Il focus dell’agenda internazionale sul Golfo Persico e l’Iran, all’interno della dimensione più ampia del quadrante asiatico-mediorientale, configura l’intera area come luogo privilegiato delle frizioni in atto nel mutante contesto multipolare e lascia intravedere come la struttura delle relazioni internazionali dei prossimi anni sia presumibilmente lontana da un modello sostanzialmente cooperativo.

Tutto ciò implica come la nuclearizzazione del confronto sia in un senso una forzatura e in un altro la strada maestra scelta per la conduzione di un conflitto strategico che, in quanto tale, non si riduce ovviamente alla disputa sul programma iraniano di arricchimento e di sviluppo delle centrali. Insomma, decidere sul dossier nucleare per trattare la questione iraniana.

Il ruolo geopolitico

L’elemento di fondo da considerare per cercare di cogliere l’evolversi della situazione è la particolare posizione geografica nonché il modo in cui Teheran percepisce se stessa, cioè il suo ruolo geopolitico. Nell’attuale contesto internazionale, in fase di cambiamento con l’emergere di nuovi poli dopo la disgregazione delle egemonie bipolari, la Repubblica Islamica è al bivio tra due indirizzi caratterizzanti quali il ruolo di potenza regionale e la funzione di integrazione eurasiatica. I fattori relativi ad ambo le prospettive sono molteplici e in certa parte coincidono, specie se si immagina un percorso progressivo in cui quelli interni non possono prescindere da quelli esterni. Tuttavia, l’effetto strategico diverge in maniera sostanziale. Si è quindi aperta una conflittualità a lungo termine il cui risultato risentirà anche del peso degli attori principali, siano essi globali o regionali.

L’Iran sin qui si è al più barcamenato tra l’opzione regionalista e quella eurasiatica, ora attraverso cedimenti ora attraverso prese di posizione nette.

Il ruolo di potenza regionale comporterebbe l’esigenza di coniugare le istanze di influenza islamica sul mondo arabo e sulle circostanti comunità religiose con un necessario pragmatismo legato ai rapporti di forza tra Stati Uniti e Russia in quanto forze preponderanti e rispetto alle quali potrebbe agire solo di riflesso e con un raggio di autonomia comunque circoscritto. Non solo, la vocazione regionalista significa automaticamente incidere sui relativi equilibri con l’apertura di una competizione egemonica con Pakistan, Arabia Saudita, Turchia e soprattutto Israele. E se quest’ultima è una sfida per così dire orizzontale, ben più ardua sarebbe quella verticale rappresentata dal progetto americano di ridisegnamento dell’area, secondo i canoni del progetto del Grande Medio Oriente che permarrebbe come scelta strategica di controllo da parte di Washington, per quanto condizionato dagli eventi bellici e dalla tenuta economico-finanziaria.

L’opzione eurasiatica, invece, implicherebbe una funzione di integrazione continentale che l’Iran consoliderebbe, ad esempio, con l’ingresso nella Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (OCS) e nella Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (OTSC) e perseverando in scelte come quella dell’oleodotto Iran – Pakistan – India (IPI). Assecondando il processo integrativo, Teheran realizzerebbe una sinergia di intenti e di azione innanzitutto con la Russia, divenendo imprescindibile per la stabilizzazione dell’area caucasica e nucleo di raccordo – in continuità con Ankara – tra la penisola europea e lo spazio sino-indiano, in un continuum geopolitico che ingloberebbe le rotte energetiche e le sfere di influenza che Washington contende nella sfida vitale del Grande Gioco.

Tra i diversi nodi da sciogliere rimane particolarmente delicato quello dei rapporti con il mondo arabo. Al netto di considerazioni concrete anche se schematiche, la verve egemonica regionalista ma anche ideologico-religiosa della Repubblica Islamica è non solo prodotto dell’aprirsi di spazi strategici nell’avanzamento del policentrismo, ma anche del fallimento e del tramonto del grande progetto panarabo. Oltre la valutazione degli attriti e delle incongruità tra i vertici politici dei Paesi arabi, l’azione progressiva ed efficace di Stati Uniti e Israele di scardinamento dei movimenti nazionalisti, laici, socialisti e panarabi – l’autentica minaccia alle loro mire di egemonia e controllo – ha innescato, da essi stessi indotta, una spirale di integralismo islamico dalle mille facce anche in contrasto nel suo variegato mondo e che, nella sua impossibilità di essere ricondotto ad un unicum, attua una forte frammentazione all’interno delle comunità arabe e contribuisce a minare una sovranità già notevolmente limitata e in alcuni casi nulla.

Sicchè, nell’ordine delle azioni strategiche, il ruolo di Teheran nel Vicino Oriente se in questa fase è garanzia di sostegno ai gruppi armati di resistenza come Hamas ed Hezbollah, alla Siria come rimanente soggetto sovrano non integrato nella strategia statunitense e sionista (senza perdere di vista le relazioni con la Turchia), e fonte di ingerenza nella crisi irachena, sotto il profilo progettuale rimane un’incognita in considerazione dei fattori confessionali, etnici, politici ed economici. Fattori che sono basati su assonanze ed elementi comuni ma anche su significative differenze storiche e quindi, al di là delle contingenze, su differenze geopolitiche che rischierebbero di essere confliggenti ben oltre le reciproche diffidenze (guerra Iraq-Iran).

Al di là di tutta una serie di reciprocità storiche e tattiche degli iraniani con statunitense e israeliani, può realmente l’Iran contribuire (supporto finanziario e militare a parte) alla risoluzione della questione palestinese? Fino a che punto gli arabi accetterebbero un suo ruolo preminente nella regione? Quali i risvolti del rapporto tra il fattore identitario e quello geostrategico con gli iraniani? Fino a che punto può reggere il fronte di alcune forze contro nemici in comune e fin dove reggono gli accomodamenti tattici di altre forze o Paesi? Come possono conciliarsi le istanze laiche di alcuni Paesi o le divergenze confessionali – sia interne sia esterne – con un’eventuale forte influenza proveniente da una entità con una marcata connotazione clerico-sciita? In definitiva, perché abdicare a favore della potenza persiana, comunque estranea alla dimensione araba?

Probabilmente, se Teheran propendesse per l’opzione di integrazione eurasiatica, maturerebbe una sua funzione sicuramente autonoma e rafforzata ma naturalmente sinergica con gli altri attori continentali e andrebbero in parte a sanarsi delle difficoltà storiche ed estemporanee anche nell’incerto scenario delle relazioni nel Vicino Oriente e nel Golfo Persico.

L’interesse nazionale

La propria proiezione sullo scacchiere che l’Iran sta elaborando risente di due variabili generali non isolabili quali gli assetti e la struttura interna di potere da un lato, e il contesto internazionale e regionale dall’altro. A fronte di tali due variabili, l’oggettiva identificazione del suo status geopolitico rimanda allo sforzo di delineare e perseguire il suo interesse nazionale. Il tutto serba una logica.

La Repubblica Islamica risente di una sindrome da accerchiamento e cerca di garantire la propria sicurezza in un sistema internazionale notoriamente anarchico attraverso la valorizzazione della propria specificità e l’utilizzo razionale delle risorse a disposizione. Cosciente di incarnare uno snodo delle vie energetiche mondiali, è chiamato a conciliare interessi ed obiettivi propri con quelli di un’area instabile al cui interno ha l’assoluta necessità di procedere secondo i criteri di cooperazione e distensione, onde evitare di venire soffocata nelle sue ambizioni dagli eventi ancor prima di dispiegare il suo raggio d’azione. Parimenti, è questa anche una fase di inquadramento di amici e nemici strategici al fine di uscire dallo stato di pressione cui si sente sottoposto e che, soccombendovi, diventerebbe forse persino di isolamento. Situazione che non gioverebbe a nessuna delle parti in campo.

Sussistono due macro-elementi di fondo legati al suo interesse nazionale:

il primo: la sopravvivenza stessa del regime, la sua sicurezza e la sua difesa identitaria;

Nell’odierna fase internazionale, l’entità statuale religiosa iraniana costituisce una singolarità, in particolare nella sua connotazione sciita e nel suo afflato islamico extra-confini, tanto da avvertire la propria difesa come un dovere religioso in primis. L’aspetto identitario (per di più in una terra già incontro di civiltà diverse), oltre a quello interno, ha un risvolto fondamentale nel gioco di forze con gli altri attori, anche sotto il profilo mediatico e di immagine. Del resto, l’identità degli Stati può mutare nell’interazione con gli altri e nella struttura della politica internazionale, così come la percezione di una minaccia non prescinde dall’essere stesso del soggetto, o comunque dal profilo che di esso viene elaborato. Tant’è che oggi Stati Uniti e Israele reputano e veicolano – brandendo la loro consolidata leva politico-mediatica – l’Iran come un pericolo, una minaccia rispetto alla quale acconsentire ad una sua dotazione nucleare non potrebbe costituire una scelta per così dire neutra, proprio in considerazione del suo status di rivale ancor più oggi di ieri. Dal canto suo, la Repubblica Islamica vive la sua identità e modella il suo sforzo di sopravvivenza percependo gli USA come il suo altro da sé nonché come il simbolo di un neocolonialismo oppressivo di ritorno, di un imperialismo occidentalista che pone sotto scacco la sua missione e l’essenza stessa del mondo islamico. Lontano da assolutizzazioni di sorta, sarà comunque determinante individuare di che tipo sarà la sua commistione tra il fattore religioso di autoproclamato paladino dei musulmani e dei popoli oppressi, e il fattore laico dell’azione politica concreta. Essa non è un monolite e sta già da tempo tentando di delineare una personale combinazione di tradizione e modernità.

La percezione dell’accerchiamento di Teheran proviene da tre fronti instabili e pieni di incognite.

1) Nello scenario del Vicino Oriente, il tentativo di ritagliarsi una posizione di forza deve confrontarsi – come nel nucleo Palestina-Libano-Siria – con la propensione sionista e la spinta alla frammentarietà da parte di Israele e degli Stati Uniti, e con l’ambiguità delle petro-monarchie votate sia agli affari con gli occidentali che al sostegno dei vari gruppi sunniti. La partita curda e quella irachena sono poi una spina nel fianco alla luce di una conflittualità di varia intensità, ma nello stesso tempo un ottimo terreno di scontro e di compromesso con gli statunitensi, terreno sul quale gli iraniani stanno già spendendo la loro influenza in quello che è un gioco in cui l’instabilità prolungata rischia di logorare entrambi i contendenti, oltre che affossare una già compromessa sovranità irachena. Così come è evidente che un pesante controllo di Washington sull’Iraq farebbe di quest’ultimo una testa di ponte contro Teheran, il cui senso di insicurezza non può che aggravarsi in virtù del dispiegamento statunitense di mezzi e uomini nel Golfo Persico con la flotta schierata allo stretto di Hormuz, in aggiunta ad una costante operatività dell’intelligence nemica nei vari Paesi circostanti mediante un’attività non solo di spionaggio ma anche di supporto a gruppi armati e di opposizione sul fronte interno, dove si registra una continua pratica del soft power.

2) Nell’area del Caucaso meridionale-Asia centrale, gli iraniani rilevano numerose insidie: la presenza statunitense in Azerbaigian e Kirghizistan, il possibile allargamento della Nato, la mai conclusa questione delle risorse del Caspio, le possibili ripercussioni del conflitto nel Nagorno-Karabakh, le velleità irredentiste dei gruppi azerbaigiani a forte componente iraniana, la possibile estensione del fenomeno etero-diretto delle rivoluzioni colorate, la proiezione di Ankara nei territori turcofoni, l’esigenza di non allontanare Mosca almeno sul piano tattico.

3) Sul versante Est, le preoccupazioni concernono l’instabilità e la permeabilità del fronte Af-Pak dove agiscono svariati gruppi e organizzazioni e prospera il narcotraffico; il rinfocolarsi del fondamentalismo sunnita; il ruolo estensivo del Pakistan – solitamente avvertito con timore – nel territorio afghano, ma anche la preoccupazione di un suo eventuale disfacimento; la minaccia dell’installazione di basi statunitensi in Afghanistan quale determinante fattore logistico-militare e di pressione.

E’ evidente, quindi, che l’evolversi della situazione iraniana si lega al processo di stabilizzazione dell’Iraq e dell’Afghanistan quali tasselli ineludibili della nuova architettura di sicurezza statunitense nell’intera area che comprende lo schema di una crescente pressione sul fianco sud della Federazione Russa.

Il centro degli interessi di Washington scivola dall’Europa e dai Balcani all’Asia centrale, caspica e pacifica. Siffatta percezione di una minaccia costante ai propri danni induce Teheran a mosse di rafforzamento anche sotto l’aspetto militare, persino giustificando, in un contesto di marcato squilibrio di forze, l’ipotesi di un arma atomica di difesa o attacco.

Alla luce delle vicende post–Guerra Fredda concernenti il rapporto potenza egemonica – medie potenze, quella della guerra in Kosovo potrebbe essere fatta propria dagli iraniani: il ragionamento poggia sul presupposto che se Milosevic avesse potuto disporre di un apparato di difesa sufficientemente valido, la sua capacità negoziale rispetto all’Occidente avrebbe avuto maggior peso.

Per l’Iran, date le condizioni di accerchiamento, sanzioni di tipo economico-commerciale o simili opzioni coercitive non potranno che cristallizzare la sensazione di insicurezza e la percezione dei rischi per la propria sicurezza nazionale.

il secondo: l’intrinseca valenza geoeconomica del Paese

Le risorse energetiche e la relativa posizione pivot fanno del territorio persiano un moderno protagonista geostrategico. Esso non solo è a cavallo del Golfo Persico – il maggior canale di traffici petroliferi globali – , confinando con sette Paesi, ma vanta anche il privilegio di affacciarsi sul Mar Caspio che sempre più si configura come importante e contesissima rotta di transito intra-continentale per i prodotti energetici e commerciali. Il fiorire di numerosi progetti di oleodotti e gasdotti misura l’alto livello della sfida geopolitica in atto.

Teheran sa di avere un ruolo imprescindibile e mira ad utilizzare, sulla base di una piena ed effettiva “scomoda” sovranità, tali immense risorse nell’ambito di una prospettiva sviluppista e di crescita industriale che le permetterebbe di coltivare l’ambizione di divenire Paese guida nel progresso economico e tecnologico dell’intera regione del Golfo Persico. Ha un potenziale petrolifero enorme in virtù dei suoi 137,6 miliardi di barili in termini di riserve, pari al 10% su scala mondiale, con una produzione di 3,77 milioni di barili al giorno (ponendosi al secondo posto dietro l’Arabia Saudita nella classifica OPEC). Il suo altissimo livello delle esportazioni, contando sull’innalzamento del prezzo in un’area di instabilità, frutta una sostanziosa crescita del PIL tale da consentirgli una progettualità infrastrutturale di sfruttamento e ricerca, tra cui si annovera naturalmente anche l’opzione nucleare. Opzione questa che ha una giustificazione di fondo nel deficit energetico del Paese, come evidenzia il dato che lo vede al secondo posto dopo gli USA come importatore di benzina, a fronte di un consumo che da più di un decennio è sopra il 10%. L’alto fabbisogno comporta quindi un incremento della capacità di raffinazione che esso cerca di ottenere mediante la costruzione di nuove raffinerie sia all’interno sia all’estero, come dimostrano gli accordi con Siria e Venezuela (con il loro carico di risvolti politici).

Sia le consolidate potenze industriali sia quelle emergenti vedono nel greggio del Golfo una risorsa fondamentale per le impellenti esigenze di crescita e consumo, cosa di cui assolutamente tengono conto gli stessi Usa nella loro politica del contenimento nei confronti dell’Iran. Per gli statunitensi, infatti, la tela delle rotte petrolifere in quella zona è una pericolosissima causa di dipendenza e vulnerabilità.

L’altra formidabile risorsa energetica è il gas, di cui l’Iran detiene il 15% di riserve mondiali accertate e di cui costituisce il secondo produttore. In forza pure di imprecisati giacimenti da esplorare, gli iraniani puntano a fare di esso un settore chiave (e questa è una crescente tendenza globale) non solo in termini di competizione sui mercati, ma anche nei termini di un disegno secondo il quale sostituire progressivamente il gas al petrolio come principale fonte energetica, così da liberare per l’esportazione ulteriori disponibilità di greggio attualmente impiegate per il fabbisogno interno. Sempre più significativi e strutturanti sono le collaborazioni industriali e tecnologiche con Russia, Cina e India, per un combinato di partnership che inevitabilmente allarga la strategia anche al campo delle influenza politiche.

La combinazione di questi grandi vettori energetici, cui si sommano le grandi risorse minerarie ed agricole, con la disponibilità di una enorme forza lavoro in virtù di una popolazione prevalentemente giovane, alimenta la prospettiva di un Iran come potenza industriale ad alto consumo, con tutto il suo potenziale corollario di industrie nazionali, infrastrutture e patrimonio di conoscenze proprio.

L’arma dell’energia è contemporaneamente un’arma diplomatica che permette alla Repubblica Islamica di tessere la sua rete di relazioni e muoversi secondo una logica di difesa/attacco e azione/reazione. Si fa spesso riferimento ad una possibile ritorsione iraniana nel taglio della produzione di petrolio, ma ben più significativo sarebbe il progetto che ruota intorno alla Borsa di Kish, che rimane il simbolo di una terribile minaccia per gli Stati Uniti: la vendita del greggio non più in dollari ma in euro con il conseguente sconvolgimento del paradigma finanziario americano che finora consente alla superpotenza atlantica di librarsi oltre le sue possibilità.

Washington e Tel Aviv – al di là delle difformità contingenti – sembrano aver posto ormai l’Iran al centro di una contesa strategica. Alla lunga è un’azione per mettere fuori gioco dalle rotte energetiche e dalle sfere di influenza politica l’Europa, la Russia, la Cina, l’India, il Giappone nella competizione delle potenze.

A Teheran si gioca una partita della sfida eurasiatica.

Alfredo Musto, dottore in Scienze politiche e relazioni internazionali (Università La Sapienza di Roma), collabora con “Africana”

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