalità e di moralità, spettò tuttavia ad Hegel, e quindi al Comte, l’impostare i caratteri della storia umana come dotata di una sua intrinseca razionalità immanente e quindi di una teleologia, di un suo fine razionale e razionalmente analizzabile.
La più lucida formulazione storicistica, vale a dire di una dialettica storica dotata di una sua intrinseca razionalità immanente, etsi Deus non daretur, è ovviamente costituita dall’interpretazione materialista della storia elaborata da Marx e da Engels (l’espressione materialistische Geschichtsauffassung si deve propriamente a quest’ultimo). Spetta soprattutto a Nietzsche, a Berdjaev e a Foucault l’avere – da differenti punti di vista – attaccato l’edificio deterministico hegeliano-marxiano-comtiano della razionalità immanente della storia, che si era andato proponendo come una vera e propria “teologia laica”. Un’estrema ripresa delle istanze teleologiche, a sua volta accompagnata da una proposta di “apocalittica laica”, si è configurata nel saggio edito nel 1992 da Francis Fukuyama, The end of history and the last man, che concependo le vicende dell’umanità come universalmente unidirezionali e collegandole anzitutto allo “spirito della scienza” e al “desiderio di riconoscimento” riteneva che la forma di convivenza più perfetta e definitiva dell’uomo fosse il liberalismo democratico, e che una volta ad esso pervenuta non restasse all’umanità se non “amministrare l’esistente”: con ciò, appunto, uscendo dalla storia intesa come mutamento. I fatti immediatamente successivi a questa maldestra profezia apocalittica travestita da riflessione “scientifica” hanno condotto lo stesso Fukuyama a modificare profondamente il suo pensiero nei saggi The great disruption (1999) e Our posthuman Future (2002), nel quale sostiene il pericolo che le ricerche eugenetiche e biogenetiche possano minare gli stessi ideali progressisti della democrazia liberale attraverso un radicale mutarsi della stessa natura umana. Una risposta neostoricistica e ottimistica all’ultimo Fukuyama si è configurata nel saggio Storia e destino di Aldo Schiavone (2007).
Com’è noto, nel saggio Nuovo Medioevo (Berlino 1923; tr. it. Roma 2004) Berdjaev ritiene che la “luce diurna” della Modernità avviata nel Rinascimento abbia fallito nel suo scopo fondamentale, la promessa di liberare l’uomo, e che ci attenda l’oscurità di un “Nuovo medioevo” che comporterà la rinascita di una lotta religiosa secondo “princìpi estremi”.
Un pensatore attualmente sulla cresta dell’onda, Zygmunt Bauman, sostiene che alla “Modernità solida” che si è andata affermando in Occidente dal secolo XVI (e che dell’Occidente ha costituito il nucleo sostanziale), vale a dire l’individualismo, il razionalismo, il mito di progresso e il primato dell’economia e della tecnologia, si è sostituita negli ultimi tempi la “Modernità fluida” – il Postmoderno –, caratterizzata dalla perdita di fiducia in tutte quelle cose: il segnale è stato dato dalla fine delle ideologie, quindi dalla crisi di mancanza di punti di riferimento ai quali potevamo appoggiarci ritenendoli – a giusto titolo o meno – “verità obiettive”.
È quel che potremmo dire “la fine di un’illusione”, da considerare senz’altro in termini disincantati perché “illudersi” non fa mai bene (segue infatti inesorabilmente una “delusione”). Ma non c’è il rischio che nuove presunte “verità obiettive”, vadano a sostituirsi a quelle in cui, pian piano – senza versare troppe lacrime – non si crede più in questa cosiddetta epoca “post-moderna” (il fatto che la si definisca così, premettendo a “moderno” un semplice “post-“, è indice del fatto che non si riesce ancora a coglierne i tratti salienti)? E non resta aperto il problema più grande ed impellente, quello del “senso”, al quale, seppur abusivamente, anche la storia aveva tentato di dare risposta?
Sotto un cielo vuoto, senza più dèi né eroi, “condannati” a vivere la nostra libertà come infinita possibilità di muoverci in qualunque direzione ma privi di mappe, di bussola e addirittura di luce (naufraghi in alto mare e in una notte senza stelle), siamo costretti a provar a riannodare le fila di un discorso che sia davvero “culturale” nella misura in cui dovrà aiutarci a ritrovare un senso da dare alla vita e al mondo. Ma ciò equivale – e dobbiamo esserne consapevoli – a uno scopo davvero, e profondamente, “antimoderno” e “contromoderno”: dal momento che la Modernità (cioè l’Occidente: i due termini sono sinonimi) si è costituita appunto negando progressivamente che la vita e l’universo avessero un senso e un fine, riducendoli a fenomeni fisici e meccanici: il che consentiva di ritenere l’una e l’altro anche privi di un limite. La perdita del “senso del limite” è stata appunto caratteristica della dinamica della Modernità. In ciò è costituito il cosiddetto “processo di secolarizzazione”. Negando senso e scopo alla vita e al cosmo, gli occidentali moderni sono stati costretti a concentrare le loro energie e i loro bisogni teleologici su un nuovo oggetto da investire di senso: e hanno elaborato un senso, vale a dire una “ragione immanente”, da attribuire alla storia. Ma la fine delle ideologie li ha privati anche di ciò.
E allora s’impone, come avrebbe detto quasi un secolo fa Vladimir Ilich Ulianov, un pratico e urgente “Che fare?”.
Se vogliamo davvero ricostruire il nostro universo culturale, il nostro programma di massima consisterà nel riconferire un senso e uno scopo alla vita e al cosmo, ribadendo al tempo stesso il nostro disincanto nei confronti della storia, la quale appunto non ha alcun obiettivo senso immanente. Recuperata così la consapevolezza che l’essere umano ha una missione da compiere in terra, e al tempo stesso è libero da qualunque legame deterministico con la storia, quel che ci rimane da battere è la radice ultima e profonda dell’egoismo, dell’ingiustizia e della violenza: l’individualismo. Ma siccome tale programma di massima è enorme – si tratta di quel che i greci chiamavano metanoia e di quel che legioni di riformatori, di profeti e di utopisti hanno sognato: l’edificazione dell’Uomo Nuovo -, accontentiamoci di quello di minima: la ricostruzione di “centri di reciproco ascolto e di comune convivenza”, vale a dire di comunità nelle quali si faccia cultura.
Ma, sia chiaro, questa non è la proposta di un severo accademico che da un lato non abbia alcuna intenzione di rinunziare alla sua turris eburnea nella quale si elabora l’autentica storia scientificamente intesa e dall’altra intenda in qualche modo recuperare alla sua corporazione il prestigio che essa aveva in passato nella società civile e oggi non ha più. Queste sono le considerazioni di un reazionario-eversivo, convinto che la Verità esista ma che appartenga a Dio solo e che il “vero oggettivo” sia nelle cose umane qualcosa di esistente ma inconoscibile, mentre il “vero storico” muta di generazione in generazione non perché muti magari in sé, ma perché mutiamo noi, i nostri strumenti conoscitivi, gli obiettivi della nostra etica e del nostro immaginario e magari anche la nostra struttura biogenetica; ed esso non ha alcun senso, quindi non è per nulla prevedibile; anzi è governato dall’incontro continuo di componenti fra loro eterogenee (umane, ambientali, cosmiche) e dal rapporto tra tutte loro e quel che Vilfredo Pareto chiama “l’Imponderabile” e i maghi di Faraone, nell’Esodo, definiscono Izbah Elohim, “il Dito di Dio”. Il quale, per me credente, resta anzi il vero, unico, autentico protagonista della storia: ma è imprevedibile e inspiegabile.
Sia dunque ben chiaro che questo continuo mutare del “vero storico” e questa sua imprevedibilità comportano il bisogno, la necessità e l’inevitabilità di concepire la ricostruzione storica, il “lavoro” dello storico, come ridefinizione continua, quindi come revisione continua, al di là degli attacchi isterici a proposito del cosiddetto “revisionismo”. La mia è una proposta provocatoria, eversiva e nihilista, i padri storici della quale sono Berdjaev e Nietzsche, ma che si radica su una coscienza profondamente provvidenzialistica. Chiunque vorrà entrare nel dibattito che queste righe intendono accendere è tenuto a non fingere di non aver rilevato il paradosso che ne sta alla base, l’ossimorica unione di nihilismo e di provvidenzialismo.
Una “dichiarazione di guerra” che non troverà molti consensi tra gli “intellettuali” più o meno cortigiani…
È evidente che un tipo di ricerca di “verità storica” come questa dia fastidio a qualunque tipo di potere costituito. Infatti non sta al gioco della sostituzione della Verità trascendente – che nel parere diffuso degli occidentali non c’è più – con “verità” secolarizzate, come il progresso verso la democrazia, i diritti umani o roba del genere: cioè con verità alla luce delle quali sia facile imporre la manipolazione dei governati da parte dei governanti o comunque dei detentori del potere. La “Modernità solida” (direbbe Bauman), avendo negato un senso al cosmo e alla vita, non poteva rinunziare a dare un senso alla storia; la fine delle ideologie l’ha colpita mortalmente. La negazione di un senso immanente nella storia, quindi di uno scopo e della possibilità di rifondare una teleologia su base laica, colpisce obiettivamente qualunque potere costituito. Alla manipolazione che ancor oggi viene proposta dai padroni del potere è necessario opporre una versione aggiornata del disincanto weberiano, magari utilizzando anche gli strumenti forniti dal decostruzionismo alla Derrida. Se la secolarizzazione della storia ha paradossalmente condotto a una “risacralizzazione laica” a un “reincanto laico del mondo” fondati sul primato dell’individualismo, dell’economia, della tecnologia e della scienza, il disincanto consisterà nel mostrare come tali obiettivi siano maschere sovrastrutturali di una realtà strutturale della civiltà occidentale: la Volontà di Potenza e la cancellazione della “cultura del limite”.
Dunque, ricapitolando, la “verità storica” è sempre una versione, una ricostruzione di comodo degli eventi del passato, di alcuni fatti preferiti, sovrastimati, addirittura inventati, rispetto ad altri, con questi ultimi che non di rado vengono completamente taciuti perché “scomodi”. Per “verità storica” mi riferisco a quella che viene presentata come tale nelle scuole attraverso i “libri di testo” (con la lodevole eccezione di qualche docente “illuminato”), e che per i più – che al massimo in età adulta guarderanno solo qualche documentario in “prima serata” rinforzandosi nella medesima “verità” – resterà per tutta la loro vita un sicuro “punto di riferimento” (“buoni” contro “cattivi”, riducendo all’osso) da integrare con tutti gli altri elementi del ‘corredo del bravo cittadino democratico’. Lei ha comunque tenuto correttamente a sottolineare che in epoca moderna (quella della scolarizzazione di massa, più specificatamente), la storiografia ha sempre servito interessi pratici: la “storia patria” s’inseriva, durante il periodo fascista, nel tentativo di “creare gli italiani”, ed ovviamente in ciò si produceva in evidenti forzature (ad esempio le “rivolte dei Comuni contro l’Impero”, lette come i primi albori della “coscienza nazionale”). Tuttavia, siccome al peggio non c’è mai fine, va detto che in seguito siamo riusciti a far prevalere una storiografia ancor più insopportabile nella sua unilateralità (all’epoca, almeno, vi era il desiderio di “migliorare” una comunità)… La dimostrazione che comunque la storiografia moderna tout court serve solo e sempre obiettivi pratici (verrebbe da dire che è tutta la “scienza moderna” rivolta al perseguimento di tale scopo, il che la svaluta automaticamente in quanto pseudo-scienza) la si ha anche quando si scorre qualche pubblicazione d’argomento storico, sempre d’epoca fascista, nella quale si analizza, con una franchezza ed una spregiudicatezza mai più riscontrata in seguito, la politica estera dell’Inghilterra, “la Perfida Albione”… Libri del genere non sono più stati pubblicati, ma – al di là del fatto che ciò ci possa dispiacere o meno – questa è proprio una dimostrazione del fatto che la storiografia moderna rende sempre una “verità” di comodo: c’era la guerra, o eravamo in procinto di farla, con l’Inghilterra, pertanto si scoprivano i classici “altarini”… Con la cosiddetta “liberazione” (da noi stessi), certe affermazioni, o meglio un’analisi così lucida ed istruttiva (perché mette in guardia su quel che continuano a fare!) delle strategie e degli obiettivi della politica estera delle “grandi democrazie” non si sarebbe più letta nella saggistica storica ad ampia diffusione (oggi viene concessa l’illusione del “mercato delle idee”, grazie a piccole ma introvabili – grazie alla censura di fatto della distribuzione in libraria negata – case editrici).
Pertanto, rebus sic stantibus, c’è poco da stracciarsi le vesti che il “revisionismo” sia la “colpa capitale” per uno storico moderno. Finché esistono determinati assetti di potere, coi ceti dominanti al loro posto, e l’ideologia che li sorregge giustificandoli agli occhi della massa (la quale in fondo condivide i valori dei dominanti), “revisionare” il passato s’avvicina molto al peccato di “eresia”! L’eretico per così dire “classico” non esiste più, semplicemente perché non vi è più la credenza diffusa in una verità religiosa, ma a quella figura da mettere in condizione di non nuocere (rogo, tortura, esilio ecc.) se n’è sostituita un’altra, quella dell’intellettuale scomodo, dell’esule in patria, dell’uomo di cultura che non si piega alla riproduzione di una “verità” intimamente sentita come falsa ed ipocrita, al servizio di abominevoli ed inconfessabili interessi pratici, e che per questo viene guardato dalla corporazione degli “accademici” (di centro, destra e sinistra, in tutte le loro gradazioni) come una specie di “terrorista”.
Eppure, se una verità religiosa traduce nei termini suoi propri una Verità d’ordine metafisico, “La Verità”, ed è perciò giusto – e ribadisco giusto – che venga difesa da chi è preposto a tale compito (perché ha le qualificazioni per farlo) per salvaguardare non tanto la Verità stessa – che non ha bisogno di essere difesa perché non può ricevere pregiudizio – quanto la società dallo “scandalo”, ovvero dalla corruzione e dall’empietà, una “verità” di tipo storico com’è quella imposta attualmente appare sinceramente un’oscena ed insopportabile farsa. Ma non ci si deve sorprendere più di tanto, poiché come Lei ha opportunamente ha rilevato la Storia – come in una progressiva “solidificazione” del mondo che ha prodotto anche la “superstizione del fatto” – è stata elevata ad un rango che non le compete affatto: dalla “cronaca dei fatti” ad un simulacro di “teologia”. È dunque “coerente” che i “chierici” di tale pseudo-verità sancita attraverso una “versione ufficiale” si adoperino, mettendo in atto ogni meschino artificio (compreso quello cosiddetto “legale-repressivo”, che per fortuna in Italia non è ancora all’opera) per silenziare e rovinare gli “eretici”.
Se questa società “democratica” fosse davvero la “palestra di libertà” che tanto declamano i suoi (vezzeggiati e privilegiati) apologeti, non vi sarebbe nulla di strano nel proporre l’insegnamento della Storia, nelle scuole, secondo un metodo “utopico” che mi ha sempre affascinato: proporre agli studenti, da non considerare come dei contenitori da infarcire d’ogni cosa “utile” alla replicazione del consenso, lezioni seminariali sui vari fatti, argomenti, periodi storici, in ciascuno dei quali uno specialista propone la sua particolare “versione”, senza esclusione di alcun punto di vista. Un mondo davvero “libero” non avrebbe alcun timore d’un insegnamento concepito in questo modo. Senonché si racconta la favola che il docente ha il compito di sottoporre ai suoi allievi tutti i punti di vista, gli avvenimenti nella loro estrema complessità: il che non solo non si verifica, ma è praticamente impossibile, perché ciascuno, anche il più onesto di noi, ha le sue predilezioni. Dunque, sarebbe molto più “onesto” proporre fatti, argomenti e periodi storici in forma di cicli seminariali a cura di un novero il più variegato possibile di docenti, tutti preparati, è pacifico, ma ciascuno intento a raccontare il passato dalla propria angolazione visuale.
Invece, oggi si assiste ad un restringimento degli orizzonti, all’esclusiva ribalta per un solo punto di vista, ripetuto ossessivamente – non a caso l’insistenza sulla “memoria”, in una parodistica versione della “menzione” di Dio, del Principio – anche con gli altri strumenti che il sistema liberaldemocratico ha sviluppato per creare il consenso (il cinema, ad esempio, con gli spettatori che vedono un film e credono di essersi letteralmente affacciati da una ‘finestra sulla storia’! Ma senza sottovalutare il modo di vita stesso degli uomini contemporanei, il quale rinfocola a sua volta le loro “credenze”, tra cui quella in una data “verità” storica).
Mi chiedo, a questo punto, se non sarebbe nettamente preferibile una storiografia “anagogica”, traente verso l’alto, la cui missione cioè sia quella di elevare, non di “informare” o di sviluppare il famoso “spirito critico”. La storia tramandata delle grandi figure di riferimento di ciascuna civiltà tradizionale è da questo punto di vista esemplare: nell’ultima di queste, quella islamica, la biografia del Profeta Muhammad non deve rispondere ai canoni della moderna “critica storica”, ma deve piuttosto tramandare un “modello” di uomo, quello dell’“uomo perfetto”. Questo concetto, in fondo, se non fosse intervenuta la “modernità” (dimenticanza progressiva dell’Origine e compressione nel piccolo “io”), dovrebbe essere familiare anche ad un cristiano, che dispone del Cristo quale esempio di “uomo universale”.
Invece, gli storici che fanno proprio il metodo “moderno” dell’indagine storica devono sistematicamente, per ‘deformazione professionale’, andare a trovare “difetti”, “crimini”, pescare nel torbido più o meno psicanalitico, anche dei santi, semplicemente perché essi stessi non sono interessati alla Verità, ma innamorati del loro ego. Per questo non concepiscono neppure alla lontana che possano esistere dei modelli virtuosi di comportamento dotati della forza, investiti della grazia, di trarre verso l’alto coloro che sono in grado di meditarli ed integrarli col proprio essere “per imitazione”. No, per lo “spirito critico” esistono solo la certezza del dubbio (l’ossimoro è voluto) sulle possibilità dell’uomo di tendere vero la perfezione e la complementare (ma mai francamente ammessa) convinzione che l’unico “modello” cui riferirsi sia il proprio “io”, il tutto traducendosi in un irrimediabile generale abbassamento in una palude di ‘naufraghi esistenziali’.
Ecco, di fronte a questa situazione, il mio essere più profondo si ribella. Voglio gli eroi e voglio conformarmi ad essi! E se proprio dobbiamo accontentarci di una storiografia asservita ad interessi pratici, che almeno si moltiplichino gli atti di “disobbedienza civile” da parte di docenti che non tollerano più di ripetere a pappagallo un’ignobile menzogna, la quale, per giunta, non concorre – come osservato – a formare dei “caratteri”, bensì delle persone completamente molli ed inconsistenti, tanto sono educate a macerarsi nei “sensi di colpa”.
La Sua seconda questione riprende, amplia e approfondisce alcuni temi che erano, o stavano sottintesi, nella mia prima risposta. Le fornirò pertanto una risposta riassuntiva, sintetica, per essere più chiaro. Credo che per capire meglio il dramma della storia basti fare appunto “la storia della storia”, che nasce già facendo emergere, con Erodoto, la sua contraddizione di fondo. Dinanzi alla memoria sacralizzata e solennizzata, quella delle memorie monumentali a sostegno del potere (del Faraone o del Gran Re), cioè dinanzi a quella che Attilio Mordini avrebbe definita “le retorica della storia”, Erodoto replica proponendo una semplice, onesta, ben sorvegliata “ricostruzione degli avvenimenti”. Essa serve a disincantare la solenne rievocazione di eventi utili alla gloria divina o regale, che è Mito e che come tale richiede un Kerygma. La storia distrugge il mito riconducendolo al fluire delle cose che non ha alcun fine, quindi non può avere alcun significato.
Ma la frode (e la contraddizione) si presenta (si presentano) subito, allorché quella storia privata di senso sacro cerca essa stessa un senso da riproporre: un cammino di liberazione, un “destino manifesto”, una fine che sia sempre anche un fine, uno scopo da raggiungere. Questa è la mistificazione della storia, nel senso etimologico: la trasvalutazione dei valori tra evento storico rilevato in quanto tale e tentazione teleologica. Quel che la filosofia idealistica propone, nel suo incontrarsi con la scienza positivista durante la seconda metà del XIX secolo, è una prospettiva storica scientifica, nella quale quel che accade è bene in quanto accade, e accade in quanto è bene che accada. Questa è la storia divenuta grottesco succedaneo della teologia, contro la quale vale per intero, dalla testa ai piedi, la critica annientatrice della Seconda Considerazione sull’Utilità e il Danno della Storia di Nietzsche. Ma una volta abbandonati i lidi della storia
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