Un’applicazione pedissequa dell’ideologia liberista così come proposta dai suoi teorici (Hayek, Friedman, Leoni ed autori analoghi) prescriverebbe un marciare progressivo verso l’annullamento quasi completo delle strutture dello Stato per lasciare libere di esprimersi le forze del mercato – fino, nelle teorizzazioni più estreme, al quasi dissolversi dello Stato stesso inteso come monopolista originario della forza cogente della legge e da sostituirsi con un’ottica di puro contrattualismo tra parti e con lo “Stato minimo”. E’ evidente che una simile visione estremistica non si sia mai realizzata nella storia e che anzi, anche considerando gli effettivi interventi di riduzione del peso dello Stato in economia attuati da Margaret Thatcher, i governi che si sono ispirati al liberismo-ideologia non abbiano mai voluto rinunciare al ruolo dello Stato come primo centro di potere se escludiamo il governo russo del periodo El’cin – tutt’altro che il governo di un paese sovrano, stabile ed autonomo. Non si vuole negare che il liberismo-ideologia esista: non si capirebbe altrimenti come mai ancora oggi, dopo una crisi che nasce dai mercati e dalla loro deregolamentazione il mercato venga ancora presentato come stella polare dell’agire politico. La Cina che svaluta lo Yuan viene additata come violatrice delle sacre regole del mercato ed essa stessa si difende ricordando che è proprio in ossequio ai mercati che opera la svalutazione medesima. I politici mondiali si dichiarano dunque sempre rispettosi del mercato salvo poi fare tutt’altro, così come i regnanti medievali si proclamavano difensori della Fede Cristiana senza che questo impedisse loro di vivere da dissoluti.
Cosa crea il mercato? Le regole dello Stato e anche la deregolamentazione da questo attuata – come già intuiva il grande economista Karl Polanyi (1). Perché lo Stato sceglierebbe di deregolamentare un determinato ambito economico? Per migliorare il proprio mercato e il proprio sistema-paese al fine di attirare maggiori capitali. Quindi per la nazione stessa. Perché uno stato impone agli altri stati mercati aperti – come i governi coloniali ieri e quelli imperiali oggi, dal Regno Unito agli USA fino all’UE egemonizzata dalla Germania? Non dubitiamo che una componente di fiducia nel liberismo-ideologia sussista, ma realisticamente non possiamo pensare che solo nel nome di un’ideologia sia stata creata la globalizzazione tramite il WTO, la MIFID e, temiamo, il TTIP. Si tratta in realtà di stati forti che impongono politiche a quelli deboli ottenendo l’apertura di nuovi mercati a sistemi-paese più competitivi e con imprese nazionali più efficienti. Il sorgere di potenti attori non statali non ha eliso o limitato il ruolo dello Stato, anzi, ha fornito a questo nuove opportunità. Potremmo impostare una lunga riflessione partendo dagli esempi: Ronald Reagan, paladino di politiche liberiste come la riduzione delle tasse alle classi più abbienti fu anche promotore di un’ingente spesa pubblica nel settore della difesa realizzando un “keynesismo militare” de facto. Potremmo altresì addurre il moderno esempio della Turchia di Erdogan, paese che ha decisamente deregolamentato la propria economia per contenere il peso dell’esercito e i diritti dei lavoratori facendo leva sul patto sociale con una borghesia religiosa o bigotta e desiderosa di arricchirsi ma che non per questo ha ridotto l’effettivo peso dello Stato, sia esso politico, militare ed in definitiva economico (2).
E’ interessante provare almeno ad elencare i nuovi strumenti militari che il mercato mette a disposizione dello Stato: la guerra economica e finanziaria, fatta di attacchi speculativi contro le borse e contro le valute di paesi obiettivo e con il supporto di fondi di investimento (3) e società di comodo vicine ai servizi segreti o addirittura di grandi finanzieri che si costituiscono “longa manus” della politica di alcuni Stati – qui il pensiero corre spontaneamente uomini come l’onnipresente George Soros; la nuova cyberguerra fatta con strumenti informatici prodotti da aziende terze (virtualmente sul mercato, si pensi al caso Hacking Team) nonché l’esternalizzazione della guerra e della sicurezza a mercenari e compagnie private, riducendo il costo economico di questa – e morale, e di opinione pubblica (4).
La costruzione del sistema internazionale del commercio nell’ambito del WTO e delle aree di libero scambio quali quella dell’Unione Europea, del NAFTA o dell’erigendo TTIP – sempre nell’ambito di mercati delle merci e della finanza liberi e deregolamentati e della privatizzazione dei beni statali – avvengono dunque per decisioni degli stati forti desiderosi di ritagliare nuovi spazi alle proprie economie nazionali. L’attivismo geoeconomico e strategico degli Stati Uniti nei paesi tradizionalmente loro alleati si somma a quello russo e cinese in quelli in via di sviluppo nonché a quello tedesco nel Vecchio Continente. Quello che dunque definiamo “liberismo” o “neoliberismo” (nonostante il “neo” non sia necessario essendo l’ideologia liberista sempre uguale a sé stessa dal XIX secolo) è in realtà la riedizione contemporanea e su presupposti mercatisti dell’antico mercantilismo – questo sì un “neomercantilismo”. Ritorneranno alla mente del lettore non a digiuno di letteratura marxista le pagine de “L’imperialismo, fase suprema del capitalismo” di V.I.U. Lenin: l’agire del capitalismo (o delle potenze non propriamente capitaliste ma comunque inserite nel concorrenziale mercato globale e nei mercati regionali, come oggi Cina e Russia) sfocia necessariamente in una qualche forma di imperialismo al fine di guadagnare alle proprie economie e alla propria produzione nuovi mercati. L’intuizione di Lenin è oltremodo attuale e potente. E’ un imperialismo militare classico – pensiamo agli USA in Iraq – ma che sempre più spesso si serve proprio dei nuovi strumenti di mercato: l’imposizione tedesca di politiche economiche a lei gradite agli altri paesi europei, la guerra speculativa e petrolifera contro la Russia di oggi e l’imposizione di una terapia d’urto liberista alla Russia di ieri, l’acquisizione ostile di aziende straniere. E’ lo Stato che crea dunque il mercato a propria immagine e somiglianza e per servirsene.
Questo pezzo non è altro che un breve spunto di discussione: i soli argomenti del “ritorno dello Stato” dopo i decenni ’80 e ’90 in cui se ne preannunciava la fine e della “Guerra Economica” meriterebbero enciclopedie. Speriamo di aver contribuito a lanciare il proverbiale sasso nello stagno suggerendo che il paventato neoliberismo contro cui tanto si strilla specialmente da sinistra (una sinistra che evidentemente Lenin non lo legge più) non sia altro che un neomercantilismo ben più subdolo e pericoloso per l’interesse nazionale italiano e la geopolitica delle nazioni in quanto ammantato – questo sì – dell’ideologia salvifica del mercato. Lanciamo dunque una domanda conclusiva: come mai vi sono Stati che accettano l’apertura dei loro mercati correndo il rischio di diventare terra di conquista – di razzia – neocoloniale? Una prima risposta è che si tratta di Stati deboli, oggetto e non soggetto delle decisioni altrui, retti da classi dirigenti imbelli o corrotte. Gli stati africani non possono che soggiacere al neocolonialismo attuato direttamente dalle grandi potenze o – per interposizione – dalle multinazionali. Gli Stati “ribelli” vengono bersagliati da “rivoluzioni colorate”, attacchi speculativi, bombe vere e proprie. La debolezza dei paesi europei a debole struttura statale – a causa di corruzione generale e totale della classe politica e della debolezza dei bilanci – li rende inani nei confronti della Germania. La debolezza dell’UE come entità politica rischia di renderla soggetta ai desiderata americani e all’operazione TTIP, il trattato che priverà di ogni protezione i mercati europei contro le più grandi, capitalizzate ed efficienti imprese americane che faranno trucioli delle nostre (si badi bene che il clima di scarsa trasparenza della negoziazione è di per sé indice di pericolosità) (5).
NOTE
1. Karl Polanyi, “La grande trasformazione: le origini politiche ed economiche della nostra era”, Einaudi, 2010
2. http://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2015/04/02/news/la-nuova-turchia-di-erdogan-ipermaschilista-e-con-il-corano-in-mano-1.206947: “Molte meno opportunità hanno invece i milioni di operai che da un decennio lavorano in quel mega cantiere edile in cui si è trasformata la Turchia nella sua corsa verso il progresso economico. Secondo le statistiche ufficiali, che registrano solo una frazione degli incidenti, 1.754 operai sono morti nei cantieri edili tra il 2008 e il 2012 mentre 940 sono rimasti menomati. Si tratta di un numero enorme, sette volte più alto della media europea, che indica come la sicurezza sul lavoro in Turchia rimanga un grande problema. Ma il governo anziché vigilare sulle società di costruzioni perché rispettino gli standard di sicurezza preferisce chiamare “martiri” i morti con l’aiuto di imam compiacenti che arrivano perfino a condannare le misure di sicurezza sul lavoro perché «pretenderebbero di equiparare l’uomo ad Allah, l’unico che ha potere di vita e di morte”.
3. http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-07-05/cia-silicon-valley-173944.shtml?uuid=AbTkFfBI “A quel punto il governo (USA, N.d.R.) ha creato la In-Q-Tel, un fondo di investimento destinato a finanziare le compagnie i cui prodotti potessero interessare alla Cia e agli altri servizi di informazione. Attualmente la In-Q-Tel controlla aziende come la FireEye o la Palantir Technologies il cui primo cliente è proprio la Cia”. Il libro “Intelligence Economica. Saggi di strategia preventiva” di Nicolas Moinet (Fuoco Edizioni, 2013) parla della In-Q-Tel come della “società di capitale di rischio della CIA”.
4. La bibliografia sulla guerra economica e sul ruolo tutt’altro che passivo che gli stati vi giocano per tutelare le proprie imprese è vasta. Tra i migliori titoli in lingua italiana segnaliamo: Giuseppe Gagliano, “La geoeconomia nel pensiero strategico francese contemporaneo”, 2015, Fuoco Edizioni e dello stesso autore “La nascita dell’intelligence economica francese”, 2013, Aracne; Carlo Jean e Paolo Savona, “Intelligence economica. Il ciclo dell’informazione nell’era della globalizzazione”, 2011, Rubbettino; Aldo Giannuli, “Come funzionano i servizi segreti”, 2013, Ponte delle Grazie. Un ottimo inquadramento generale sulla guerra moderna e postmoderna e sul ruolo dello Stato è “La Guerra oggi e domani” di Andrea Beccaro, 2010, Prospettiva Editrice. Sull’esternalizzazione delle attività belliche e di sicurezza il nostro http://www.eurasia-rivista.org/guerra-senza-guerra-sicurezza-disimpegno-e-delega/20768/
5. Ragionando solo in termini finanziari si pensi al differenziale di capitalizzazione dei mercati europei e americani, al differenziale di capitalizzazione delle maggiori multinazionali europee e di quelle americane, alla facilità di reperire risorse finanziarie sul mercato americano rispetto a quello europeo. Ciò è dovuto, tra gli altri, a tre motivi: il dollaro è la moneta internazionale delle materie prime e quindi il mercato americano può essere inondato di dollari senza particolari effetti inflativi, il mercato americano è quello dove i petroldollari ritornano per via del legame tra USA e paesi arabi ed è in definitiva un mercato finanziario che offre alti rendimenti e maggiori garanzie di stabilità e crescita rispetto ai finanziariamente asfittici mercati europei vittime della scarsità di investimenti – a tutta penalizzazione della “potenza di fuoco” delle imprese europee.
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