Il 46° Rapporto Censis (1) non lascia dubbi sulla gravità della situazione sociale del nostro Paese: drastico calo dei consumi, ricchezza finanziaria della famiglie dimezzata e milioni di italiani costretti a vendere beni mobili e immobili per garantirsi un tenore di vita decente. Nondimeno, nel giro di venti anni si è avuta una impressionante redistribuzione della ricchezza verso l’alto: il numero delle famiglie con una ricchezza netta superiore a 500.000 euro è passato dal 6% al 12,5%, mentre il ceto medio, che rappresenta il 60% della popolazione italiana, ha visto ridursi la sua quota di ricchezza dal 66,4% al 48,3%. Se si considerano poi il diffondersi del semianalfabetismo (meno di un italiano su due legge almeno un libro all’anno), il degrado del sistema educativo, l’aumento del tasso di disoccupazione, in specie giovanile, mentre migliaia di imprese falliscono, strette nella morsa di una crisi che spinge il nostro Paese verso il baratro della recessione, non è difficile rendersi conto che il Censis non esagera affermando che l’Italia sta affrontando un’autentica prova di sopravvivenza.
Inoltre, è palese anche il ruolo negativo svolto dalla maggior parte dei media nazionali se il 43% degli italiani ritiene che politica e corruzione abbiano causato la crisi, benché gli stessi ricercatori del Censis ammettano che la crisi non è ciclica e che vi è una perdita di sovranità, a tutti i livelli (politico, economico, sociale). Tanto che riconoscono che in Europa «nessuno è stato in grado di esercitare un’adeguata reattività decisionale. Nessun soggetto politico: Stato, partito, Parlamento; e nessun soggetto socio-economico: impresa, banca, sindacato, si è rivelato infatti più padrone della propria strategia d’azione, della propria operatività, del proprio stesso destino, tutti esautorati dall’impersonale potere dei mercati». Del resto, è pacifico che solo delle menti ottenebrate dal “Circo mediatico”, nazionale e internazionale, possono credere che i noti mali che affliggono da decenni il nostro Paese possano essere la principale causa di una crisi globale e strutturale che scuote fin dalle fondamenta tutto il mondo occidentale.
Ovviamente, non si deve sottovalutare il pericolo rappresentato dall’allargarsi della forbice tra politica e società – contro il quale giustamente il Censis mette in guardia, rilevando che le politiche di austerità non si saldano con i comportamenti dei soggetti sociali impegnati a difendere le loro condizioni di vita sempre più precarie e difficili. E tuttavia il richiamarsi alla “restanza del passato” (cioè alla restance, termine coniato da Jacques Derrida per significare contemporaneamente “resto” e “resistenza”), per valorizzare una “resistenza creativa” dei diversi soggetti sociali e sottolineare l’importanza di “essere altrimenti”, pare essere un sorta di “funambolismo verbale” che mira ad aggirare l’ostacolo di una analisi “disincantata” dei fattori geopolitici e geoeconomici che sono alla base dell’attuale crisi (dato che un’analisi di questo genere facilmente evidenzierebbe la necessità di un radicale mutamento di rotta rispetto a quella seguita dagli “eurotecnocrati” e decisa dai cosiddetti “mercati”).
D’altra parte, una volta riconosciuta l’importanza della questione della sovranità e del rapporto tra istituzioni politiche (nazionali e europee) e i “mercati”, è ben difficile negare che sia necessaria una ridefinizione politica della stessa Unione europea se non si vuole rimanere prigionieri della finanza mondialista. Peraltro, se il potere dei “mercati” è “impersonale”, non si può sostenere che sia completamente “anonimo” o completamente deterritorializzato, poiché non è affatto casuale che i centri di potere che controllano i “mercati” siano tutti atlantisti e “insediati” negli Stati Uniti. Né è casuale che i ricchi diventino più ricchi, né che questa crisi (che appunto non è affatto tale per i ceti occidentali più abbienti) venga “usata” dai tecnocrati europei per liquidare definitivamente il Welfare, approfittando proprio della corruzione e dell’inefficienza della politica. Insomma, come tante altre volte nel corso della storia del Novecento, si conferma che l’ “economico” è conflitto e che non c’è nessun metodo che consenta di fare gli interessi di tutti i Paesi e di tutti i ceti sociali indipendentemente da una idea di giustizia sociale e da un orizzonte di senso (liberamente) condiviso dai membri di un comunità, sia essa internazionale o nazionale.
In questo senso, se oggi sono i “mercati” a decidere, sono i “mercati” a fare politica e di conseguenza a favorire determinati soggetti geopolitici e determinati gruppi sociali. Pretendere quindi che gli interessi dei “mercati” siano gli interessi dei popoli o tutelino il bene comune, significa avallare, se ne sia consapevoli o no, una certa politica, o meglio una politica mistificata e mistificante. Ovverosia, in questa fase storica, una politica che non solo presuppone la liberalizzazione dei movimenti capitali, voluta dalla Thatcher e da Reagan, ma pure che i soggetti politici istituzionali (governi, parlamenti, partiti, movimenti) eseguano le direttive di alcuni centri di potere, che si configurano sì come poteri internazionali, ma al tempo stesso come poteri che veicolano, senza eccezione, una volontà di potenza atlantista. Sicché, non si può negare che la relazione tra politica e società venga a dipendere, di fatto, da quella tra la politica e i “mercati”.
Ed è questa relazione allora che dovrebbe essere ridefinita, anche per promuovere una politica meno corrotta e più efficiente. Vale a dire che è decisivo comprendere che si tratta di una relazione che è espressione di rapporti di forza geopolitici che si stanno ristrutturando non solo in funzione del declino relativo degli Stati Uniti, ma pure secondo quella “geopolitica del caos” che, anche per contrastare tale declino, ha reso possibile la creazione di una gigantesca bolla finanziaria. Il che mostra pure la miopia strategica della Germania e della stessa Francia, in quanto sembrano cercare di trarre il massimo profitto da questa situazione senza mirare ad alcuna emancipazione geopolitica del continente europeo, mentre il nostro Paese (e naturalmente non solo il nostro) sta per precipitare nel “vuoto” che negli ultimi due decenni si è generato tra l’economia reale e la finanza. Un “vuoto” che potrebbe invece essere colmato da una politica che si preoccupasse degli interessi dei popoli europei, anziché di quelli dell’oligarchia mondialista, liberandosi di ((pseudo)governi tecnici e “sganciando” gli Stati dai “mercati”, senza badare all’accusa di populismo (un’accusa sciocca e superficiale, che mira a colpire chiunque tenti di opporsi ai “mercati”). Un compito indubbiamente non facile, ma non impossibile, a patto che ci si renda conto che le sfide attuali si devono affrontare sia a livello nazionale che a livello europeo, promuovendo un nuovo paradigma geopolitico, imperniato sulla innovazione strategica e sulla collaborazione dell’Europa con le potenze emergenti.
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