Per capire quanto le rivolte arabe possano preoccupare altri regimi del mondo, bisogna guardare all’Estremo Oriente e più precisamente alla Corea del Nord. Se nel novembre del 2010 l’opinione pubblica guardava con attenzione l’affondamento della corvetta sud coreana Cheonan e il bombardamento dell’isola di Yeonpyeong – che produsse 4 morti tra i civili – facendo temere una nuova guerra coreana, oggi, ancora di più, le rivolte nel mondo arabo hanno fatto salire ulteriormente la tensione tra le due Coree e reso i due Paesi spettatori molto interessati, per motivi differenti, agli eventi in corso. La Corea del Nord vede nella “Primavera araba” un forte pericolo per la propria sicurezza interna; la Corea del Sud assiste apparentemente in maniera disinteressata alle rivolte, ma sarebbe pronta ad entrare in azione, attraverso azioni di propaganda, per indebolire il potere del Presidente Kim Jong Il. La situazione mediorientale potrebbe avere delle ripercussioni anche in quelle realtà che versano in situazioni di poca democrazia come la Corea del Nord? O ancora, la Repubblica Popolare Democratica di Corea può correre un timore concreto di subire una rivolta popolare anche nel suo territorio? Certezze in un senso o nell’altro non ce ne sono, ma di sicuro alcuni episodi fanno capire quale paura e quale nervosismo serpeggi nel regime nord coreano.
Le proteste in Corea del Nord
A riprova delle tensioni tra Nord e Sud Corea, è utile ricordare due episodi molto importanti, riportati entrambi dalla Korean Central News Agency (KCNA), agenzia di stampa ufficiale della Corea del Nord. Innanzittutto, lo scorso 27 febbraio, Pyongyang si sarebbe irritata con il vicino meridionale per «la campagna “psicologica” di propaganda e il lancio di volantini sul territorio nord coreano per informare sulle rivolte nel mondo arabo», minacciandolo, tra l’altro, di ricorrere ad azioni violente se non si fossero fermate tali dimostrazioni. In secondo luogo, il 30 maggio, la Corea del Nord ha interrotto nuovamente le relazioni diplomatiche con la Corea del Sud, e il governo nord coreano ha minacciato «rappresaglia “contro la guerra psicologica” anti-Pyongyang promossa da Seul». Non a torto, il regime nord coreano teme il contagio delle proteste in Medio Oriente sul proprio territorio a causa di motivazioni di carattere sociale ed economico, un po’ sulla falsa riga di quanto avvenuto anche nei suoi storici Paesi partner quali Egitto, Libia e Siria. Secondo quanto riferito dal Chosun Ilbo, il maggiore quotidiano sud coreano, lo scorso 14 febbraio sarebbero avvenute delle proteste nelle cittadine di Jongju, Yongchon e Sonchon, nel Nord Ovest del Paese, vicino al confine con la Cina: queste sarebbero state dovute alla scarsezza delle forniture elettriche e alla crisi alimentare che attanaglia il Paese. Sempre secondo la stampa sud coreana, sia nel vertice bilaterale sino-nord coreano, avvenuto la scorsa settimana a Pechino tra il Presidente cinese Hu Jintao e il leader nordcoreano Kim Jong Il, sia nel viaggio a Pyongyang del Ministro cinese della pubblica sicurezza Meng Jianzhu, si sarebbero discusse le misure più idonee da adottare in entrambi i Paesi per prevenire qualsiasi manifestazione contro i regimi.
L’obiettivo di Pyongyang sarebbe quello di impedire la diffusione di informazioni relative alle rivolte che si stanno verificando nella regione mediorientale attraverso il blocco totale dei media nazionali e internazionali. E’ di questi giorni la notizia che la Corea del Nord ha sospeso il noleggio di telefonini agli stranieri, richiedendo la consegna di ogni dispositivo di comunicazione al momento dell’ingresso nel Paese e che sarà poi restituito solo una volta partiti. Pyongyang, secondo quanto riferito dall’agenzia giapponese Kyodo, giustificherebbe il blocco al noleggio dei cellulari in modo da impedire l’arrivo di notizie dal Medio Oriente e dal Nord Africa che potrebbero influenzare i nordcoreani. Anche Radio Free Asia (RFA), un network che trasmette dagli Stati Uniti, ha riferito che la televisione di stato di Pyongyang non avrebbe ancora riferito della situazione in Medio Oriente, non comunicando nemmeno la caduta del Presidente egiziano Mubarak.
I legami storici tra le regioni
I legami tra le due Coree e il “Grande Medio Oriente” risalgono fin dalla Guerra di Corea (1950-1952). Seul ha goduto da sempre dell’appoggio israelo-statunitense, e favorita da una florida economia ha successivamente allargato i propri contatti diplomatici e commerciali a quasi tutti i Paesi dell’area mediorientale, con cui tuttora stringe forti rapporti di tipo economico-militare. Pyongyang, anche per effetto della Guerra Fredda e di quanto avveniva sulla scena mondiale dell’epoca, invece, si è trovata inizialmente ad essere piuttosto isolata dal punto di vista diplomatico e a godere, successivamente, dell’appoggio cinese e sovietico (poi russo). Solo dagli anni ’60-’70 ha iniziato a stringere legami politici ed economici con i principali regimi della regione mediorientale, quali Egitto, Libia, Iraq, Siria e Iran. Relativamente alla partnerships con questi ultimi due, l’amministrazione Bush ha parlato di “Asse del Male”, considerazione dettata dal fatto che la Corea del Nord abbia fornito tecnologia missilistica e programmi per lo sviluppo nucleare ai principali antagonisti di Israele. Storicamente, la Corea del Nord ha sempre appoggiato i suoi alleati in tutte le loro azioni, sia in guerra (come nel 1973 con lo Yom Kippur, in cui inviò 20 piloti della Korean People’s Air Force a sostegno delle forze egiziane), sia in ambito diplomatico-internazionale (come l’appoggio e l’aiuto economico-militare nella progettazione di un piano nucleare ad Iran e Siria). Risulta evidente come il ruolo di Pyongyang nella regione è notevolmente importante dal punto di vista politico-militare.
Allo stesso modo, l’alleanza ferrea esistente tra Sud Corea e Israele serve a fare da contraltare a possibili colpi di coda nord coreani. Nel gennaio di quest’anno, Seul ha aumentato del 25% il suo budget per la difesa, acquistando droni, missili e tecnologia radar da Israele. Inoltre, il sistema israeliano anti-missile, Iron Dome – sistema d’arma mobile, a carattere difensivo, capace di intercettare minacce a corto raggio, fino alla distanza di 40 km in tutte le situazioni meteo – può anche essere schierato in Corea del Sud per ridurre le capacità di deterrenza della Corea del Nord. A sua volta, l’aviazione israeliana ha definito l’acquisto di un numero indefinito di jet sud coreani T-50. La scelta di rafforzare i propri armamenti risiede nella condivisione del rischio, da parte israeliana e sud coreana, dei razzi contro i rispettivi centri abitati. Inoltre, il continuo riarmo di Pyongyang, consentito dal sostegno economico-militare cinese, non favorisce certo una distensione dei rapporti tra i Paesi.
Necessità politico-militare
Delineato un quadro generale tra i due assi – da un lato quello tra Israele e la Corea del Sud, dall’altro l’alleanza tra Iran, Corea del Nord, Siria, Libia ed Egitto – si può dedurre l’importanza di questi nelle dinamiche regionali. Lo scopo principale del secondo asse era quello di garantirsi la sopravvivenza attraverso un controllo dei media, attraverso l’appoggio dell’esercito e attraverso il rafforzamento di rapporti diplomatici strategici. Il regime nord coreano per sopravvivere alla propria debolezza è diventato il quinto maggiore esportatore mondiale di armi e già nel 1993 aveva firmato accordi di trasferimento di armi per 300 milioni di dollari con quasi tutti i Paesi. Questi mutui accordi hanno permesso ad entrambi di finanziare ed ampliare i rispettivi programmi di armamento al fine di colpire i rispettivi nemici, Israele e Corea del Sud. Conseguentemente la mutua cooperazione tra questi Stati ha portato di riflesso, anche i rispettivi nemici a doversi alleare per motivi di necessità e armare per difendersi da possibili attacchi. Pertanto, questa corsa al riarmo non ha fatto altro che portare più instabilità nelle rispettive regioni e minare la sicurezza interna degli Stati, i quali, non sentendosi sicuri da attacchi, hanno giustificato tale politica come necessaria per la propria sopravvivenza.
Prospettive e Conclusioni
L’ipotesi di una rivolta popolare che porti alla caduta del regime nord coreano sull’onda lunga delle contestazioni arabe, tuttavia, sembra ancora lontana quanto difficilmente ipotizzabile, poiché vi sono numerosi fattori che contribuiscono a conferire una relativa tranquillità al governo nord coreano. Innanzitutto il controllo dei media. Infatti, a differenza della Libia, dell’Egitto o della Siria, Pyongyang detiene un controllo totale sull’informazione nazionale ed internazionale grazie alla scrupolosa attenzione delle agenzie di sicurezza del governo. Come riportato da Freedom House, il Paese è posizionato agli ultimi posti per quanto riguarda la libertà di espressione dei media. Altro fattore che non dovrebbe produrre discontinuità con l’attuale regime è la fedeltà dell’esercito al Presidente, il quale grazie all’inserimento di persone di sua fiducia controlla tutti i reparti interni in modo da scoraggiare un qualsiasi tentativo di rivolta contro Kim Jong Il. Infine, la mancanza di una piena coscienza democratica tra i cittadini che porti ad una rivolta generale e non a manifestazioni sporadiche, incide notevolmente sulla possibilità di una continuazione del regime. Infatti, le proteste nelle tre città sembrano dettate più da motivi contingenti che da una reale volontà di cambiamento.
Ad ogni modo, proprio l’esistenza di queste manifestazioni dovrebbe portare il regime a non sottovalutare il rischio di sollevazione popolare. Certamente la crisi alimentare potrebbe rappresentare un punto delicato: una redistribuzione delle derrate alimentari, anziché un’azione repressiva, potrebbe costituire un segnale distensivo. Non a caso, gli ambasciatori nord coreani stanno chiedendo aiuto ad altri Paesi (Cina e Russia, in particolar modo) per avere cibo. Anche i diplomatici del Programma Alimentare Mondiale e della FAO sono in Corea del Nord per tentare di migliorare la situazione.
Il rischio, quindi, di un contagio in Estremo Oriente delle proteste nate in Nord Africa e in Medio Oriente, e soprattutto, dello spirito con cui sono state e sono condotte, può impensierire anche Paesi che si credevano invulnerabili. Pur non essendoci per ora reali condizioni di cambiamento, non è da esculdere che nuove manifestazioni popolari possano essere alla lunga un fattore propulsivo anche in questa regione del mondo.
* Giuseppe Dentice, Dottore in Scienze Internazionali e Diplomatiche (Università di Siena)
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