A cinque mesi dall’inizio delle pressioni che stanno interessando la Siria non si è ancora assistito al cedimento di un regime che risulta più solido di quanto ci si aspettasse. A tal punto risulta opportuno interrogarsi sulla natura di tali avvenimenti, quantomeno per formulare alcune ipotesi realistiche sugli avvenimenti stessi, nonché sul futuro prossimo della Siria.
La pressione interna viene svolta da una opposizione di cui ancora non si riesce a delineare i caratteri, sia in termini di composizione che di organizzazione e leadership. Per quanto attiene le sue componenti, queste si dividono principalmente tra (a) vecchi membri dell’establishment fino al 2005, (b) affiliati al sunnismo radicale e (c) coloro che si schierano contro l’attuale sistema per questioni di vario genere (personali, locali, tribali e ideologiche). Tra questi ultimi, inoltre, si è da più parti constatato come siano confuse in un unico calderone tendenze differenti, quando non addirittura divergenti: la pacifica richiesta di riforme in conformità con il processo riformatore in atto da un decennio, da un lato, e le azioni armate, dall’altro (a tal proposito vale la pena notare come le autorità siriane abbiano sempre negato la responsabilità delle uccisioni di manifestanti pacifici, attribuite al contrario ad agenti provocatori esterni che intendono seminare il caos). Inoltre, allo stato attuale, non risulta esserci una leadership, né si è palesata alcuna organizzazione capace di esprimere un’opposizione omogenea e diffusa.
All’assenza di una reale opposizione interna fa da contraltare la direttrice esterna, decisamente più organizzata e incisiva, scomponibile in due elementi: i consueti strumenti internazionali di pressione e interferenza di carattere economico e politico (sanzioni, restringimento visti, congelamento beni, ecc.) e lo strumento mediatico-propagandistico rappresentato principalmente dalle televisioni satellitari. Quest’ultimo fattore sta giocando il ruolo più importante nel porre la Siria al centro dell’arena mondiale. Tuttavia, si sta assistendo ad una costante distorsione degli eventi, quando non della loro invenzione. Alcuni casi riguardanti al-Jazeera, al-Arabya e altri canali sono ormai diventati famosi a Damasco e in tutta la Siria: immagini di una giornata assolata attribuite ad un venerdì nuvoloso caratterizzato da pioggia e grandine; immagini di manifestanti anti-governativi, ma in presenza di bandiere yemenite; il caso del venticinquenne Zakariya Mitleq, residente di Homs, portato a testimoniare in diretta telefonica sulla Bbc contro le forze di sicurezza, in compenso di un passaporto e di un lavoro in Arabia Saudita.
A tutto ciò va aggiunto come molte delle notizie distorte puntino a sottolineare un carattere “settario” e “confessionale” del regime siriano, il cui vertice appartiene alla minoranza alawita. Tuttavia la storia contemporanea della Siria non ha mai assistito ad una contrapposizione interconfessionale o interetnica. Al contrario, il carattere laico dello Stato e lo spirito di appartenenza nazionale si sono sempre dimostrati prioritari rispetto a religione ed etnia. La pacifica convivenza è stata sempre incoraggiata dal regime, ben conscio della pericolosità di uno scontro a carattere confessionale in un Paese nel quale le differenti comunità non si contano sulle dita di due mani. La presa di coscienza di questo dato di fatto basta da sé per dubitare della veridicità di alcune notizie passate per i canali satellitari nei quali si imputa al regime la volontà di provocare uno scontro che, nei fatti, è il pericolo più grande che il regime di Damasco intende evitare.
In conclusione, alla luce di una serie di circostanze (lo scarso consenso popolare ottenuto dagli oppositori, gli attacchi armati condotti contro le forze di sicurezza, le uccisioni “sospette” dei manifestanti, l’esaltazione mediatica di un inesistente scontro a carattere confessionale) pare verosimile l’ipotesi che attribuisce agli oppositori (interni ed esterni) la volontà di suscitare uno scontro interconfessionale che conduca ad una situazione caotica nella quale il regime perderebbe il controllo della situazione. Resta dunque da capire se il regime riuscirà a scongiurare questa eventualità o se, in caso contrario, sia ragionevole auspicare un futuro di guerra civile nel cuore del Vicino Oriente.
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